Gli immortali

Gli immortali

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L’assenza ostile del divino e un clima apocalittico/pandemico dominano ne Gli immortali, film al tempo stesso autobiografico, fantascientifico e sperimentale, che ruota intorno alla lotta di una giovane donna alle prese con un evento doloroso e ineluttabile. Un film stratificato e a tratti disarmonico nelle sue diverse componenti, ma indubbiamente sincero e coraggioso. In Freestyle alla Festa del Cinema di Roma.

“Contro la nostra attesa”

Chiara lavora come tecnico delle luci nell’allestimento di uno spettacolo di teatro-danza dedicato a Dioniso, che punisce l’umanità per non aver creduto nella sua natura divina. Quando Vittorio, suo padre, piomba nella sua vita con un male che sembra una punizione divina, Chiara deve gestire la più universale e atavica realtà che gli esseri umani di ogni parte e tempo condividono. [sinossi]

Una celebre battuta in Fight Club (David Fincher, 1999) recita: “Devi considerare la possibilità che a Dio tu non piaccia, che non ti abbia mai voluto, che con ogni probabilità lui ti odi”. Ma Dio non era morto, ucciso dall’indifferenza degli uomini, come asseriva Nietzsche, sancendo con questo, finalmente, la libertà dell’essere umano e la piena padronanza della propria vita? A quanto pare no, perché è ancora qui, sofferente e disorientato, a fare i conti con il fantasma del divino. Con la sua assenza, che è comunque un’assenza ostile, persino vendicativa, ben che vada imperscrutabile. Una situazione non poi così diversa, dunque, da quella espressa dal commento finale del Coro delle Baccanti: “Contro la nostra attesa spesso l’opera degli dei si rivela”. Le Baccanti è un’opera che implica in un certo modo la crisi della cultura greca del V secolo a.C. nel suo rapporto con i valori tradizionali tipici della polis. Il motivo per cui questa tragedia, l’ultima di Euripide (che morì pochi mesi dopo averla scritta) continua a esercitare tanto fascino è la sua natura profondamente ambigua: in apparenza, un’opera religiosa in cui il culto di Dioniso viene perorato e difeso dagli anziani (Tiresia e Cadmo), e quindi dalla tradizione – nonostante l’adozione del culto di Dioniso fosse relativamente recente rispetto ad altri culti -, come monito verso l’incredulità e all’ostilità dei più giovani (il nuovo re di Tebe, Penteo, nonché cugino di Dioniso). Ma poi, dal comportamento dello stesso Dioniso, che si rivela spietato e vendicativo nei confronti dei suoi oppositori umani, si evince un’incrinatura nel rapporto dell’umano col divino (e quindi dell’uomo con le istituzioni), una disarmonia (e guarda caso Armonia, figlia di Afrodite e Ares era la moglie di Cadmo, fondatore e primo re di Tebe). Non era certo raro che le divinità dell’antica Grecia si mostrassero crudeli e inesorabili, ma qui il fatto diventa ancora più significativo in quanto Le baccanti è l’unica opera in cui un dio compare in prima persona sulla scena – benché in incognito – e vi rimane per buona parte della rappresentazione, anziché limitarsi ad apparire nel finale come deus ex machina. E si serve dell’astuzia, dell’inganno e dei suoi poteri, che per le sue vittime si traducono spesso in allucinazioni e delirio, portando alla rovina non solo i suoi oppositori, ma persino i suoi stessi seguaci (Agave, la madre di Penteo, che, ingannata dal dio, ucciderà il figlio con le sue stesse mani). Quanto alle Baccanti, dedite al suo culto di Dioniso fra orge e rituali, esse compaiono qui come un branco di invasate pronte a compiere la sua vendetta e a disseminare ciecamente la morte.

Giunta al suo quinto lungometraggio, con Gli immortali – presentato nella sezione Freestyle della 18esima Festa del Cinema di Roma – Anne Riitta Ciccone attraverso il personaggio di Chiara (Gelsomina Pascucci) prende ispirazione dalla propria storia personale, quella del rapporto con suo padre, per mettere in scena una “tragedia dell’impermanenza”, ovvero il senso di impotenza umana di fronte alla morte e all’assenza del divino. Assenza che replica e si sovrappone al trauma dell’assenza del padre, Vittorio (Davi Coco), figura per certi versi “dionisiaca”, dato che nella vita ha sempre ricercato il piacere e la tranquillità, anche a costo dell’egoismo e finendo per allontanare da sé le persone che più amava. Inizialmente il rapporto di Chiara col padre, che non vede da lungo tempo, è di ostilità. Vittorio infatti, perennemente in viaggio, sempre alla ricerca di qualcosa, un bel giorno fa ritorno e Chiara lo ospita in casa. I due però faticano ad avere un dialogo e a recuperare il tempo perduto, perché Chiara, che si è sentita abbandonata da lui, è sulla difensiva. Perciò lei non gli parla della sua relazione omosessuale con la sua compagna, e lui non le dice di essere stato colpito da una malattia e che è lì per riavvicinarsi a lei. Solo quando verrà ricoverato in ospedale la verità verrà a galla.

Contemporaneamente, Chiara, che lavora come tecnico delle luci in una produzione teatrale sulle Baccanti, inizia a essere perseguitata da visioni inquietanti, allucinazioni, come quelle patite da alcuni personaggi della tragedia di Euripide, in cui queste figure esagitate e inquietanti giungono a tormentarla con i loro presagi di morte. In ospedale Chiara si comporta lei stessa come una baccante: urla, si ribella, piange, si dispera (un vero tour de force emotivo, per la giovane e bravissima esordiente Gelsomina Pascucci), nella sua adorazione (ritrovata) per il padre. Da parte sua, Vittorio, con il suo fare al tempo stesso amaro e ironico, tenta di tranquillizzare la figlia a forza di battute, come ha sempre fatto. “Non muoio, non me la sento”, le mormora dal suo letto d’ospedale. Ospedale che è poi un altro “personaggio” fondamentale: un ambiente lugubre, in stato di degrado e di abbandono, un luogo (post)apocalittico in cui regna un’atmosfera di disagio acuita dalla scortesia o dall’indifferenza da parte del personale medico e infermieristico. Anche se la sceneggiatura è stata scritta una ventina d’anni fa, è praticamente impossibile non leggere questo aspetto alla luce dei recenti eventi legati alla pandemia da COVID-19 (che nel film non viene mai menzionata), con le persone che si aggirano come fantasmi per una città fumosa e semideserta, e una figura rivestita da una tuta protettiva per rischio biologico in giro per i corridoi dell’ospedale.

La questione si pone allora nei termini di un altro scollamento, di un’altra incrinatura, o quanto meno della problematizzazione di un rapporto: quello tra buona parte dei cittadini e le istituzioni sanitare, fino a quel momento basato su una sostanziale fiducia. Un ennesimo scenario, del tutto contemporaneo, di disorientamento, angoscia, rabbia e paura che va ad amplificare il terrore ancestrale della morte e dell’assenza ostile del divino espresso dagli stacchi di teatro-danza delle baccanti e dal loro sconfinare poi sotto forma di visioni nell’orizzonte percettivo ed emotivo di Chiara. Detto questo, però, Gli immortali non è né vuole essere un film contro il sistema sanitario. Esprime piuttosto la solitudine di una donna davanti all’ineluttabile e la sua lotta per venire a patti con l’impermanenza. Una donna il cui padre, quando era piccola, per rassicurarla, le aveva detto che lei e la mamma non sarebbero mai morti, perché erano immortali… Non è un film perfetto, quello di Ciccone, e in più di un’occasione rimane al di qua delle proprie ambizioni, dato che le diverse parti che lo compongono – quella famigliare e realistica, quella “fantascientifica” e gli inserti di danza-teatro come dispositivi allegorici – e che s’intrecciano non sempre trovano poi il giusto punto di fusione fra loro, amalgama cui contribuiscono non poco le ispirate musiche dei BowLand. Tuttavia ciò che arriva è la sincerità di fondo. E il coraggio, anche, di non appiattirsi in una operazione autobiografica ombelicale e autoriferita. Il che non è poco.

Info
Intervista a Anne-Ritta Ciccone, regista de Gli immortali.

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