Where Spring Comes Late
di Yōji Yamada
Where Spring Comes Late, che arriva a un anno dalla prima sortita cinematografica di “Tora-san” ma è collegato alla lunghissima saga solo per la presenza in scena di alcuni attori, è una delle molte riflessioni portate avanti da Yōji Yamada in sessant’anni di carriera. Qui il discorso si lega a un attraversamento del Giappone durante la sua espansione industriale, dal profondo sud dell’isolotto di Iōjima al freddo siberiano delle campagne di Hokkaidō. Un’opera struggente, in grado di cogliere con naturalezza le più piccole sfumature dell’umano. Proiettato in una splendida copia in 35mm al Far East 2023, all’interno del doveroso omaggio alla protagonista Chieko Baishō.
La primavera intanto tarda ad arrivare
La famiglia Kazami, composta da marito, moglie, un bimbo di tre anni e una neonata, si imbarca in un viaggio lunghissimo, dall’isola di Iōjima nella prefettura di Nagasaki in cui sono nati e cresciuti fino all’estremo nord di Hokkaidō. Il motivo di tale faticosa traversata da fare in treno è il fatto che l’uomo ha lasciato il suo lavoro di muratore con il sogno di diventare allevatore di vacche, come un suo ex collega. Con loro viaggia anche l’anziano padre dell’uomo, che nei piani originari dovrebbe fermarsi a Fukuyama, dove vive il suo secondo figlio. Ma le cose non andranno come previsto. [sinossi]
Se ci si affida a Google Maps e si mettono come coordinate di viaggio la partenza da Iōjima e l’arrivo a Hakodate, prima stazione in cui ci si imbatte dopo l’approdo a Hokkaidō, si scopre che oggigiorno una distanza simile è colmabile in poco meno di un giorno, che diventano addirittura meno di quattro ore se invece di scegliere il treno si opta per un più comodo e rapido aereo. Cinquant’anni fa la povera famiglia Kazaki, protagonista dello straordinario Where Spring Comes Late (in originale 家族, vale a dire Kazoku: su questo si tornerà più avanti), impegnata nel medesimo tragitto sa di avere di fronte a sé addirittura tre giorni pieni di viaggio, di treno in treno, di città in città, sempre più lontani dalla loro isola natia, nel caldo assolato del Kyūshū, delle tre isole principali del Giappone quella più meridionale. Ed è su altro isolotto, per l’appunto Iōjima (oggi collegato alla terraferma da un grande ponte, ma all’epoca raggiungibile solo col traghetto – come d’altro canto si vede nel film) che i Kazaki sono nati e cresciuti, in una piccola comunità cattolica che ancora di più li rende sempre più marginali all’interno di una nazione che è shintoista e buddista nella stragrande maggioranza della popolazione. Operai e minatori, questi sono gli abitanti di Iōjima, abituati alla sofferenza, alla fatica di un lavoro spossante per una paga miserevole, e dunque con il fianco aperto fin da subito al ricatto di un sistema del Capitale che si è semplicemente sostituito a quello feudale senza modificare in maniera sostanziale i rapporti di forza. Così il più ricco dei conoscenti dei Kazaki, colui che può permettersi un viaggio a Osaka per diletto e non per mera necessità, palpa senza neanche porsi il minimo scrupolo morale Tamiko, la giovane donna che con suo marito Seiichi, i loro due figlioletti (il più grande ha tre anni, la secondogenita è praticamente neonata), e il padre dell’uomo hanno deciso di abbandonare gli affetti e le amicizie affrontando un viaggio onerosissimo per le loro povere tasche e spossante. Il motivo è quello dei pionieri del vecchio west, cercare fortuna altrove, al nord dove gli abitanti sono pochi e la terra da utilizzare per gli allevamenti è tanta. Un collega minatore di Keiichi si è trasferito lì, e ha consigliato all’amico di raggiungerlo: partirebbe anche da solo, l’uomo, ma Tamiko non ha alcuna intenzione di disgregare la famiglia. Ecco dunque i Kazaki abbandonare la loro povera casetta, staccando anche il cognome dall’architrave ligneo, salutare tra mille abbracci la comunità di cui facevano parte – e che li ha aiutati in modo sostanziale per il viaggio, grazie a molteplici donazioni – e imbarcarsi alla volta della terraferma, dove potranno finalmente prendere il primo dei molti treni che chilometro dopo chilometro li porteranno a destinazione.
家族, come si scriveva dianzi, si legge Kazoku, e dunque famiglia: il lirismo del titolo internazionale commuove alla sola lettura – cogliendo dunque uno degli aspetti centrali del film – ma nella secchezza del titolo originale, che non ha bisogno di orpello alcuno, si può leggere in filigrana la cristallina purezza dello sguardo di Yōji Yamada, all’epoca neanche quarantenne e da circa un decennio impegnato dietro la macchina da presa. Yamada, che solo un anno prima di Where Spring Comes Late aveva dato vita sul grande schermo al personaggio cui legherà parte fondamentale della propria carriera (Tora-san, “resuscitato” al cinema dopo essere deceduto, morso da un serpente velenoso, nel dramma televisivo sempre diretto da Yamada: le innumerevoli lettere di protesta dell’affezionato pubblico spinsero la produzione a donare nuova vita al simpatico Torajiro Kuruma impegnato nel ruolo di un venditore ambulante), ha tra le corde della propria poetica un afflato sentimentale in cui la famiglia ricopre un significato peculiare, e il modo in cui vengono tratteggiati i membri della famiglia Kazaki lo testimonia in modo particolarmente forte e struggente. Basterebbero i meravigliosi flashback virati nei cromatismi più differenti per marcare in modo netto la cesura tra vita presente e immagine stagliata nella memoria per rendersi conto di come Yamada cerchi prima di ogni altra cosa di comprendere i propri personaggi, di sentirne in profondità il battito del cuore, lo sperdimento dietro ogni sguardo al vuoto. C’è un dolore intimo che lega i Kazaki, un dolore che è sic et sempliciter il dolore della vita stessa, dello svolgersi del tempo, di ciò che c’era e non c’è più, di un passato che non è mitizzato perché significativo in modo particolare, ma solo perché è per l’appunto passato, già vissuto, non replicabile. Le tappe della famiglia Kazaki sono molte, e tutte in un modo o nell’altro rappresentano una tappa per far sì che il pubblico possa connettersi a queste cinque persone, tre adulti e due bimbi, e a coloro che incontrano lungo la strada. Fukuyama, dove vive il fratello di Keiichi che dovrebbe, ma non sarà così, prendere con sé Genzō, l’anziano padre; Osaka, dove si tiene l’Esposizione Universale; Tokyo, da dove parte il treno per l’estremo nord; Hokkaidō, dove la primavera non arriva prima di giugno.
È l’inizio di aprile quando i Kazaki lasciano Iōjima, in una giornata assolata. Yamada contrassegna ogni singola tappa con una didascalia in cui viene riportato il luogo e anche il giorno, quasi a voler ribadire la centralità del viaggio in Where Spring Comes Late, eppure il Giappone che mostra, in tutta la lunghezza della sua spina dorsale, non ha nulla della nazione cui lo spettatore occidentale è abituato a tendere lo sguardo: non vi sono templi, nel film – l’unico edificio religioso è la chiesetta dell’isola natia –, non ci sono i ciliegi in fiore, non si vede neanche il Fuji perché quando Genzō fa notare alla nuora la presenza del monte fuori dal finestrino lei non fa in tempo a girarsi che già il panorama è mutato, e la vista è occlusa da costruzioni umane. File di enormi fabbriche con i loro miasmi accompagnano i Kazaki per l’intero viaggio. Il Giappone è mutato, vuole correre per diventare una delle più importanti potenze economiche mondiali: non a caso la famiglia viaggia anche sullo Shinkansen, il treno proiettile inaugurato nel 1964 a un paio di giorni dall’inizio delle Olimpiadi di Tokyo. Il treno superveloce, le fabbriche, le miniere che chiudono lasciando solo canti nella memoria degli anziani, l’Esposizione Universale, le nuove “american farm” da aprire nelle vaste lande senza abitanti di Hokkaidō: il Giappone moderno è visto come un corpo in movimento che non può neppure con le sue comodità (il treno, per l’appunto) sanare il dolore della perdita di un figlio, o dell’abbandono della propria casa. C’è uno struggimento avvertibile con forza in ogni singola inquadratura di Where Spring Comes Late che non solo rimarca la straordinaria capacità di Yamada di dare vita a esseri umani ben oltre la superficie del personaggio, ma che parla di un mondo morente, e di un’umanità considerata da tutti di seconda classe che non potrà trovare “fortuna”, ma solo la possibilità di vivere e lavorare ancora insieme, non più sotto padrone ma con una terra gelida da imparare a trattare. Solo così una nuova primavera potrà davvero arrivare, solo così la vita tornerà ancora nascere, e ancora e ancora, perché l’uomo è a sua volta parte della natura che lo circonda.
Ovviamente Yamada non rinuncia ad alcuni dei suoi attori feticcio della saga dedicata a Tora-san (Chieko Baishō, Chishū Ryū, Shin Morikawa, Chieko Misaki, perfino lo stesso Kiyoshi Atsumi, vale a dire Tora in persona) e guarda anche in modo fertile e mai pedissequo alla storia stessa del cinema giapponese: nel dialogo tra fratelli in cui si deve decidere con chi dei due vivrà l’anziano padre, e con lui che non visto origlia dal tatami con sguardo addolorato, non si può non leggere il riferimento a Viaggio a Tokyo di Yasujirō Ozu, tanto più che il personaggio di Genzō è interpretato da Chishū Ryū che nel capolavoro del 1953 donava voce e corpo proprio al capofamiglia sballottato di figlio in figlia insieme alla moglie. Nel posare gli occhi su un’opera somma come Where Spring Comes Late si fatica a non chiedersi come sia possibile che il cinema si sia così tanto inaridito in appena cinquant’anni, incapace per lo più oramai di comprendere e sentire davvero i sentimenti dei caratteri che porta in scena. Visto al Far East Film Festival 2023 in una splendida copia in 35 millimetri fornita da Shochiku, Where Spring Comes Late è il motivo per cui hanno ancora senso i festival, luoghi dove ci si può imbattere nella storia del cinema per capire qualora vi fossero dubbi con quanta forza anche oggi è in grado di parlare. E quando, pur in ritardo, la primavera realmente arriva si può anche tornare a sorridere, e a credere nella vita, e nel suo quotidiano svolgersi.
Info
Where Spring Comes Late sul sito del Far East.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: Kazoku
- Paese/Anno: Giappone | 1970
- Regia: Yōji Yamada
- Sceneggiatura: Akira Miyazaki, Yōji Yamada
- Fotografia: Tetsuo Takaha
- Montaggio: Iwao Ishii
- Interpreti: Chieko Baisho, Chieko Misaki, Chishū Ryū, Gin Maeda, Hajime Hana, Higashi Igawa, Kiyoshi Atsumi, Shin Morikawa, Tokue Hanazawa
- Colonna sonora: Masaru Sato
- Produzione: Shochiku
- Durata: 106'