Peacock

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Il trentaduenne austriaco Bernhard Wenger esordisce al lungometraggio con Peacock, racconto che vira verso le timbriche del grottesco per inquadrare il progressivo crollo di Matthias, uomo che per lavoro interpreta ruoli per le esigenze di privati cittadini (fidanzato, padre, e via discorrendo). Un film che guarda al cinema mitteleuropeo e nordico degli ultimi decenni, con Wenger che però dimostra uno sguardo peculiare, e indipendente. In concorso alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia.

La commedia di un uomo ridicolo

Matthias è un maestro nella sua professione. Avete bisogno di un “fidanzato colto” per far colpo sui vostri amici? Di un “figlio perfetto” per influenzare l’opinione che hanno di voi i vostri partner commerciali? O forse solo di un interlocutore per fare le prove di una conversazione difficile? Qualunque sia la vostra necessità, ingaggiate Matthias! Pur eccellendo ogni giorno nell’arte di fingersi qualcun altro, la sua vera sfida è essere se stesso. [sinossi]

Chissà se Bernhard Wenger, il trentaduenne regista di Peacock, ha avuto modo di imbattersi nella visione di Family Romance, LLC., nel quale Werner Herzog per l’occasione in trasferta in Giappone raccontava la vita quotidiana e le esperienze lavorative di tal Yuichi Ishii, la cui attività imprenditoriale ruota attorno all’idea di fornire “familiari in affitto” per ogni evenienza, pubblica o privata. Serve un buon padre di famiglia laddove invece non c’è? Perfetto, basta affittare Ishii e lui si prodiga per svolgere nel migliore dei modi, per qualche ora, il ruolo di capofamiglia. E così via discorrendo. Parte infatti dallo stesso identico principio anche l’esordio alla regia di Wenger, perché il protagonista Matthias – a interpretarlo Albrecht Schuch, che si era già visto nel ruolo di Reinhold nella versione di Berlin Alexanderplatz portata a termine da Burhan Qurbani – è un vero professionista nell’immedesimarsi di volta in volta nel fidanzato colto che fa riferimenti alla musica concreta strumentale di Helmut Lachenmann, o nel figlio inappuntabile, o ancora nel padre modello che fa il pilota di aerei di linea. Se però Herzog partiva dal vero (Ishii esiste realmente così come la sua attività commerciale) per imbastire proprio un discorso sull’impossibilità del cinema di non lasciarsi tentare dalla finzione, l’interesse del giovane cineasta austriaco si muove in una direzione diversa, e si concentra sul senso dell’interpretazione, di una società che pretende sempre di incasellare gli altri in una parte. Fin da subito Wenger inquadra Matthias, l’ideale “pavone” del titolo, pronto ad aprire la ruota per sedurre i suoi astanti convincendoli di essere davvero quello che loro pensano sia, con ripercussioni però evidenti nella vita familiare: la moglie dell’uomo mal sopporta la progressiva scissione dal concreto di Matthias, molto più preoccupato di mettere in ordine gli abiti d’ordinanza in cantina che di conversare con lei. Anche perché l’impressione è che l’uomo sia così abituato a non rappresentare se stesso nella vita di tutti i giorni da non possedere più neanche delle opinioni proprie.

Wenger, memore di una linea poetica che dalla mitteleuropa si spinge da alcuni decenni fin verso le terre scandinave (e c’è nel film un evidente riferimento diretto a una sequenza di The Square di Ruben Östlund, che mette alla berlina l’incapacità della borghesia cultivé di distinguere tra azione reale e performance artistica), articola il discorso ricorrendo a una regia frontale, dai contorni ben delineati. Uno sguardo assertivo che entra in dialettica con un protagonista sempre più in crisi, dissociato da sé e dal mondo che lo riguardo. Uno sguardo che allo stesso tempo si lascia tentare dalle derive del grottesco, con Matthias che si trova coinvolto in situazioni sempre più paradossali, mentre tenta a suo modo di riallacciare i rapporti con la consorte, che dopo aver preso un enorme alano lascia il marito al suo destino di recita permanente. Quel che ne viene fuori è una commedia survoltata, che trova il suo dinamismo proprio nel senso della ricostruzione progressiva, inesatta e colma di buchi di un’identità che nella società contemporanea è richiesta solo in superficie, senza che emerga davvero dal profondo del subconscio. Muovendosi tra il succitato Östlund e alcuni egregi conterranei austriaci quali Michael Haneke – che però la commedia non l’ha quasi mai trattata – e Ulrich Seidl, Wenger dimostra di possedere un proprio sguardo, soprattutto quando entra in contatto diretto con Matthias, col suo turbamento, decidendo di empatizzare in maniera aperta con lui senza abbandonarlo a sua volta al pubblico ludibrio che pure probabilmente meriterebbe. Così facendo anche il quadro estetico sporca le già vetuste e asfittiche esigenze dell’arthouse per riconnettersi al cinema degli anni Novanta, profondamente umanista anche quando poteva essere scambiato per gelidamente formalista. Peacock è un esordio notevole, che riconferma il feeling tra la Settimana Internazionale della Critica di Venezia (dove ha trovato collocazione nel concorso) e la produzione austriaca già testimoniato negli ultimi anni da Eismayer di David Wagner.

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Peacock sul sito della SIC.

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