L’Amour fou
di Jacques Rivette
Proiettato al Festival di Cannes 2023 come apertura della sezione Cannes Classics, L’amour fou di Jacques Rivette costringe il cinefilo contemporaneo a confrontarsi con il cinema nel suo valore più alto, quello di riuscire a rappresentare lo spettacolo della vita attraverso l’arte della messinscena, elaborando una riflessione sul “tempo” e sulla sua intima “finzione”.
Liberare il tempo
Claire e Sébastien vivono insieme. Sébastien è un regista teatrale e Claire un’attrice. Lei sta per interpretare Hermione in un’ambientazione di Andromaque di Racine che Sébastien e la sua troupe stanno provando, sotto l’occhio vigile di un regista televisivo che sta filmando il loro lavoro. Durante una prova in cui fatica a pronunciare il suo testo, lascia bruscamente il teatro. Sébastien la sostituisce, con breve preavviso, con Marta, la sua ex moglie. Mentre le prove teatrali procedono, Claire, sola nel suo appartamento, perde gradualmente l’equilibrio. [sinossi]
A cosa servono i festival, se non a costruire pezzo per pezzo una progressiva liberazione dello sguardo, e dunque una ridefinizione di ciò che si conosce attraverso l’occhio, e la sua percezione? La domanda purtroppo è tutt’altro che peregrina, visto e considerato come nel corso del tempo e anno dopo anno i festival sono invece divenuti la roccaforte del predigerito, del precostituito, del predetto e dunque pre-visto. Non fa certo eccezione Cannes, anzi. Anche per questo appare un gesto di coraggio forse involontario, quasi un atto di contrizione pubblico il fatto che l’edizione 2023 di Cannes Classics, la sezione che omaggia sulla Croisette il cinema che fu, e alle cui radici ancora oggi ci si dovrebbe aggrappare, si apra sulle immagini rivoluzionarie nel 1969 come oggi de L’amour fou di Jacques Rivette. Prima del tappeto rosso, prima dell’arrivo in scena di “dei e dee” odierni quale è ad esempio Maïwenn che col suo Jeanne du Barry aprirà ufficialmente la settantaseiesima edizione del festival, il pubblico di cinefili e addetti ai lavori avrà in sorte di proiettarsi indietro nel tempo, nell’epoca in cui il cinema aveva ancora il coraggio di riflettere su sé stesso, sul proprio ruolo sociale e artistico, sul proprio peso nella (ri)costruzione dell’Europa, e del suo senso. Sempre ovviamente cercando di non muoversi nell’ovvio, ma ostentando la ricerca di nuove vie, nuovi percorsi, nuove altezze della macchina da presa, nuove prospettive dello sguardo. Non è casuale che Sébastien (interpretato da quel Jean-Pierre Kalfon che in quegli anni fu anche il capo rivoluzionario in Week End – Una donna e un uomo da sabato a domenica, tra i film più eretici e divertenti di Jean-Luc Godard) nel portare in scena l’Andromaque di Jean Racine sia ossessionato dal tentativo di trovare un nuovo approccio al testo, e dunque una nuova visione dell’autore stesso. E ancor meno casuale è la scelta di quell’opera di Racine, “vecchia” di trecento anni ma in grado di lavorare sul concetto di teatro e di psicologia, esattamente i campi in cui la modernità spinge Rivette.
La scelta di Rivette non è solo quella di riappropriarsi della storia psicologica e sentimentale del teatro francese e dunque della rappresentazione nel luogo e nel tempo, ma anche quella di affrontare un tema cardine del racconto – vale a dire la crisi di coppia, con tutto ciò che essa trascina con sé – non più attraverso l’artificio puro e semplice ma rincorrendo stille di verità, sia essa assoluta o parziale. Questa necessità Rivette la riscontrò dopo la sconvolgente – a suo stesso dire – esperienza al fianco di Jean Renoir per Cinéastes de notre temps, che aveva affrontato subito dopo aver concluso il lavoro de La religiosa. Lo scontro tra un’opera che pur nel suo assoluto rigore si muove nei cardini della finzione e l’operazione renoiriana che invece va a destabilizzare proprio quella struttura produttivo-estetica è fondativo per Rivette cambia radicalmente approccio per dirigere L’amour fou, come è possibile evincere da questa dichiarazione: «Quindi, ho voluto fare un film, non ispirato da Renoir, ma tentando di essere conforme a questa idea del cinema che incarnava Renoir, vale a dire un cinema che non impone nulla, in cui si tenta di suggerire le cose, di vederle venire, in cui si svolge in primo luogo un dialogo a tutti i livelli, con gli attori, con la situazione, con la gente che si incontra, in cui il fatto di girare il film fa parte del film stesso. Prima, le riprese per me erano sempre un sovraccarico di lavoro, una punizione, qualcosa di orribile, un incubo. Mi piaceva pensare al film prima di farlo; mi piaceva montarlo dopo averlo girato, ma le riprese di per sé erano sempre realizzate in cattive condizioni. Per la prima volta, non solo le riprese non sono state un inferno, ma anzi sono state il momento più appassionante». È sempre Rivette a raccontare come una visione collettiva di Marnie di Alfred Hitchcock al cinema abbia finito non solo per determinare alcuni cambi di interpretazione del testo durate le riprese, ma sia riuscita a penetrare talmente in profondità da diventare parte del tessuto connettivo stesso del film.
Si respira una aleatorietà salvifica durante la visione de L’amour fou, come se fosse sempre possibile aprire la porta in un’altra direzione, muoversi indipendentemente da qualsiasi forma preconcetta: in tal senso non si può non considerare per questa e altre opere di Rivette il termine “avanguardia”, in un’idea di sperimentazione che è sempre focalizzata sul senso di ciò che si sta rappresentando, e con cui il pubblico dovrà confrontarsi. Quindi la storia d’amor folle che come tutte le storie d’amor folli andrà in direzione per l’appunto della perdita del senno è sì un orpello, una ricostruzione del racconto nella sua prassi, ma è anche il centro nevralgico di un discorso psicologico in cui è l’oggetto cinema destinato a diventare l’amore, il sentimento, l’atto esterno dall’umano che serve però a connettere le singolarità, e a farle implodere/esplodere. L’aleatorietà salvifica cui si faceva riferimento deriva dalla consapevolezza di assistere alla visione di una delle infinite possibilità de L’amour fou, arrivato alla sua forma “definitiva” (ma esiste il definitivo nel cinema?) solo perché si sono compiute tutta una serie di scelte: se solo Rivette in fase di montaggio avesse deciso di inserire la moltitudine di sequenze tagliate si avrebbe davanti agli occhi un altro film, che sarebbe altrettanto fondamentale, e altrettanto libero e liberatorio. Sarebbe splendido poter trascorrere intere giornate visionando solo le rushes del film, un po’ come avvenne anni fa al Torino Film Festival con quelle di Anna di Grifi/Sarchielli, un titolo non citato a caso perché l’impressione è che la speculazione sull’immagine riprodotta come estensione irrefrenabile dell’imitazione della vita sia praticamente la stessa, o almeno si muova nella medesima direzione. Certo, se Rivette non avesse in alcun modo maneggiato il montaggio lasciando alla totale casualità dello sguardo le riprese si sarebbe di fronte a un’opera ancora più estrema, ma non necessariamente vera, perché si sarebbe comunque perso per strada il discorso sul cinema-vita, che è invece un passaggio ineludibile per Rivette. Proprio quelle cesure, quelle decisioni prese, quelle interruzioni del flusso ciclico interpretazione-vita-interpretazione (o anche vita-interpretazione-vita), rendono L’amour fou a distanza di oltre cinquant’anni un oggetto imperdibile, che sa raccontare alla “gens videns” ciò che prova, sperimenta, soffre, e perde. Tutto ciò che a molto cinema odierno non riesce, sempre che ci provi.
Info
L’Amour fou sul sito del Festival di Cannes.
- Genere: drammatico
- Titolo originale: L'Amour fou
- Paese/Anno: Francia | 1969
- Regia: Jacques Rivette
- Sceneggiatura: Jacques Rivette, Marilù Parolini
- Fotografia: Alain Levent, Étienne Becker
- Montaggio: Nicole Lubtchansky
- Interpreti: André S. Labarthe, Bulle Ogier, Claude-Eric Richard, Dennis Berry, Didier Leon, Françoise Godde, Glia, Jean-Pierre Kalfon, José Destoop, Liliane Bordoni, Maddly Bamy, Michée Moretti, Michel Delahaye, Yves Beneyton
- Colonna sonora: Jean-Claude Eloy
- Produzione: Cocinor-Marceau, Sogemportfilm
- Durata: 252'
