Safe Place
di Juraj Lerotić
Con il suo esordio al lungometraggio Safe Place, il croato Juraj Lerotić scrive, dirige e interpreta una discesa all’interno delle personali claustrofobie di un irrisolto dramma familiare per creare, almeno nell’illusione del cinema, una seconda possibilità per parlarsi, per affrontare i non detti, per metabolizzare il dolore, la mancanza, i rimpianti. Un film di punti di fuga rigorosamente verso il cielo e di infinito amore fraterno, già pluripremiato a Locarno e, a pochi giorni dalla menzione speciale ottenuta al 34mo Trieste Film Festival, sbarcato anche nella sezione Harbour del 52mo International Film Festival Rotterdam.
Voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi
Un evento traumatico, un tentativo di suicidio, crea una frattura nell’esistenza quotidiana di una famiglia. Le loro vite cambiano radicalmente, travolte da una guerra invisibile agli occhi di chiunque altro. La storia è autobiografica e l’autore e regista interpreta se stesso. [sinossi]
Tutto cerca una sua verticalità nella claustrofobia, in Safe Place. A partire dall’aspect ratio, un 1,50:1 solo di poco più panoramico del 4/3, ulteriormente frammentato da porte, muri, alberi, palazzi, vetri, scaffali, cornici di ogni tipo. Spiragli rigorosamente rivolti verso l’alto, come a portare sempre e comunque lo sguardo verso il cielo, verso il vero destinatario delle parole che vengono (ri)messe messa in scena, verso quella lama di luce che squarcia il buio quando si apre la porta e si trova il proprio fratello insanguinato dopo un tentativo di suicidio. Parte da un suo personalissimo trauma, Juraj Lerotić. Parte da una telefonata allarmante, da una porta sfondata, da una corsa contro il tempo in ospedale. Parte dalla voglia di dirsi quelle parole che non si è fatto a tempo a pronunciare, parte dal sogno di reincontrarsi almeno su uno schermo, parte dalla necessità di superare in qualche modo il dolore, dal desiderio di giustizia di fronte alla probabile negligenza ospedaliera, e forse pure un po’ dal senso di colpa per quella scelta al contempo umana e imprudente di portarlo via, da Zagabria alla nativa Spalato, per vederlo nuovamente entrare in crisi e sentirsi dire da un sistema sanitario forse ancora più gelido e incurante che «la finestra era aperta». Lo dice quasi subito come andrà a finire, il giovane autore croato, con il disvelamento esplicito del senso del film al momento del primo salvataggio del fratello in ospedale. Basta uno stacco di montaggio, una leggerissima modifica alla fotografia, l’ingresso nell’immaginario. Con il camice del paziente allettato che diventa per un attimo la camicia con cui di lì a poco lo avrebbero seppellito, con un’impossibile sigaretta fra le sue dita identica a quelle che gli avrebbero messo con amore nella bara, e con la dichiarazione programmatica del regista di lasciare inalterati i nomi dei medici coinvolti, mentre la drammatizzazione della storia familiare in qualche modo sembrava richiedergli un alter ego con cui tornare alla giusta distanza. È per questo che il regista non interpreta esattamente se stesso, ma il quasi identico Bruno, che allo stesso modo fornisce al fratello Damir un sostegno assoluto, illimitato, una protezione reciproca talmente carica di affetto e genuinità da non poter fare a meno di perdere lucidità e freddezza – Damir che mentre tenta di suicidarsi pulisce il suo sangue per l’irrazionale paura che potessero incriminare Bruno, o ancora che teme che Bruno si suicidi vedendo in lui uno specchio delle proprie fragilità o forse capendolo più in profondità di tutti gli altri, mentre Bruno non esita a mentire per Damir, non esita a nasconderlo, non esita a fuggire con lui nella notte, non esita a vegliarlo in ogni momento di crisi. Non esita a incarnarsi su uno schermo per riportarlo in vita, per poter ancora parlare con lui, per poterlo ancora proteggere pur sapendo sin da subito di essere condannato ancora a fallire. Sarebbe dovuta essere una semplice TAC, pochi minuti dopo i quali rivedersi e sorridere ancora insieme. Ma è rimasto solo il gelo.
Un drammatico arco narrativo lungo poco più di 24 ore, fatto dei continui cambi di reparto di un sistema sanitario insensibile e disfunzionale – quasi una proiezione in Croazia di quella che nella Romania di Cristi Puiu fu la notte di passione de La morte del signor Lazarescu – e di una polizia ancora più cinica e distaccata nel porre a un uomo in forte crisi psicologica e ai suoi parenti le domande più accusatorie. Per un film fatto di crescenti paranoie e di insanabili malinconie, di una serie di scelte con cui chiudersi a riccio nell’abbraccio familiare e della certezza di un epilogo tragico che fuga sin da subito ogni illusione sulla possibilità di cambiare il corso degli eventi. Del resto non cerca alcun tipo di ucronia, Juraj Lerotić. Non cerca una seconda possibilità in cui tentare di girare in maniera diversa qualche sliding door. Non avrebbe alcun senso salvare Damir sullo schermo quando in ogni caso, dopo i titoli di coda, non sarebbe possibile evitare di tornare a interfacciarsi con quello che è veramente stato, con la realtà di una mancanza dolorosissima, e con la necessità di doverci per forza fare in qualche modo i conti. Quello che conta, al contrario, è ripercorrere la parabola per come è stata, con tutte le (in)decisioni e tutti gli errori, con tutta la dignità di una famiglia e tutti i tracolli di un esordio psicotico, con tutte quelle parole dette e con l’occasione di dirsi finalmente anche quelle solo pensate, con cui chiedersi scusa a vicenda e dichiararsi quanto, nonostante tutto, ci si voglia ancora bene. Quello che conta è non dimenticare un fratello, quello che conta è sentirlo ancora e per sempre vicino, quello che conta è dimostrargli come l’affetto incondizionato non conosca una fine, non si possa esaurire in un dolore, non possa uscire dai pensieri, dalle ispirazioni, dalle più profonde necessità creative. È per questo che la fantasia di poterlo vedere spuntare ancora una volta sul bordo della piscina non può che rimanere sin da subito confinata sullo schermo, nel sogno, nel mondo delle idee, mentre Safe Place, a partire dal suo titolo ironico e amarissimo, segue una traiettoria che consapevolmente rimane sospesa fra la vita e la morte ma che già sa che non potrà fare a meno di tendere progressivamente verso la morte, fra la ricostruzione immaginaria e la realtà ma che già sa che non potrà fare a meno di tendere progressivamente verso la realtà, fra il personaggio Bruno e la persona Juraj Lerotić ma che già sa che non potrà fare a meno di tendere progressivamente verso il regista che porta su schermo il suo vissuto. Con una messinscena rigorosissima, fatta di lunghi pianisequenza statici e poi di improvvisi movimenti di macchina, di vetri che dividono la malasanità e l’affetto familiare in una sostanziale doppia esposizione, di frammenti che spezzano l’immagine creando un asfissiante senso di vuoto, un cono d’ombra impenetrabile come la malattia mentale, o forse come il senso di impotenza nel rendersi conto di non riuscire ad aiutare realmente chi più si ama.
Può essere semplicemente una cupa depressione, il male che affligge Damir. Può essere disturbo bipolare, può essere schizofrenia, può essere tutto e può essere niente. Non è più questo ciò che importa, è troppo tardi per pensarci. Anche gli psichiatri, del resto, per tutto il corso del film glissano, non rispondono, quasi sembrano prendere in giro la preoccupazione di una madre e di un fratello, preferendo le corde di contenimento e la sedazione con gli psicofarmaci al dialogo. In qualche modo unici immuni all’intensità dello sguardo di tristezza profondissima di Damir, con cui lo straordinario interprete Goran Markovic, tornato dalla prima mondiale dell’ultima Locarno con il meritatissimo premio come miglior attore mentre Juraj Lerotić faceva doppietta di allori come miglior regista esordiente della sezione Cineasti del Presente e come migliore opera prima dell’intera kermesse ticinese, costantemente buca la parete dello schermo invitando gli spettatori alla condivisione del suo strazio, della sua mente sofferente, della sua assenza psicologica mentre guarda fisso nel vuoto, o di quella fisica quando non si trova più in casa e Bruno non può fare altro che correre invano in giro per tutti i posti da cui è possibile suicidarsi, salvo poi ricevere l’ennesimo glaciale disinteresse di una polizia che preferisce la compilazione corretta dei moduli all’urgenza di una denuncia di sparizione. Uno sguardo vacuo e devastato in cui si racchiude ciò che più rimarrà di un esordio cinematografico sorprendente e prezioso, formalmente sontuoso ed emotivamente potente nella sua umanità lacerata e profondissima, nei suoi sentimenti fraterni, nella sua inusitata malinconia. Un film livido e disilluso, onesto e tormentatissimo, con cui Juraj Lerotić, premiato dopo Locarno anche a Sarajevo e a Ljubljana, fino alla Menzione Speciale la scorsa settimana al Trieste Film Festival da cui volare direttamente, come sospinto dalla Bora fino ai forti venti olandesi, nella sezione Harbour del 52mo Festival di Rotterdam, si inoltra nel dolore più profondo della propria famiglia, nelle crescenti paure paranoiche del fratello e nello stargli vicino dei parenti nei momenti più difficili, nelle loro ripetute illusioni e nella loro impotenza di fronte all’inevitabile corso degli eventi, nelle tappe che hanno portato alla (in)evitabile morte di chi non c’è più e alla denuncia degli ospedali che lo hanno avuto in cura senza nemmeno provare ad aiutarlo da parte di chi è rimasto. Un cinema che vuole essere un’ultima carezza, un ultimo impossibile abbraccio finale, un occhio che si fa ancora una volta lucido. L’unica possibile occasione con cui ripercorrere l’angoscia alla ricerca di una catarsi, con cui affrontare di petto i fantasmi e i rimpianti, con cui finalmente tentare di metabolizzare un trauma forse insuperabile nella ricerca estrema di una giustizia, di un ultimo momento insieme, di quell’intuizione apertamente teatrale in cui poter dire apertamente al fratello suicida, almeno una volta, almeno nell’illusione drammaturgica, che può passare tutto il tempo del mondo, che possono esserci chissà quanti e quali incontri, che possono esserci chissà quali e quante scelte di vita, ma ancora e per sempre «ti penso spesso». Può esistere qualcosa di più sinceramente commovente?
Info
Safe Place sul sito di Trieste.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Sigurno mjesto
- Paese/Anno: Croazia | 2022
- Regia: Juraj Lerotić
- Sceneggiatura: Juraj Lerotić
- Fotografia: Marko Brdar
- Montaggio: Marko Ferković
- Interpreti: Goran Markovic, Juraj Lerotić, Snježana Sinovčić Šiškov
- Produzione: Pipser
- Durata: 102'
