A Hot Roof

A Hot Roof

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Ambientato in una torrida estate sudcoreana, A Hot Roof di Lee Min-yong è una scatenata commedia dalla forte tematica sociale che tuttavia non disdegna gli strumenti della demenzialità e della comicità più bassa. Al Far East Film Festival 2023 di Udine per la retrospettiva Greatest Hits from ’80s & ’90s.

Girl Power

Durante una caldissima estate sudcoreana, nel cortile di un condominio si scatena una feroce ribellione femminile a seguito dell’ennesimo episodio di violenza subito da una moglie da parte del consorte. Mentre gli uomini testimoni dell’accaduto non muovono un dito per difendere la vittima, le donne raccolte nel cortile a frescheggiare si avventano sull’aggressore mandandolo all’ospedale in fin di vita. All’arrivo della polizia il gruppo di donne si rifugia sul tetto dell’edificio, sollevando a poco a poco un’ampia partecipazione popolare e mediatica nell’intero Paese. [sinossi]

Mescolare i generi, lavorare in una dimensione creativa in cui i generi finiscono anzi per non sembrare nemmeno contemplati. L’alto e il basso. L’impegno sociale e la commedia demenziale. Mettere tutto insieme in estrema libertà. E libertà è già un termine che presuppone lo svincolarsi da regole pregresse. Magari invece no; si tratta semplicemente di modalità altre di intendere il racconto cinematografico. Nella retrospettiva Greatest Hits from ’80s & ’90s del Far East Film Festival 2023 è apparso, per la sua première italiana, anche A Hot Roof (Lee Min-yong, 1995), opera prima sudcoreana che, come spesso accade con il cinema dell’Estremo Oriente, manda all’aria consuetudini produttive ed espressive come le può intendere un occhio occidentale. Ambientato in un’estate torrida neanche troppo alleggerita dai condizionatori tenuti accesi a intere giornate, il film racconta l’esplosione di una ribellione femminile nel cortile di un condominio a seguito dell’ennesimo maltrattamento subito da una giovane moglie da parte del violento consorte. Le vicine di casa, raccolte nel cortile a rinfrescarsi, si accaniscono contro l’aggressore fino a mandarlo all’ospedale in fin di vita. All’arrivo della polizia le donne non ci stanno a farsi arrestare e si barricano sul tetto dell’edificio sollevando a poco a poco un’enorme partecipazione popolare e mediatica nell’intero Paese.

All’esplosione della violenza si è arrivati dopo un’introduzione discretamente allungata nel tratteggio dei personaggi narrati e dei loro rapporti di forza, dove si è lasciato spazio anche a qualche timido accento erotico. Per le abitudini ricettive occidentali il linguaggio adottato appare rapido e naif, estremamente disinvolto nella giustapposizione di tematiche serie, violenza e toni scopertamente demenziali, registri spesso evocati in perfetta simultaneità all’interno della medesima sequenza. In quanto alle risorse finanziarie ed espressive verrebbe da parlare di un cinema povero, ma fortemente inventivo sul piano della creatività. Benché la comicità faccia spesso e ampiamente da compagna di viaggio al racconto, non si può neanche parlare di grottesca dissacrazione concettuale di tematiche alte. Alla causa femminile il film e il suo autore sembrano credere molto, e anche convintamente. Soltanto che per giungere a tale scopo non si disdegna di ricorrere a strumenti mutevoli e apparentemente stridenti, come può essere una reiterata messa in ridicolo dei personaggi evocati. Il gruppo di donne che, agguerritissime, si asserragliano sul tetto con atto vagamente memore di Se… (Lindsay Anderson, 1968), è in realtà narrato con rispetto e al contempo con ironia affettuosa, in particolare per il profilo della più attempata. Alcune di loro sono vittime altrettanto inconsapevoli di una visione di vita densamente borghese (la signora perbene che insiste per far passare ogni decisione dalla collegialità dell’assemblea condominiale…), ma dal fondo emerge, sempre più urgente, la necessità di fare fronte unito e di superare qualsiasi steccato all’insegna di una totale inclusività – c’è spazio, appena a metà degli anni Novanta, anche per un personaggio transgender. Semmai, le armi più aguzze della dissacrazione comica sono riservate all’universo maschile, e in particolare al duo di ladri che inopinatamente si trovano imprigionati in un appartamento da svaligiare poiché incastrati dalla ribellione femminile in corso nel condominio.

Si tratta di un subplot che corre parallelo al racconto principale con un buon margine di arbitrarietà, apparentemente aggiunto come puro e semplice diversivo che sia fonte di divertimento per il pubblico. In realtà i due ladri finiscono per essere gli unici protagonisti maschili di un certo peso, animatori di siparietti spassosi ben volentieri piegati alla comicità bassissima fino alla pura scatologia. In primo luogo, sono due personaggi maschili sommamente stupidi, ulteriore occasione nell’ottica del film per attaccare il maschio nella sua indefessa minchioneria. Secondariamente, Lee mostra un paio di finezze nel loro tratteggio che definiscono ulteriormente precise linee espressive. Da un lato, i due mostrano crescenti e trattenutissimi riferimenti a un rapporto di coppia (i continui battibecchi, l’estrema vicinanza fisica da assonnati, la testa di uno appoggiata sulla gamba dell’altro…), scherzosamente privati dunque della loro specifica virilità all’interno di un film che in qualche modo vuol depredare il maschio del suo ruolo schiacciante in società. Dall’altro, in ambito di becera virilità Lee sottolinea l’abitudine di uno dei due ladri a dormire con una mano infilata nelle mutande, quasi a proteggersi lo strumento di cotanto atavico potere. Sotto la minaccia della montante ribellione femminile è meglio mettersi al riparo. Al contempo, quel gesto è anche frutto di esaltazione di sé e del proprio ruolo sociale tramite uno dei simulacri più archetipicamente simbolici. La fallocrazia è in pericolo. Mettiamoci in salvo, fin che si può.

Per il resto il tessuto narrativo di A Hot Roof è punteggiato di trovate comiche una dopo l’altra della natura più diversa, mentre il discorso sociale sulla questione femminile sembra tutto fuorché occasionale, sorretto da una roboante e ruspante fierezza, ancorché proveniente da un autore maschile. La macchina da presa è mobilissima, zoom e sinuosità panoramiche comprese. Il montaggio pure è rapidissimo. In questo ormai lontano cinema sudcoreano di metà anni Novanta percepiamo una netta distanza rispetto alle abitudini percettive occidentali, così come è altrettanto evidente la distanza rispetto all’attuale cinema sudcoreano, che sul medesimo impasto di generi diversi ha perseguito e raggiunto algidità, rigore e squisitezze di tutt’altro tenore stilistico. A Hot Roof è cinema popolare e terraceo, fatto di corpi che sudano, corpi sporchi, corpi spesso fieramente inestetici. Seguendo le orme del narrato il linguaggio è altrettanto sporco e irregolare, pieno di libertà e infrazioni al codice. E intanto le donne si ribellano. Il Girl Power esplode. Signora mia, dove andremo a finire.

Info
A Hot Roof sul sito del Far East.

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