Taxibol

Con Taxibol il regista Tommaso Santambrogio sceglie di scindere in due parti la narrazione, alla ricerca di una dialettica forse impossibile tra le forme del cinema: un dialogo “leopardiano” tra un tassista e Lav Diaz nella prima parte, e il racconto dell’esilio/gabbia di uno scherrano di Marcos nella seconda. Testimone solo apparentemente muta è l’isola di Cuba, patria d’elezione del cineasta italiano.

Voglio la testa di Juan Mijares Cruz!

Attraversando le caratteristiche e decadenti strade cubane, Lav Diaz – il famoso regista filippino – e Gustavo Flecha – un loquace tassista cubano – si ritrovano a discutere di politica, migrazione, condizioni sociali e amore; toccando molte vicende ed esperienze personali, i due creano un affresco storico delle condizioni dei loro Paesi. Durante le loro discussioni emerge però il vero motivo dietro la presenza del regista a Cuba: Lav sta cercando un misterioso ex generale scappato dalle Filippine al termine della dittatura di Marcos, Juan Mijares Cruz. Violento, rigido, cínico e dal temperamento glaciale, Juan Mijares Cruz ha preso parte a molti crimini del regime dì Marcos. Si dice viva nascosto nell’entroterra cubano, rifugiato in una Finca lontana dalla civiltà e dalla storia, dove una quotidianità inevitabilmente maligna e condita da rapporti di potere ha luogo. [sinossi]

Tra le molte esperienze del cinema italiano contemporaneo, dominato da una iper-produzione che da decenni non si vedeva nelle lande della repubblica (con tutte le difficoltà di un sistema che non sembra oggettivamente in grado di reggere l’urto, e una qualità media del prodotto spesso pietrificante), merita un cenno a parte l’opera ancora giovanile di Tommaso Santambrogio. Di lui si iniziò a parlare alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel settembre 2019, quando tra i cortometraggi selezionati dalla Settimana Internazionale della Critica per la sezione SIC@SIC spiccò Los océanos son los verdaderos continentes, venti minuti in bianco e nero attraverso i quali – e ricorrendo anche ai fermi immagine fotografici – Santambrogio raccontava la fine di un amore cubano, non per effetto di una crisi ma per il distacco della coppia, con la ragazza destinata a trasferirsi in Italia. Cuba, la terra eletta da Ernest Hemingway a paradiso terrestre – il riferimento al grande romanziere non è casuale, come si vedrà –, quell’isola piccola e rigogliosa che spinse un medico argentino a rischiare la vita per la rivoluzione, l’ultima seppur rabberciata roccaforte del socialismo in Occidente. Torna a Cuba, Santambrogio, anche per Taxibol, che dopo aver iniziato un percorso festivaliero nello svizzero Visions du réel ha ottenuto premi a Madrid: se nel titolo presentato quattro anni fa alla SIC ci si “fermava” al cortometraggio, qui si galleggia nella terra incognita del “medio”, la durata che spaventa qualsiasi produttore perché fa presagire il rischio della bocciatura preventiva del mondo dei festival, di solito divisi tra il corto-cortissimo e il lungo-lunghissimo, senza spazio per altro. Taxibol, seguendo una linea che già si intravedeva ne Los océanos son los verdaderos continentes, non si lascia suggestionare da un tempo preordinato, ma persegue la propria idea di cinema. Un’idea profondamente dialettica, che si basa sul principio di una retorica dell’immagine che non sia mai prona nei confronti dello standard.

Taxibol è scisso in due segmenti, collegati tra loro ma che propongono due idee di cinema almeno in parte divergenti. Il primo quarto d’ora, che anticipa anche l’apparizione su schermo nero del titolo, si articola in un dialogo tra Lav Diaz e un tassista cubano: i due parlano di comprensione tra culture diverse, dell’amore e del suo naturale disgregarsi, fino a quanto il cineasta filippino non confida al suo conducente il vero motivo della sua presenza sull’isola a parte il workshop organizzato all’università di San Antonio de los Baños. Diaz ha raggiunto il Caribe per stanare Juan Mijares Cruz, generalissimo di Ferdinand Marcos che si nasconderebbe sotto falsa identità a Cuba, proprio nella cittadina a poco meno di quaranta chilometri a sud ovest de La Havana. Santambrogio inserisce dunque un elemento fittizio, che svilupperà poi nella seconda parte del film, all’interno di un dialogo che potrebbe apparire quasi all’impronta, e che parte da una suggestione documentaria, il workshop organizzato da Lav Diaz e Jean Perret cui partecipò lo stesso regista. Quindici minuti in movimento, con la vettura che non ha una destinazione preordinata ma che segue in qualche modo il dialogo forse persino impossibile tra i due, con Diaz che parla in inglese e Gustavo che gli risponde in spagnolo, come se le distanze linguistiche non esistessero, come se le barriere che vengono poste di fronte agli esseri umani fossero un falso mito. Basta parlarsi per comprendersi, per sentire ciò che sente l’altro. Senza mai uscire dall’abitacolo del taxi, e da un campo controcampo che delinea con nettezza la scelta stilistica del regista, il primo quarto d’ora di Taxibol veleggia lontano, tra sguardo intimo e politico – o politico perché intrinsecamente intimo – e si conclude sulla promessa del regista filippino su quel che accadrà nel momento dell’agognato incontro con il criminale sotto falsa identità: «E quando lo vedrò sai cosa farò Gustavo? Io gli sparerò in testa. Gli spaccherò la testa e poi mangerò il suo cervello. Questo è il rituale che seguirò: per il popolo filippino, per la mia gente, gli mangerò il cervello». «Dobbiamo trovarlo, ovunque lui sia» è la risposta decisa di Gustavo.

Da qui in realtà principia Taxibol, che si muove per i successivi trentacinque minuti nell’immobilismo assoluto. Nella conservazione, del potere, della gestione dello spazio, del mondo. Il cinema può superare la detection umana ed ecco dunque che lo spettatore è trascinato direttamente nella villa immersa nella natura in cui si nasconde il generale fascista, lontano da occhi indiscreti che non siano quelli della sua servitù. È ovviamente un attore, Mario Limonta, a incarnare il demonio che Lav Diaz vuole uccidere per dare giustizia al suo popolo martoriato: Santambrogio sposa una visione del cinema austera, rarefatta, e così come si affidava alla parola in uno scambio “babelico” e quasi leopardiano nell’incipit del film ora predilige il silenzio assoluto. Quale parola d’altro canto potrebbe emergere da una villa che nasconde al proprio interno il male assoluto, quello dell’atto prevaricante dell’uomo contro l’uomo, del Potere contro il Popolo? Per oltre mezz’ora dunque ci si sposta nella splendida magione – Santambrogio ha ottenuto l’onore di poter girare a Finca Vigía, la tenuta divenuta celebre per essere stata per alcuni lustri la dimora di Ernest Hemingway: si era anticipato che il suo nome sarebbe riemerso nel corso della lettura – osservando un rituale che altro non è se non la vita resa ciclo infinito, reiterazione dell’atto, per l’appunto conservazione. Taxibol dunque mette in dialettica la rivoluzione e la conservazione (e forse anche la conservazione della rivoluzione), Filippine e Cuba, popolo e potere, amore e odio, digitale 2K e pellicola super-8, bianco e nero e colore, e lo fa costringendo il suo stesso stile a sdoppiarsi, a tentare strade in antitesi, tra il divenire eterno di uno spostamento spaziale e la cristallizzazione dello spazio-tempo. In meno di un’ora riesce a teorizzare sul cinema e a rimembrare due terre splendide e non sempre fortunate, decolonizzando sempre il proprio sguardo, depurandolo, cercando la verità nel luogo, e non nella lettura aprioristica dello stesso. Tornerà ancora a Cuba almeno una volta, per la versione lunga de Los océanos son los verdaderos continentes, tre storie che vorranno ancora confrontarsi con quell’isola rigogliosa di natura e umanità.

Info
Taxibol, il trailer.

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