2/Duo

Restaurato per i 25 anni dalla sua realizzazione, giunge a impreziosire la retrospettiva panasiatica del Far East il magnifico 2/Duo, opera seconda che nel 1997 svelò al mondo il talento del nipponico Nobuhiro Suwa. Un film direttamente figlio della Nouvelle Vague secondo Jacques Rivette, fatto d’amour fou, incomunicabilità e frustrazioni, di crisi di coppia e di comportamenti manipolatori, di controcampi negati e di silenzi assordanti, di piccole crepe che diventano progressivamente punti di rottura sempre più insanabili e di miracolose improvvisazioni sulla base di una sceneggiatura fatta leggere e poi volutamente dimenticare agli attori. Ma anche un saggio sul cinema come esperienza collettiva di recitazione e messa in scena, sul rimanere nel personaggio anche fuori dal set, sulla capacità di creare insieme un’intensità drammatica dall’eccezionale potenza espressiva.

L’appartamento

2/Duo racconta la vita quotidiana, apparentemente leziosa, di Kei, un aspirante attore, e Yu, una giovane commessa in un negozio di abbigliamento. Quando lui incomincerà a scaricare la sua frustrazione per gli insuccessi lavorativi su di lei, diventerà chiaro come l’amore che entrambi provano l’uno per l’altra non possa essere sufficiente per stare insieme. Con la loro relazione tormentata Suwa racconta passione e alienazione con un linguaggio che dal quotidiano aspira all’universale. [sinossi]

Basterebbe il lungo e potentissimo pianosequenza centrale, per riassumere 2/Duo. Una scena per molti versi miracolosa, di un’intensità drammatica ai limiti dell’insostenibile nei suoi ripetuti mutamenti d’umore, che parte dall’emergere del punto di rottura della coppia con l’inevitabile crisi di nervi in cucina di chi troppo ha sopportato e represso per non esplodere, prosegue con un duro litigio fra i due protagonisti, è costretta a cambiare radicalmente direzione ed emozioni con i sorrisi forzati nel momento in cui entrano in casa le amiche invitate che nonostante il tentativo di dissimulare capiscono subito come qualcosa non vada, proseguirà con una nuova e disperata crisi di pianto di lei dopo la frettolosa e imbarazzata partenza delle ospiti e infine si chiuderà con la delicatezza dell’ennesimo abbraccio di nuova calma e per lo meno temporanea rappacificazione. Più di otto minuti senza stacchi in cui deflagra tutto lo scuotimento emotivo dei personaggi principali, in cui tutto il desiderio residuo e tutta la forza dei sentimenti che ancora li legano si scontrano con tutta la sfibrata frustrazione del lungo tempo già passato a macerare e a farsi vicendevolmente del male, in cui tutta la fragilità e tutta la tossicità del loro rapporto d’amore e incomunicabilità trovano definitivamente il loro punto di innesco ma anche l’ennesimo istante di complicità e di quiete dopo la tempesta, mentre nella loro interdipendenza sta diventando sempre più chiaro come l’unica possibile salvezza per entrambi sia riuscire in qualche modo ad allontanarsi. Ma soprattutto più di otto minuti senza stacchi in cui sono portate fino alle estreme conseguenze tutte le possibili forme di recitazione – quotidiana, professionale, domestica, sociale, teatrale, cinematografica – su cui Nobuhiro Suwa, nello straordinario lavoro di gruppo con il direttore della fotografia Masaki Tamura e soprattutto con i suoi attori protagonisti Eri Yu e Hidetoshi Nishijima invitati a improvvisare dopo avere letto una sola volta e dimenticato la sceneggiatura originale, aveva deciso nel 1997 di incentrare la sua opera seconda, recentemente restaurata per i suoi 25 anni e proiettata in tutto il suo desaturato splendore al Far East 2023 nell’ambito della retrospettiva panasiatica. Uno psicodramma fatto di contrasti e di sfumature, di piccole crepe che diventano voragini e di semi del dubbio che si fanno progressivamente derive esistenziali. Ma anche un saggio sul cinema come esperienza collettiva di recitazione e messa in scena, sulla funzione espressiva dell’immagine e sulla macchina da presa come parte integrante della scena, sul costruire così minuziosamente in estenuanti sessioni di prove i personaggi da spingere gli attori a continuare a viverli anche fuori dal set, a pensare per loro e a soffrire per loro, fino a trovare nel profondo di se stessi le giuste parole da far loro pronunciare e le vere emozioni da far loro vivere al momento delle riprese. Per un film che meriterebbe a pieno diritto di essere considerato fra i più importanti capolavori dell’intero suo decennio, e che invece la generale e ingenerosissima sottovalutazione con cui – nonostante le successive ribalte internazionali di M/Other e del magnifico H Story oltre al relativo successo dei lavori realizzati in Francia – deve da sempre fare i conti un grande autore come Suwa, ha nel frattempo relegato a gemma nascosta, pressoché dimenticata a dispetto del suo eccezionale valore.

Per mettere in scena la quotidianità tossica di Kei e Yu basta poco o nulla, a Nobuhiro Suwa. Gli basta un appartamento in cui ambientare la stragrande maggioranza della vicenda coadiuvato solo da una manciata di location d’appoggio per qualche rara esterna (il negozio in cui lavora lei, il locale in cui incontrare amici e nemici, la fabbrica, il campo da baseball in cui lui si ritrova solo), gli bastano due soli attori principali al tempo pressoché sconosciuti e giusto qualche piccolo cameo sparso per i ruoli di supporto (fra cui una giovanissima Makiko Watanabe, che negli anni successivi sarà per Sion Sono la Kaori di Love Exposure e la madre di Sumida in Himizu, mentre con Suwa tornerà a lavorare nel 2020 per Voices in the Wind), e gli basta una sola macchina da presa – per la prima volta in 35mm dopo l’esordio in passo ridotto – con cui cercare di volta in volta il giusto punto di vista. Ed è forse proprio qui, nelle scelte dei punti di vista, che sta principalmente il film. Perché la forma è il contenuto in 2/Duo, in una perfetta corrispondenza tanto rara quanto preziosa. Lo è nel metodo di lavoro da qualche parte fra John Cassavetes e il Jacques Rivette de L’amour fou, lo è nell’intensità della drammaturgia, delle recitazioni e del linguaggio cinematografico con cui valorizzarle, lo è nei continui rimandi tematici e linguistici, pur filtrati e ammantati di cultura e società nipponica, alla Nouvelle Vague francese (ancora Rivette e la sua disgregazione emotiva e familiare messa in scena fra le quinte di un teatro, ma vengono in mente anche l’alienazione del Philippe Garrel de La concentration e la disperazione dell’Eustache de La maman et la putain, oltre alla quasi citazione di Godard e del suo La Chinoise quando in ben quattro occasioni, due per protagonista, interviene la voce fuori campo dello stesso Suwa per intervistare i personaggi ponendo direttamente domande a chi li interpreta). Ma soprattutto, come si diceva, la forma è contenuto nelle inquadrature che sono in qualche modo specchio linguistico del rapporto fra i protagonisti, del loro progressivo logorarsi, del loro amore folle eppure (o forse proprio per questa follia) impossibile da continuare a vivere insieme. Una messa in scena che Suwa orchestra per lo più in piani a due fissi o al massimo in leggera panoramica, magari un po’ sghembi e sbilanciati (si veda la sequenza d’apertura, con il lui al centro della scena e lei che appena si intravvede parziale dietro lo stipite di una porta suggerendo sin da subito la sua marginalizzazione) ma in qualche modo stabili così come lo è al principio la loro relazione, per poi decidere al momento dell’esaurimento, dello scricchiolio e della definitiva (?) disgregazione di togliere la cinepresa dal cavalletto e lasciare spazio per pochi minuti, in attesa di trovare un nuovo punto di equilibrio, ai leggeri fremiti di incertezza della macchina a mano, tremolante come il loro logorarsi interiore, come la loro indecisione, come le spinte opposte dei loro sentimenti contrastanti. Ma non si limita certo a sottolineare i momenti di stabilità e contrasto, la grammatica cinematografica di Suwa. Ci sono anche i segni di interpunzione, con le insistite ellissi temporali che, proprio come i non-detti di Kei e di Yu, dopo pochi secondi di schermo nero ritornano inevitabilmente alla stessa opprimente inquadratura di prima, ci sono anche le asimmetrie e gli specchi che, proprio come sono asimmetrici e a specchio (e destinati a rompersi) i rapporti di forza nella relazione dei protagonisti, a più riprese sbilanciano la composizione dell’immagine, e soprattutto ci sono anche i momenti-cardine della narrazione nei quali, più per narcisismo di lui che per reale convinzione di coppia, si parla di matrimonio, in cui immancabilmente uno dei due protagonisti rimane sempre di spalle in un controcampo negato. Visibile eppure in sostanza invisibile, in campo eppure in sostanza fuori dal campo, senza volto, irrimediabilmente parziale. Come il loro nascondersi e non capirsi, come le risposte evasive e la manipolazione con cui l’attore fallito Kei scarica la sua frustrazione sulla commessa Yu, come il silenzioso sopportare e reprimere di lei che non potrà che portarla al punto di ebollizione e alla fuga.

Il resto è un’esplorazione delle oscurità dell’amore e della vita quotidiana sempre in bilico fra l’aggressività e l’affetto. Un viaggio nelle dinamiche di coppia ma soprattutto nei sentimenti contrastanti, che come ogni esplorazione dei sentimenti contrastanti non può essere del tutto razionale ma è giocoforza in gran parte emotiva, né può avere una conclusione realmente definita ma al massimo una suggestione, aperta come sono sempre aperti i palpiti del cuore. Una storia di logorio e di (stra)ordinaria incomunicabilità quotidiana in cui tutti, anche chi diventa carnefice, sono sostanziali vittime. Kei lo è della società, dell’emarginazione e di ciò che non va in se stesso e che in un momento di difficoltà esplode all’improvviso proprio contro chi ama e lo ama fino a fargli meritare la solitudine e la mancanza, e Yu che da chissà quanto tempo lo sostiene e lo mantiene anche economicamente nei suoi continui fallimenti lo è di lui e della sua follia forse temporanea o forse più radicata e inestirpabile, dei suoi improvvisi scatti di nervi e del suo narcisismo egoriferito, dei suoi sbalzi d’umore e del suo orgoglio squarciato e da rimpolpare reagendo nel peggior modo possibile. Con dialoghi serrati ed assordanti silenzi in cui le risposte si fanno sempre più evasive e alle difficoltà dialettiche si risponde con la rabbia, con comportamenti via via sempre più maschilisti e manipolatori, con la costante pressione di chi crede di guardare alla coppia ma riesce a vedere solo se stesso (esemplare in tal senso l’egoismo intrinseco della risposta «non voglio realmente sposarmi, ma il matrimonio è l’unico modo per ricominciare» che il protagonista darà al regista nel corso della sua seconda intervista). Con una violenza domestica che, a parte una stanza che in un’altra scena da antologia per intensità e potenza Kei mette a soqquadro sostanzialmente perché consapevole di essere in torto ma incapace di chiedere realmente scusa, non sfocia mai in quella fisica, eppure è una violenza devastante dal punto di vista psicologico per l’oppressione esercitata su Yu dalla persona di cui più si fida, per i continui ricatti morali che innescano in lei i più immotivati sensi di colpa, per il continuo reprimere il dolore e fare finta di nulla sperando o forse illudendosi che a Kei passi e che possa realmente cambiare, o per lo meno tornare quello di prima, quello con cui giocare e divertirsi insieme senza rischiare reazioni spropositate, quello che era stato capace di farla innamorare. Una persona che Yu non riesce più a capire, o che forse, nella sua iniziale convinzione che la proposta di matrimonio di Kei sia l’esercizio per la battuta da dire in un film e non un reale moto dal cuore, capisce molto meglio di quanto l’insincero Kei riesca a capire se stesso. È per questo che, dopo troppi soprusi gratuiti subìti e troppe telefonate ipocrite di scuse del mattino dopo, dopo troppe altalene fra la più inusitata tenerezza e la furia più vulcanica dell’ennesimo scatto d’ira, Yu non può fare altro che sparire nel nulla e lasciarlo solo e squattrinato con i suoi fallimenti, con la sua nostalgia, con il suo bisogno di abbandonare i voli pindarici e iniziare a cavarsela da solo, ma soprattutto, auspicabilmente, con la sua autocoscienza e con i suoi rimorsi, con il suo bisogno di aprire gli occhi, da solo o aiutato da qualche persona amica, e capire per la prima volta di essere diventato un mostro e di dovere al più presto cambiare. Saranno poi il tempo e il caso, tutt’al più, a segnare un nuovo incontro, a far valutare se la fiamma è ancora accesa o spenta, a far riflettere se valga o meno la pena di concedere una seconda possibilità a chi tanto ha saputo fare del male, consapevoli di giocare con il fuoco e con sentimenti contrastanti, ma anche di avere imparato a domarli, di essere più forte e più emancipata, di avere definitivamente spostato gli equilibri e di non avere alcun rimpianto né dipendenza residua. Basta decidere se fare o non fare un passo: o fuori o dentro, o soli o insieme, o una vita o l’altra. È solo l’immaginazione di Kei di nuovo solo e disperato o è davvero Yu quella figura che sta inaspettatamente varcando la porta e tornando a casa? È davvero una nuova possibilità o è solo l’ennesima illusione? E, a parte il nuovo lavoro di lui e la relativa stabilità raggiunta, quella sua assoluta convinzione di essere finalmente maturo e pronto per meritarsela è segno di un reale cambio di mentalità oppure è solo l’ennesima promessa insincera?

Info
2/Duo sul sito del Far East.

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