Lubo

Con protagonista la star del cinema europeo contemporaneo Franz Rogowski, Lubo di Giorgio Diritti è la storia di un nomade di etnia Jenisch a cui nel 1939 le leggi elvetiche sottraggono i figli. Ma lo sguardo di osservazione prescelto e la narrazione ellittica non fanno un buon servizio alla denuncia degli esecrabili fatti che racconta. In concorso a Venezia 80.

Una storia importante

Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di portare via i loro tre figli piccoli, che, in quanto Jenisch, sono stati strappati alla famiglia, secondo il programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui. [sinossi]

Sostituire il concetto di patria con quello più umano di appartenenza, specie quella di sangue. È questo in fondo il tema portante di Lubo, quinto lungometraggio di finzione di Giorgio Diritti (Volevo nascondermi, Un giorno devi andare, L’uomo che verrà, Il vento fa il suo giro), presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023. Protagonista delle traversie tragiche e picaresche narrate dal film è Lubo Moser (incarnato dalla star del cinema europeo contemporaneo Franz Rogowski) attore itinerante di etnia Jenisch (nomadi di origine germanica) che nel 1939, appena solcata la frontiera svizzera, si vede costretto a prestare il servizio militare, per difendere i confini del paese in cui è nato, ma verso il quale non prova alcun particolare attaccamento. La sua “patria” è piuttosto il clan familiare che lo accompagna negli spettacoli di strada, e la Svizzera dell’epoca, con le sue leggi ben poco giuste, questo lo sa bene. Il servizio militare non ha infatti alcun obiettivo di inclusione per questo antieroe nomade, tutt’altro: l’arruolamento ha lo scopo di staccarlo dai suoi cari per poi prelevare i suoi tre figli e darli in adozione a famiglie di pura razza elvetica. Nel corso del “sequestro”, poi, la madre dei piccoli resta uccisa.

Appreso l’accaduto, a Lubo non resta che disertare, per poi uccidere e sottrarre identità, automobile, e un cospicuo carico di tessuti e gioielli a un commerciante ebreo conosciuto in una locanda. Inizia così la sua lunga ricerca della propria prole, che lo condurrà a Zurigo, poi a Bellinzona, infine in Italia. Nel frattempo, Lubo seduce e ingravida due donne sposate, mentre un commissario ed ex commilitone è sulle sue tracce. Per comprendere la vicenda di questo anti-eroe nomade, è opportuno ricordare che sono questi gli anni (e sono stati parecchi, dal 1926 al 1974) del programma Kinder Der Landstrasse (figli della strada) condotto dalla Pro-Juventute, un’associazione svizzera dedita a “ripulire” l’Europa dagli indesiderati Jenisch con sottrazione e riaffido di bambini, trattamenti psichiatrici, sterilizzazione delle ragazze, e, a latere, non pochi episodi di pedofilia. L’opera di pulizia etnica condotta dalla Pro Juventute è già stata oggetto in tempi recenti del primo e tristemente unico film della compianta regista Valentina Pedicini Dove cadono le ombre, presentato alle Giornate degli Autori di Venezia 2017. La Pedicini adattava l’autobiografia di Mariella Mehr, una vittima del programma eugenetico, innestando la sua storia con atmosfere gotiche e spennellate di thriller psicanalitico, per approdare però a una certa incompiutezza del racconto, ferme restando le ottime intenzioni di denuncia e la buona resa visiva. Non va molto diversamente con il film di Diritti, che sceglie come testo di partenza il romanzo Il seminatore di Mario Cavatore (Einaudi, 2004), facendone un adattamento poco riuscito sia dal punto di vista delle scelte di messinscena che per quanto concerne quelle narrative. La prima porzione di film, quella ambientata nei grigioni, con la separazione dalla famiglia, il servizio militare e il furto di identità, è piuttosto lunga e presenta uno stile documentale, basato sull’osservazione di una serie eccessiva di epifenomeni che poco aiutano lo spettatore nella comprensione dei fatti, e il film nel suo intento di denuncia. 

La fotografia firmata da Benjamin Maier differenzia questa fase iniziale della storia dal resto del film, con scelte luministiche ben precise: siamo quasi sempre all’alba o al tramonto, le condizioni atmosferiche sono bigie e brumose, mentre in interni (la locanda, la caserma) lumi ad olio diffondono qua e là flebili luci color ocra. Il racconto però è lasco, si concentra su una fenomenologia di azioni che appare ridondante e che contribuisce certo all’abbondante durata complessiva del film (180 minuti), ma non all’interesse dello spettatore, lasciato lì, nell’oscurità (delle location e della sala cinematografica) a cercare di decifrare quanto emerge dal buio.  Diritti si dedica dunque a mostrare ogni singolo gesto di Lubo, che ora mette in atto il suo piano criminale (non preannunciato), ora impara da solo, gesto dopo gesto, a guidare, ora cammina, poi entra in una stanza, si guarda intorno, palleggia tra le mani un’arancia. Nessuna azione è messa in ellissi, nemmeno la più minuta e insignificante. Di contro, ecco che improvvise macro-ellissi ci trasportano in altri luoghi ed altri tempi, prima a Zurigo, poi una didascalia ci informa che siamo nel 1951 a Bellinzona e così via. Ne deriva un film dall’andamento rapsodico, cosa che seppur si adatterebbe al nomadismo del personaggio e alle sue traversie, va in fin dei conti a inficiare da un lato l’unità narrativa e dall’altro l’identificazione con il personaggio, personaggio che pure resta l’unico appiglio per chi guarda questo esteso e dilatato suo peregrinare sullo schermo. Solo nell’ultimo capitolo fa infatti la sua comparsa una sottotrama poliziesca che pure scorreva evidentemente parallela alle ricerche dei figli, ai traffici mercantili e alle seduzioni del personaggio. Nella stessa direzione, poi, va la “scoperta” tardiva di cosa scrivesse Lubo nel suo taccuino nero. 

Diritti non è certo una narratore di sentimenti, e di questo non possiamo fargliene un torto, però le motivazioni dell’azione, queste sì, avrebbero potuto accompagnare di quando in quando queste avventure picaresche che non riescono mai ad avvincere chi le osserva. Dispiace poi che dal romanzo di origine sia stato sottratto proprio il suo “quid”, quello a cui fa riferimento il titolo de L’inseminatore. Già perché nel libro di Cavatore, Lubo metteva incinta molte più donne ariane di quante non se ne abbia certezza nel film di Diritti. Sorge prepotentemente il dubbio che Lubo, frutto di una co-produzione italo-svizzera, si sia in qualche modo censurato a monte, evitando di concentrarsi sulla vendetta genetica dell’inseminatore seriale per meglio poter proporre la sua storia importante a un vasto pubblico. Non a caso, anche le vicende sulla pedofilia fanno giusto capolino, restando alquanto velate, per non turbare troppo. Ma senza scandalo e senza turbamento, anche questa storia importante e il suo duro messaggio sull’umana (in)giustizia perdono di peso e di efficacia.

Info
Lubo, il trailer.
La scheda di Lubo sul sito della Biennale.

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