Firebrand

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Per il suo primo film di produzione anglofona il regista brasiliano Karim Aïnouz sceglie di raccontare la vita da regina di Catherine Parr, ultima moglie di Enrico VIII: Firebrand però è un tizzone spento, monocorde, asfissiato da uno stile volutamente compassato, e per di più storicamente inattendibile. Con Alicia Vikander, Jude Law, e Sam Riley. In concorso a Cannes 2023.

L’inglese come lingua veicolare

Nell’Inghilterra insanguinata dei Tudor, Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Enrico VIII, viene nominata reggente durante le sue campagne militari. Con questo ruolo provvisorio, Katherine cerca di influenzare i consiglieri del re verso un futuro basato sulle sue convinzioni protestanti. Al suo ritorno dal combattimento il re, sempre più paranoico e malato, accusa di tradimento un’amica d’infanzia di Katherine e la manda al rogo. Inorridita dal suo atto e segretamente in lutto, Katherine combatte per la propria sopravvivenza. Seguono cospirazioni all’interno delle mura del palazzo e la corte trattiene il fiato: la regina farà un passo falso ed Enrico la farà giustiziare? Con la speranza di un regno senza tirannia, riuscirà a sottomettersi all’inevitabile per il bene del re e del paese? [sinossi]

Sarà per la centralità che ancora ricopre sotto il profilo mediatico nel Paese e a livello mondiale, ma nessuna monarchia può contare su un livello di rappresentazione pari a quella britannica, della quale trova regolarmente spazio sullo schermo qualsiasi momento storico, dal contemporaneo ai primordi – e d’altro canto Excalibur di John Boorman cos’è se non il racconto della nascita del regno d’Inghilterra? Lo testimoniano anche molti titoli recenti, da Spencer di Pablo Larraín (fola sulla brama di libertà di Lady Diana) a La favorita di Yorgos Lanthimos (grottesca e deformata rilettura del regno di Anna Stuart), da Vittoria e Abdul – che narra dell’amicizia tra la regina e il suo segretario indiano – a Una notte con la regina in cui ci si inventa un’avventura vissuta dalla futura Elisabetta II e da sua sorella Margaret il giorno dei festeggiamenti della vittoria degli Alleati nella Seconda guerra mondiale. Buckingham Palace e dintorni poi dominano anche il proscenio seriale, come certificano tra gli altri i celeberrimi I Tudors e The Crown. A questo genere a sé stante dell’industria anglosassone si aggiunge ora Firebrand, primo film fuori dal natio Brasile – anche se la parte centrale di Praia do Futuro era ambientata a Berlino – per il cinquantasettenne Karim Aïnouz che dopo un paio di documentari, tra i quali il notevole Marinheiro das montanhas visto a Cannes nel luglio 2021, torna a confrontarsi con la finzione a quattro anni di distanza da La vita invisibile di Eurídice Gusmão, il film che lo ha lanciato nell’empireo dei registi contemporanei. Scorrendo gli innumerevoli nomi della casa reale inglese Aïnouz pesca dal mazzo Catherine Parr, che fu la sesta e ultima moglie di Enrico VIII – l’orco per eccellenza seduto sul trono di Londra – e fu figura d’intellettuale assai interessante, stimata da Martin Lutero in persona, di cui per di più sposava la riforma.

C’erano innumerevoli modi per approcciare la vita e le opere di Parr (Prayers and Meditations e Lamentacions of a Sinner furono due testi di chiara inclinazione protestante che ebbero un certo rilievo all’epoca), ma Aïnouz fin dall’incipit dichiara la sua vocazione oleografica: nella brughiera nebbiosa si staglia un albero spoglio su cui posano alcuni corvi. Un’immagine che immediatamente richiama atmosfere shakespeariane – il letterato nacque poco meno di venti anni dopo gli eventi narrati in Firebrand – quasi a dover accompagnare lo spettatore per mano, convincendolo di assistere a una “grande storia”, a qualcosa che è di per sé già un classico. Questa eccessiva posa descrittiva trova la sua definitiva dimensione nel corso del film, tra svolazzi lirici sul volto della regina interpretata da Alicia Vikander – un ripiego, visto che per il ruolo era stata scelta Michelle Williams: l’esangue inespressività di Vikander non riesce a donare spessore a un personaggio fin troppo labile già in sceneggiatura –, e un approccio che ogni tanto pare voler essere antropologico, tra la filologia delle canzoni di corte, le danze campestri, e il rito della vita quotidiana. Questa vena realistica, rafforzata dalla fotografia naturalista di Hélène Louvart, rende ancora più difficile da accettare le infinite libertà storiche che si prende la narrazione. Perché se è vero che Firebrand prende le mosse dal romanzo di Elizabeth Fremantle La mossa della regina (a sua volta riletto in modo “infedele”), è altrettanto vero che l’unico intento che Aïnouz sembra perseguire è quello di modernizzare Catherine Parr al punto da farla apparire un’eroina novecentesca, o perfino millennial. Così nonostante tutti i testi storici siano convinti del profondo rispetto formale delle regole condotto da Parr pur senza mai venir meno alle proprie idee, Aïnouz la mostra ribelle al punto da smentire apertamente la parola del Re, e in sua presenza, o da trattare da suo pari Gardiner, il vescovo di corte. Pur di rivendicare l’autodeterminazione del personaggio – nonostante bastasse la pura verità storica a rilevarne la statura intellettuale, filosofica, perfino teologica – il film mette in ombra il ruolo di Thomas Seymour (che lei sposò dopo la morte del Re, e di cui era innamorata da anni) al punto di leggerlo come definitivo “traditore” della regina, e arriva a suggerire che sia stata materialmente lei a disfarsi di un re volgare, violento, misogino, e brutale.

Una serie di scelte che si innestano alla perfezione nella semplificazione dell’immagine e del racconto che domina la struttura produttiva mainstream contemporanea, e che sarebbero almeno in piccola parte digeribili se almeno Firebrand lampeggiasse di desiderio, di brama di vita, di pulsioni profonde. Invece, a dispetto del titolo e del suo significato, Aïnouz opta per una regia algida e asettica – ma mai rigorosa – come stesse maneggiando un bolso mélo d’antan in costume. Resta così un tizzone spento, che nel momento in cui svolge il suo ruolo (non il racconto di una figura storica, ma la semplice declamazione della sua centralità: il modo in cui nel finale viene suggerito il regno di Elisabetta I come illuminato senza porre questioni di potere è tristemente emblematico) non ha più davvero molto da dire. Il modo in cui viene sacrificato – in tutti i sensi – il racconto di Anne Askew a uso e consumo della contrizione della regina dichiara di nuovo l’inequivocabile vocazione esornativa del film, che si limita a declamare all’infinito “long live the queen”, senza neanche chiedersi il perché.

Info
Firebrand sul sito di Cannes.

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