Jean-Marie Straub è morto
A ottantanove anni se ne va Jean-Marie Straub, tra gli ultimi grandi cineasti della stagione del rinnovamento del cinema europeo; un approccio intellettuale, fortemente dialettico, in cui il Tempo e la Storia diventano cinema, e viceversa. Lui e Danièle Huillet, morta oramai sedici anni fa, hanno fatto del cinema un atto di resistenza etico e formale.
Dopo Jean-Luc Godard, Jean-Marie Straub. Con la morte del cineasta nativo del Grand Est sembra svanire forse definitivamente la stagione della grande insurrezione contro il cinema borghese, e il suo dominio incontrastato. Se ne va a ottantanove anni, Straub, quasi novanta visto che li avrebbe compiuti il prossimo gennaio, e lascia un vuoto incolmabile anche se in troppi faranno finta che così non è. Lascia un vuoto che è quello della storia stessa del cinema europeo moderno, che rifiuta in blocco la produzione istituzionale (la sua compagna di sempre Danièle Huillet non ottenne di accedere all’Institut des Hautes Études Cinématographiques nel 1948 perché trovando indegno un film di Yves Allégret si rifiutò di commentarlo) e dimostra come una forma dialettica, decisa a ragionare sul Tempo e sulla Storia, potesse indicare una via differente. Un cinema disertore, come fu lo stesso Straub che abbandonò la Francia per rifiutare la chiamata alle armi nella guerra in Algeria, e che quindi divenne apolide: in Germania per Cronaca di Anna Magdalena Bach, e poi per la collaborazione con l’Action-Theater di Rainer Werner Fassbinder – che nel 1968 chiude i battenti dando il là all’Antiteater – e quindi in Italia, a Roma, dove la coppia va a vivere a piazza della Rovere, a due passi dal Gianicolo. L’idea è quella di girare un’opera tratta da Corneille al Palatino.
Francesi rifiutati dalla Francia, tedeschi per un decennio, poi romani e addirittura siciliani, quando presero a modello il siracusano Elio Vittorini per Sicilia!, o piemontesi nel rileggere Cesare Pavese (si pensi a Dalla nube alla Resistenza e Quei loro incontri), Straub e Huillet hanno rappresentato con il loro cinema una forma di resistenza etica e cinematografica, in cui il rigore serve anche a ricordare la non naturalezza della settima arte. Nel 2001, durante un dibattito al trasteverino Filmstudio, Straub affermava: “Niente è naturale, niente. Se tu vedi un film che ti dà l’illusione di vedere qualcosa di naturale, vuol dire che quello che lo ha fatto è un mascalzone. Niente nel cinema può essere naturale, qualcuno può dare l’impressione di farti vedere la realtà dal buco della serratura, ma quello è un pornografo”. Per poi aggiungere poco dopo: “Nelle inquadrature che facciamo tutte le cose che le compongono hanno gli stessi diritti, questa è la democrazia. È la stessa cosa che io dico all’inizio di ogni dibattito col pubblico: per noi tutte le domande fatte dagli spettatori meritano la stessa attenzione. Se tu vai al cinema per vedere un film devi essere costretto ad accordare la stessa attenzione a una lucertola, una mosca, l’aria che cambia, una macchia di luce o di colore che si posa su un attore, che non è mai interessante per se stesso, perché l’attore non è il centro dell’universo, è solo una piccola parte dell’inquadratura: per noi ogni centimetro quadrato del fotogramma ha la stessa importanza, non può essere che il naso dell’attore abbia un’importanza maggiore. L’uomo non è mai stato al centro dell’universo, ha cominciato a credere di esserlo nel Rinascimento, e a quel punto ha cominciato a saccheggiare il nostro pianeta. Il lavoro dell’artista consiste nel materializzare delle sensazioni, più esse sono materializzate in maniera forte, precisa, più quell’artista fa bene il proprio lavoro. In questo modo di procedere la tecnica non ha nessuna importanza, è solo un mezzo. In certi film per il 90% non si vede nulla sullo schermo, vuol dire che quelli che hanno fatto quei film non vedevano nulla e dunque sullo schermo non potevano lasciare nulla. Essi filmano prima di vedere. E poi delegano tutto alla tecnica pensando che essa possa fare il lavoro per loro. Ma la tecnica risponde solo se dietro c’è un cervello, se c’è un cuore, se c’è gente che ha delle sensazioni, sentimenti, rabbia, amori. Se non c’è, la tecnica non esiste”.
L’uomo inserito nel contesto, paesaggistico/storico/politico, e la dialettica che si viene a formare. In pochi hanno posseduto il rigore di Straub e Huillet (dopo la sua morte nel 2006 Straub ha continuato a dirigere da solo, ma il fantasma della sua presenza aleggia in ogni inquadratura), e altrettanto pochi l’hanno compreso, interiorizzato, studiato. Si possono ricordare le risate di scherno durante la proiezione stampa veneziana di Quei loro incontri, che con coraggio Marco Müller aveva inserito in concorso, o le ancor più vergognose scene di vibranti proteste durante la proiezione all’auditorium Parco della Musica di Chambre à gas, chaise éléctrique, scelto dall’allora neonata Festa del Cinema di Roma proprio per omaggiare la cineasta da poco scomparsa. È giusto rammentare queste immagini becere, indegne, squalificanti, perché testimoniano più di qualsivoglia studio analitico la portata politica del cinema di Straub e Huillet, la loro tempra morale, un’attitudine che non si è piegata di fronte a nessuno. A ottantanove anni se ne va Jean-Marie Straub, e lascia un vuoto incolmabile, un cinema democratico nell’accezione più alta e quindi mai realizzata del termine. Senza più molte parole, strozzate in gola, ci si affida allora a Friedrich Hölderlin, da Straub così amato: “Chi pensa il più profondo, ama il più vivo, sublime gioventù intende, chi ha guardato nel mondo, e finiscono i savi sovente con inclinare al Bello”.