Dust in the Wind

Dust in the Wind

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Visto al 25° Far Est Film Festival nell’ambito della retrospettiva A/B side VIBES. Greatest Hits from ‘80s & ‘90s, Dust in the Wind di Hou Hsiao-hsien è un caposaldo della New Wave taiwanese, un racconto della Taiwan anni Sessanta, del rapporto tra città e campagna, centro e periferia. Una storia d’amore interrotta dalla chiamata alla leva, che racconta il clima di tensione che il paese ha sempre vissuto.

Ricevette una lettera

Dopo aver terminato la scuola media, Wan lascia la sua città natale per Taipei. Con lui c’è Huen, la ragazza con cui è cresciuto. Nella capitale i due conducono un’esistenza molto difficile ma felice. Poi, Wan viene arruolato per il servizio militare, della durata di tre anni. Forse Huen si sente troppo sola mentre il ragazzo è via: si sposa prima che lui torni. [sinossi]

Con un viaggio in treno, con due ragazzi in piedi su un vagone, comincia Dust in the Wind, una delle tante meraviglie cinematografiche partorite dal genio di Hou Hsiao-hsien, un caposaldo della New Wave taiwanese che è stato possibile rivedere al cinema Visionario di Udine durante il recente Far East Film Festival, nell’ambito della retrospettiva A/B side VIBES. Greatest Hits from ‘80s & ‘90s. Da un lato il treno ci porta al pendolarismo dei personaggi, tra la dimensione del villaggio e quella della metropoli, al rapporto tra centro e periferia nella Taiwan degli anni Sessanta. Per chi vuole trovare un parallelo con il cinema di Ozu, questo è un elemento convincente. I treni, gli orologi delle stazioni, i segnali ferroviari, i semafori e quei grovigli di cavi elettrici, elementi di modernità, ci riportano al paesaggio di tanto cinema giapponese. Del resto, Hou Hsiao-hsien, nel suo omaggio dichiarato a Ozu, Café Lumière, comincerà il film proprio con un convoglio su rotaia.

Dall’altro lato la prima scena crea un’alternanza di luce e buio, nei passaggi nelle gallerie, metafora della fragilità della vita di quei personaggi, che tornerà nel film, negli improvvisi blackout e soprattutto nelle attività dei minatori. Ma il buio e la luce riguardano anche il cinema, in chiave di caverna platonica. Come già in I ragazzi di Feng Kuei, sono numerosi, in Dust in the Wind, i momenti al cinema, le proiezioni interne. Wan e i suoi amici a Taipei, in una stanza arredata con poster di film, parlano di andare al cinema gratis, il che è un richiamo ai personaggi che si intrufolavano in sala in I ragazzi di Feng Kuei. Al cinema vanno a vedere un wuxia, genere antitetico alla concezione visiva primaria di Hou Hsiao-hsien, che guarda il mondo da lontano in uno sguardo d’insieme fatto di long take estesi. L’esatto opposto della frammentazione ipercinetica dei film di cappa e spada e arti marziali hongkongesi, genere con cui il regista taiwanese si confronterà quasi trent’anni dopo con The Assassin. Vicino alla sua concezione il secondo film, che si vede in Dust in the Wind, all’aperto, con un lenzuolo come schermo, con una scena dove una fila di oche attraversa un ponte, inquadrate da lontano. Si tratta di un’opera del maestro di Hou Hsiao-hsien Li Hsing, Beautiful Duckling, del 1965. All’inizio avevamo visto quello schermo rudimentale che veniva issato, aggiustato a fatica contro il vento che lo faceva svolazzare. Quest’ultima, come la grande veduta dal palazzo in costruzione di I ragazzi di Feng Kuei, appare come l’immagine più emblematica del cinema del Maestro taiwanese, un lenzuolo bianco che oscilla, sformato, che cerca una forma, una tavolozza da riempire semplicemente affacciandosi sul mondo, sulla piccola gente di campagna, sulle colline, sul villaggio.

Ci sono momenti di grande bellezza in tal senso, in Dust in the Wind. Ci sono campi lunghissimi ottenuti con il tipico teleobiettivo del regista. Le persone che attraversano il ponte, un po’ come le oche in Beautiful Duckling, la ragazza sul balcone immersa nell’ambiente urbano, per arrivare a una sublime composizione dell’immagine, che comprende villaggio, ponte e treno. Ancora con il teleobiettivo la scena dell’arrivo a Taipei, con la contesa con un uomo anziano, sui binari, prima per la valigia e poi per il sacco. Il tutto rimane sullo sfondo, sembra una gag da cinema muto, la tipica throwaway, con la differenza che in primo piano ci sono le colonne della stazione. Le inquadrature di Hou Hsiao-hsien possono contemplare anche il vuoto o elementi che il cinema ordinario considererebbe di disturbo. Così i sacchetti occultano la visuale dei disegni sulla maglietta dell’amico, che li esibisce con orgoglio, o le sbarre della finestra della sartoria, qui anche metaforiche, che si frappongono sui volti di Wan e Huen. Altri momenti del film si giocano su due livelli, per esempio la scena in cui i minatori seduti parlano delle loro rivendicazioni, mentre sullo sfondo le persone del villaggio bruciano gli incensi per dei rituali.

Dust in the Wind si snoda con i tipici momenti conviviali del cineasta, le tavolate, sempre riprese con visioni d’insieme, senza mai fare close-up su chi sta parlando, o i biliardi, anticipatori di quello di Three Times. A un certo punto il film diventa un Les parapluies de Cherbourg come potrebbe girarlo Hou Hsiao-hsien. Wan viene richiamato a un servizio militare duro, di tre anni, separandosi così da Huen, e, quando torna, scopre che lei nel frattempo si è sposata con un uomo di classe sociale più elevata. Vicenda che dovrebbe essere autobiografica per lo sceneggiatore Wu Nien-jen. Se per Jack Demy l’irruzione della storia e della politica, che determinava la separazione dei due amanti, era rappresentata dalla guerra d’Algeria, qui abbiamo la pesante situazione del paese, l’epoca del Terrore bianco, la lunga legge marziale e le tensioni infinite con la Repubblica Popolare Cinese. Vedremo anche i soldati, del battaglione di Wan, accogliere dei profughi cinesi. E si rievoca anche la dominazione giapponese, la guerra sino-giapponese. Hou Hsiao-hsien ci tornerà in Città dolente. E la scena, in Dust in the Wind, con Wan e il padre che scendono dalla collina tra gli spari dei petardi, sembra una prova, come una simulazione senza armi reali di quella, in Città dolente, del massacro del 28 febbraio 1947. Il tutto sempre visto da molto lontano. Così come nel finale il dolore del protagonista si stempererà alla visione di quella collina, di quei boschi. Ancora una volta contemplando e abbracciando il vuoto.

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