Talk to Me

Consueta variazione su coming of age, trauma e horror, Talk to Me degli australiani Danny e Michael Philippou rievoca una dimensione di cinema di genere dagli strumenti tradizionali, riecheggiando cornici più analogiche che digitali. Nel frattempo ragiona con intelligenza su affettività e dipendenza, auspicando nuove strade per il cinema horror di consumo.

Guarda dentro di te

Ancora scossa dal suicidio della madre avvenuto un anno prima, l’adolescente Mia scopre un macabro gioco messo in atto da alcuni suoi amici che poi ne hanno pubblicato gli esiti sui social tramite video. Si tratta di una mano stregata di ceramica, capace di mettere chi la afferra in comunicazione con gli spiriti dell’aldilà tramite l’enunciazione di due formule verbali. Il contatto non deve durare però più di novanta secondi, altrimenti c’è il rischio che gli spiriti riescano ad aprirsi un varco con il mondo dei viventi. Incuriositi dal gioco, Mia e i suoi amici Jade e Riley decidono di partecipare, dando il via a una serie di eventi drammatici e terrificanti. [sinossi]

Com’è noto, uno degli universi prediletti dal genere dell’horror è l’adolescenza. Non fa eccezione Talk to Me, buon esordio in lungometraggio dei fratelli australiani Danny e Michael Philippou, che ripercorrono una consueta sovrapposizione tra coming of age e truculenze varie. È un cinema che spesso cerca di dialogare ad altezza-spettatore, allineando le età al di là e al di qua dello schermo – storie che parlano di adolescenti e indirizzate in buona parte a loro. Talk to Me mostra in realtà qualche ambizione in più. Se infatti incertezze, goliardie e assortiti timori sessuali dell’età acerba informano da sempre il moderno horror anglosassone (basti pensare all’ormai archetipica saga di Scream ideata in origine da Wes Craven e Kevin Williamson), nel caso dei fratelli Philippou sembra che sia ravvisabile un serio interesse socio-antropologico. Non è certo del tutto nuova la narrazione di una Generazione Z superficialissima e in difficoltà con l’ascolto di se stessa, pressoché ignara dell’esistenza anche di una dimensione interiore, tutta votata all’autoesibizione con conseguenti derive social. Eppure i fratelli Philippou introducono a tale dimensione narrativa con una serietà e uno spessore di scrittura abbastanza inconsueti per il cinema di genere. Per buona parte Talk to Me è infatti un teen-drama molto ben scritto, corredato di protagonisti costruiti con cura e perizia, credibili nei loro drammi e nelle loro interrelazioni. La fa da padrone il trauma della protagonista Mia, interpretata da una promettentissima Sophie Wilde, reduce dal suicidio della madre che l’ha spinta in un cunicolo di solitudine e impossibile elaborazione del lutto. È dunque l’abbandono il tema principe della travagliata adolescenza raccontata da Talk to Me. Abbandono e solitudine, anche quando una famiglia ufficiale sarebbe ancora viva, vegeta e teoricamente funzionante – in pochi tratti si delinea la complicità speciale fra Mia e Riley, fratello minore della migliore amica della protagonista, sintetizzata in una breve sequenza in auto sulle note di Chandelier, grande successo internazionale del 2014 interpretato dall’australiana Sia. La cantata a squarciagola e a tutto volume si conclude significativamente con il ritrovamento di un canguro morente in mezzo alla strada; saranno proprio Mia e Riley ad andare incontro all’adulta presa di coscienza più devastante dell’intero racconto.

Il tratto di originalità più convincente mostrato dai fratelli Philippou risiede proprio nella capacità di collocare senza soluzione di continuità l’invasione dell’horror più conclamato nel flusso coerente di un teen-drama dai toni credibili. Quando l’orrore deflagra tramite il contatto con la fatidica mano stregata, non si avverte il minimo scarto rispetto a quanto è stato narrato fino a quel momento. Del resto, i due autori mostrano un’evidente scelta orgogliosa nel risalire a un’idea elementare e tradizionale di orrore – il mondo degli spiriti è archetipico, fa parte del perturbante umano dalla notte dei tempi. L’elemento sovrannaturale è dunque accolto come perfettamente credibile, diretta conseguenza di un universo scosso dalla patologia sociale – ed è in tal senso efficacissimo l’utilizzo del prologo, che ricorrendo a un ottimo piano-sequenza lascia esplodere la follia più sanguinolenta nella cornice di una consueta festa alcolica fra ragazzi. Seguendo tale linea di credibilità i Philippou scelgono anche di ridurre al minimo gli effetti affidati al digitale. Gli spiriti evocati tramite il contatto con la mano sono infatti truccati come si faceva una volta; magari l’effetto è ottenuto anche per mezzo di qualche manipolazione visiva, ma in cerca di un esito finale dall’aspetto in tutto “analogico”. Cosicché i volti degli spiriti colano di pelle cascante e di occhi opalescenti, e i loro movimenti sono spesso goffi e faticosi. Più che di spiriti, a volte sembra di assistere al ritorno in vita di un esercito di zombi.

Il gusto per l’horror tradizionale si riconferma anche nelle esplosioni della violenza visiva, realmente truci e squassanti – basti pensare agli agghiaccianti atti autolesionistici ai quali si concede il più giovane dei partecipanti al gioco. Si dà piena evidenza insomma a un’idea di horror in buona parte biologico e carnale (quegli occhi dilatati, talvolta cavati letteralmente fuori dalle orbite), a fronte di un tessuto narrativo tutto votato al sovrannaturale e all’irrazionale. Restando coerenti con questa tendenza i fratelli Philippou non si nascondono dietro un dito nemmeno riguardo alla componente erotica dell’horror. Nell’esplosione di interdetti di un’adolescenza inquieta che percorre Talk to Me da cima a fondo c’è spazio infatti anche per una commistione (inedita nella sua conclamata esplicitezza) fra horror e sensualità. Una delle vittime degli spiriti, nel momento in cui si trova sotto gli effetti nefasti del contatto con la mano di ceramica, emette gemiti di desiderio e piacere guardandosi intorno. Più avanti, quando Mia è di nuovo assalita dagli spiriti la cui presenza nel reale è ormai inarginabile, la ragazza finisce per prendere in bocca il piede di un amico.

Sensualità e patologia vanno di pari passo, inscritti in una generale cornice di dipendenze alle quali Talk to Me rimanda continuamente. Da un lato fra i protagonisti si innalza una figura-simbolo di madre che conferisce pure toni divertenti alle parentesi familiari (e i Philippou si mostrano di nuovo acuti nel tratteggiare un contesto familiare in cui la distanza fra figli e autorevolezza genitoriale è del tutto annullata) e che si mostra più volte spaventata dall’eventuale contatto della sua prole con le droghe e con l’alcool. Dall’altro, il gioco protagonista del film dà vera ed effettiva dipendenza. Nessuno dei protagonisti sa più liberarsene, con atteggiamento in tutto autodistruttivo come nelle dipendenze dagli stupefacenti all’ultimo stadio. Il gioco conquista, invade e divora dall’interno, spingendo le vittime a lacerare la propria consistenza fisica, in cerca di una forma di dolore che espii il loro rimosso disagio psico-sociale. Il discorso intorno alla dipendenza non sembra concludersi in realtà in questa immediata sovrapposizione fra il gioco, l’alcool e le droghe, ma si espande a ricomprendere più ampiamente una vera e propria condizione esistenziale. È anche dipendenza dall’esposizione del sé tramite la condivisione social, e un po’ tutti i personaggi, e in particolare la protagonista Mia, hanno soprattutto un estremo bisogno degli altri. Vulnerata e abbandonata, Mia si circonda di rapporti umani in cui si trova costantemente in posizione di svantaggio, accettando umiliazioni e continue ferite pur di colmare il proprio vuoto affettivo, generato in buona parte dal suicidio della madre. La dipendenza, grande protagonista più o meno occulta di Talk to Me, si delinea dunque come determinante condizione affettiva, spesso legata a una dimensione traumatica con la quale non si riesce a scendere a patti.

È altrettanto evidente che la buona opera prima di Danny e Michael Philippou cede un po’ verso il finale. La concitazione narrativa cresce e talvolta eccede, il filo del discorso si perde dietro a una messinscena conclusiva fin troppo esibizionista di effetti, orrori e colpi di scena, e lo scioglimento si rivela al contempo audace e compromissorio – si rinuncia al lieto fine, ma con la medesima trovata narrativa si lascia aperta la porta al sequel. È da salutare comunque con grande piacere l’apparizione di un duo di autori che sembrano ragionare profondamente sull’horror, tramutando il genere in strumento per pregnanti riflessioni socio-esistenziali. Tanto che di fronte a un’opera come Talk to Me viene pure da evitare l’etichetta limitante di cinema di genere. Di questi ragazzi, in ultima analisi, i fratelli Philippou raccontano il viscerale rifiuto di guardarsi dentro. La curiosità per l’ignoto è tanta, ma è altrettanto feroce il desiderio di non vedere, fino a strapparsi gli occhi con le mani.

Info
Talk to Me, il trailer.

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