Wichita

Wichita è il quinto western all’interno della filmografia di Jacques Tourneur, nonché la sua penultima incursione nel genere (l’anno successivo arriverà L’alba del gran giorno); qui “sfrutta” uno delle figure più celebrate dell’epopea della wilderness, vale a dire Wyatt Earp, per ragionare sul concetto di “legge” e sull’eccessiva proliferazione di armi. Poco importa che nella realtà le cose in Kansas per Earp siano andate diversamente, perché si sa che nel west tra verità e leggenda è quest’ultima a trionfare.

Everything goes in Wichita

Dopo aver guadagnato una considerevole cifra di denaro cacciando bisonti Wyatt Earp raggiunge Wichita, città del Kansas in grande espansione dopo l’inaugurazione della ferrovia. Qui, nonostante un’iniziale ritrosia, accetta di assumere il ruolo di sceriffo, ma la sua amministrazione della legge sconcerta anche i suoi più accaniti difensori: Earp infatti legifera che nessun essere umano nella sua città possa girare armato. [sinossi]

«In the town of Wichita, Kansas, there was a man of Peace; things were wild in Wichita, Kansas, he told them all: “This killing must cease!». Così gorgheggia sui titoli di testa Tex Ritter, ed è evidente che l’uomo di pace altro non sia che Wyatt Earp, una delle star più celebrate dell’epopea western, trasformato in un vero e proprio eroe popolare in particolar modo grazie alla sua partecipazione – insieme ai fratelli e a John “Doc” Holliday – alla sparatoria divenuta celebre come la “sfida all’O.K. Corral”. Earp morì un po’ malandato e solo a Los Angeles ottantenne nel 1929, ed ebbe così modo all’inizio del Novecento di farsi un buon numero di amici a Hollywood, dove stava nascendo l’industria del cinema: conobbe bene Allan Dwan, ma anche John Ford, e raccontò alcune delle sue avventure (sulla cui assoluta veridicità sarebbe opportuno dubitare) a un giovanissimo John Wayne. Il cinema fu riconoscente nei confronti di questo narratore indefesso, e così Earp ricevette sempre un ritratto molto lusinghiero almeno nella fase classica della produzione western: l’oramai dimenticato Edward L. Cahn fu il primo a rappresentare in immagini la sparatoria all’O.K. Corral nel 1932 in Law and Order, ma sui fatti di Tombstone tornarono prima della fase crepuscolare del genere anche Allan Dwan (Gli indomabili, 1939), William C. McGunn (Tombstone, the Town Too Tough to Die, 1942), John Ford (Sfida infernale, 1946), John Sturges (Sfida all’O.K. Corral, 1957, ma anche L’ora delle pistole, 1967). In tutte queste opere, così come in altri film in cui il personaggio non è il centro narrativo della vicenda, Wyatt Earp è rappresentato come un integerrimo tutore della legge, che non ama di per sé il conflitto ma è costretto suo malgrado a utilizzare le armi per difendere la popolazione che vede in lui il garante dell’ordine e della tranquillità. L’inscalfibile figura di Earp è passata indenne perfino nelle forche caudine della demitizzazione che ha attraversato il western nell’ultimo cinquantennio, come confermano i coevi Tombstone di George Pan Cosmatos e Wyatt Earp di Lawrence Kasdan, usciti a sei mesi di distanza tra il 1993 e il 1994.

Non c’è dunque da stupirsi se anche Jacques Tourneur in Wichita (quinto dei sei western diretti dal regista franco-statunitense: nel 1956 con L’alba del gran giorno si chiuderà il rapporto con il genere) sceglie di mettere in scena Earp come uno sceriffo integerrimo, così fermo nelle sue convinzioni da non temere di farsi detestare dalla componente cittadina che più di ogni altra aveva creduto in lui. Un uomo tutto d’un pezzo, che non sceglie di parteggiare per nessuno eccezion fatta che per la “giustizia”, ed è per questo temuto dagli uomini e ammirato e amato dalle donne. Certo, si potrebbe suggerire come la verità abbia raccontato ben altro, visto che Earp fu sceriffo in Texas tra il 1874 e il 1876, ma aveva raggiunto la città in espansione perché lì suo fratello gestiva un bordello, e aveva bisogno di una mano – che gli diede anche l’allora moglie di Wyatt. Si potrebbe anche ricordare come dalla città lo sceriffo fuggì in fretta e furia, perché condannato per aver avuto a che vedere, pur nella funzione di sceriffo, con un uomo solo perché avversario politico del suo capo. Dopotutto Earp durante la sua vita fu tutto e il contrario di tutto, dal marshall al ladro di bestiame, dal giocatore d’azzardo al gestore di saloon, dal buttafuori di bordelli al cacciatore di bisonti, e in questo senso incarna davvero l’anima archetipica del vecchio west. Ma a Tourneur tutto ciò non può interessare, e lo testimonia con fermezza fin dalla scelta dell’interprete. Joel McCrea, al terzo western con Tourneur dopo Stars in My Crown e Il paradiso dei fuorilegge, arriva sul set cinquantenne, mentre Earp raggiunse Wichita a soli ventisei anni. D’altro canto Tourneur lo trasforma nel giustiziere per eccellenza, l’uomo nuovo che arriva in città solo e la lascerà dopo aver portato a termine il suo compito. Un idealtipo che travalica il senso della verità, ma in realtà non si lascia suggestionare più di tanto neanche dalla leggenda.

In qualche modo il suo Earp è parente stretto del Will Kane incarnato da Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, uomo ligio al dovere anche se questo può voler significare perdere tutto, dagli affetti più cari alla vita stessa. Tourneur narra la storia di un redentore, che arriva nella “Babilonia sul fiume Arkansas” (come viene chiamata da uno dei personaggi del film), la città del bestiame dove gli affari aumenteranno a dismisura ora che è arrivata la ferrovia, e di fronte a una cittadinanza ebbra delle sue tre W – Wine, Woman, Wichita – certifica che nessuno potrà mai più entrare in città con addosso un arma. Le scorribande dei cowboy, che dopo il duro lavoro nel trasporto delle mandrie si danno alle libagioni nei saloon, devono terminare perché di mezzo ci è andata la vita di un bambino di appena cinque anni. Tourneur trova una chiave morale per affrontare un film che per il resto sembra seguire un canovaccio abbastanza canonico, e sceglie di mettere in scena la figura virile per eccellenza del western, vale a dire il cowboy, sotto una luce sinistra: ladruncoli pronti a rubare nella notte, viziosi che si lanciano nella braccia delle prostitute, ubriaconi della peggior risma, avvezzi a modi intimidatori, pronti a estrarre la pistola dalla fondina non per disarmare (come sovente fa invece Earp) ma solo per uccidere. È su di loro che Tourneur costruisce due delle sequenze più mirabili del film, il lungo incipit in cui il solitario protagonista si imbatte in un gruppo di cowboy che stanno conducendo il bestiame verso la città, e quindi Wichita messa a ferro e fuoco di notte dagli stessi bovari, che sparacchiano dove capita, distruggendo finestre e lampioni. Di fronte a un disordine così estremo la pace può essere portata solo rinunciando all’utensile per eccellenza del genere: la pistola. Ma questo non significa solo far infuriare i cowboy, che si vedono deprivati del loro divertimento, ma anche i capisaldi della cittadina che in ottemperanza al Capitale preferiscono il guadagno alla sicurezza. Ancora una volta, come già accaduto ne I conquistatori, Tourneur mette in scena l’impossibilità dell’utopia in un mondo selvaggio com’erano – ma, e il film lo sottolinea, come sono ancora – gli Stati Uniti d’America. In appena un’ora e venti, contravvenendo in apparenza a quasi tutte le regole della “buona” scrittura – l’incipit prende da solo un quinto dell’intero film, la scintilla amorosa tra McCrea e Vera Miles scocca addirittura dopo quaranta minuti, tra l’elemento scatenante della vicenda (la morte della madre di Miles colpita da un proiettile vagante mentre si trovava in casa propria – non esiste sicurezza neanche nella proprietà privata) e la risoluzione finale trascorrono a malapena dieci minuti –, Tourneur riesce con estrema secchezza a immettere su uno schema predefinito la propria poetica, il proprio sguardo sul mondo, il proprio stile. Mirabile come sempre l’utilizzo del fuori campo, così come la ricerca di una profondità che serve a fornire allo spettatore una visione non stereotipata e predigerita della narrazione. In tal senso si veda di nuovo lo splendido crescendo del baccanale notturno dei cowboy, irruzione dal caos così distruttiva da trovare nella fermezza di McCrea un argine desiderato in primis dallo spettatore. Nell’immagine in silhoutte al tramonto di Earp e della sua novella sposa che si allontanano da Wichita si può già intravedere l’arrivo a Denver di Owen Pentecost nel successivo L’alba del gran giorno: la visione del western da parte di Tourneur merita un approfondimento che finora in pochi gli hanno concesso.

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