Giochi proibiti
di René Clément
A settantadue anni dalla vittoria del Leone d’Oro torna a illuminare gli schermi della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, fra i Classici restaurati dell’edizione numero 81, la bellezza quasi insostenibile di Giochi proibiti, sublime capolavoro con cui René Clément ribalta le prospettive della guerra, della morte e dello sconforto nell’innocenza dolce e purissima dello sguardo dei bambini. Un film tanto poetico quanto straziante, capace ancora oggi, nel suo tracimare potenza espressiva da ogni singola e commovente inquadratura, di spazzare via quasi ogni altra visione e di ricordare perché non si può fare a meno di amare il cinema.
Romanza in mi minore
Durante la Seconda Guerra Mondiale l’aviazione tedesca mitraglia le masse di profughi che si allontanano da Parigi che sta per essere occupata dai nazisti. La bambina di cinque anni Paulette perde i genitori e il suo cagnolino durante un attacco aereo. La piccola vaga sperduta nei boschi sino a quando incontra Michel Dollé, un piccolo contadino di undici anni, che la porta nel casolare della sua famiglia. All’inizio riluttante, il padre di Michel accetta l’arrivo di Paulette, più per paura che i Gouard, suoi vicini e nemici giurati, lo facciano e ne traggano gloria, che per reale carità. La bambina si affeziona a Michel come a un fratello maggiore e i due, che hanno avuto la triste esperienza di vedere molte sepolture (compresa la morte di uno dei fratelli di Michel), iniziano per gioco a costruire un piccolo cimitero per gli animali presso il molino dove hanno seppellito il cagnolino di Paulette. Per dare un aspetto più simile a un cimitero reale rubano le croci dalle tombe del camposanto locale, scatenando le ire degli adulti. Michel è punito e Paulette, sconfessando la promessa fatta al figlio di tenerla, verrà affidata dal padre alla custodia della Croce Rossa, dalla quale ben presto scapperà perdendosi tra la folla e continuando invano a chiamare Michel. [sinossi]
Basterebbe forse l’incipit. Con l’arpeggio sulla chitarra di Narciso Yepes che dallo schermo nero lentamente apre al libro dei titoli di testa, e poi con il raid improvviso che dagli aerei spara raffiche di mitragliatrice sui profughi che nel grande esodo nel 1940 tentavano di fuggire dalla Parigi ormai in mano ai nazisti. Ma soprattutto con lo sguardo rigonfio di lacrime di Brigitte Fossey che da bambina esordiva nel ruolo della piccola e biondissima Paulette, fortunosamente rimasta illesa fra gli ultimi respiri dei suoi genitori e l’ultimo latrato di quel cagnolino che continuerà a tenere in braccio anche dopo morto, per quanto perfettamente cosciente che non si muoverà mai più, come un estremo, (in)consapevole e commovente atto di resistenza, come una sorta di simulacro della perdita, dello smarrimento e della dolcezza dei bambini messi di fronte a un orrore al quale in qualche modo sopravvivere. Solo la prima pennellata di quella commovente capacità di «aver saputo elevare a una singolare purezza lirica e ad un’eccezionale forza espressiva l’innocenza dell’infanzia al di sopra della tragedia e della desolazione della guerra» per cui la giuria presieduta da Mario Gromo, con motivazione verosimilmente forgiata dalla penna del giurato Giuseppe Ungaretti, nel settembre del ‘52 assegnava a Giochi proibiti il Leone d’Oro della 13ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un premio che in qualche modo segnava la chiusura di un cerchio che, stando all’articolo a firma di Bosley Crowther pubblicato sul New York Times il 9 dicembre 1952 in occasione della prima proiezione del capolavoro di René Clément negli Stati Uniti, si era aperto in Costa Azzurra già nel maggio precedente, con gli applausi più scroscianti uniti alle «proteste ululanti» di spettatori letteralmente inferociti per la scelta del Festival di Cannes di non inserirlo nella competizione ufficiale ma di relegarlo a proiezione speciale ai margini della kermesse. È per questo che già la Mostra di Venezia, nonostante non poche resistenze iniziali, aveva creduto nel film al punto di decidersi a forzare il regolamento pur di ammettere nel concorso nel quale avrebbe poi trionfato un lavoro che, nel maggio precedente, era già stato sulla Croisette, circostanza che già al tempo lo avrebbe in teoria reso ineleggibile. Come se la proiezione accanto ad altri conclamati capolavori come Europa ’51 e Vita di O-Haru, donna galante, e la conseguente possibilità di consacrarsi nella Storia con quel premio principale che effettivamente avrebbe poi vinto, nient’altro fosse che una sorta di atto dovuto nei confronti di un film dall’importanza, dalla potenza e dalla poesia troppo evidenti per non mostrarlo fra le opere d’arte della Biennale, dove torna settantadue anni dopo fra i classici restaurati dell’edizione numero 81 illuminando ancora una volta gli schermi veneziani della sua bellezza ai limiti dell’insostenibile, del suo sublime strazio, della sua lirica commovente e mai, nemmeno per un solo istante, ricattatoria. Un film che filtra l’orrore bellico attraverso lo sguardo e il bisogno di giocare ora tenerissimo e ora sottilmente crudele dei bambini, che parte dalla quotidianità reale della morte e ne ribalta la prospettiva in un giardino segreto in cui creare un dolcissimo (quanto tristemente inutile, come un regalo magnifico ma impossibile da recapitare) cimitero per gli animali, e che lascia deflagrare la purezza dei suoi sentimenti nel segreto condiviso, nel peccato che forse non è una vera colpa e nella bugia a fin di bene per rendere un po’ più accettabile la realtà a chi è più indifeso, mentre con la medesima grazia guarda alle ipocrisie, alle mancanze, alle immaturità e alle menzogne degli adulti, ai tradimenti della fiducia, ai conflitti interpersonali, al non mantenimento delle promesse, alla tragedia familiare che si sovrappone alla tragedia sociale. Fino a quel finale di delusione, disperazione e solitudine che sarà l’ennesimo macigno sul cuore, l’ennesimo strabordare di inaudita potenza espressiva che si installerà da qualche parte sotto la pelle e non andrà mai via, segnando il solco indelebile di uno dei film della vita. Un film tanto toccante quanto difficile da rivedere, capace di una profondità lirica nella tragedia che in tutta la storia del cinema forse solo l’animazione nipponica di Isao Takahata e dello Studio Ghibli riuscirà a eguagliare al momento di La tomba per le lucciole, e che ancora oggi segna una sorta di porta girevole nella rappresentazione della guerra e dell’infanzia, una pietra miliare con la quale è pressoché impossibile evitare di fare i conti, un esempio fra i più luminosi – e dolorosi – di fin dove può spingersi la settima arte.
Perché è una questione di come, Giochi proibiti, non tanto di cosa. È una questione di sguardo, di giusta distanza (o meglio di assoluta e incondizionata vicinanza), di apparente levità nella tragedia e di ancestrale tragicità nell’ironia. Un film, liberamente tratto dall’omonimo romanzo di François Boyer, inizialmente concepito da René Clément come mediometraggio, da intitolarsi Croix en bois, croix en fer (letteralmente Croce di legno, croce di ferro) e da inserire in un film a episodi, fino a quando fu Jacques Tati, invitato a una proiezione privata di quelle che sarebbero dovute esserne le uniche riprese, a convincere l’amico e collega a trasformare quel breve lavoro in quello che conosciamo oggi, completando la sceneggiatura e riprendendo in mano la macchina da presa. Per il resto, sarebbe esercizio ozioso e tutto sommato inutile mettersi a enumerare tutti i momenti in cui Giochi proibiti bilancia sapientemente poesia, gioco e catastrofe fino ad assestare precisi e profondissimi i suoi pugni in faccia allo spettatore. Quello che più conta è il suo lucidissimo delineare l’orrore della guerra visto attraverso gli occhi innocenti e impauriti di una bambina in qualche modo sin da subito già pronta alla morte dei genitori, ma non anche a quella del cagnolino, e il sincero affetto con cui un bambino di poco più grande se ne prende cura costruendo con lei e per lei, a costo di mentire, di uccidere animali e di rubare in barba a qualsiasi morale cattolica ogni croce compresa quella del fratello, un luogo in cui ritrovare (o in cui inventarsi di sana pianta) una bellezza nella morte per sfuggire alla sua tragedia e all’orrore del mondo. Quello che più conta è la purezza, ma per molti versi anche la maturità, di bambini in grado di agire seguendo il cuore e trovando una personalissima forma di resistenza, da qualche parte fra una personale e giocosa lettura dei precetti religiosi e il culto dei morti, a un qualcosa di troppo orribile e inumano per guardarlo realmente nella sua interezza, contrapposta al piccolo e insulso replicarsi della guerra negli adulti, divisi in famiglie nemiche anziché disposti ad aiutarsi a vicenda per fare fronte alle difficoltà, e in cui nemmeno un innamoramento incrociato à la Romeo e Giulietta delle generazioni successive, o l’atroce perdita di un figlio, o la comune diserzione dalla guerra, riuscirà a far ragionare i padri. Quegli stessi padri che, mentre i figli capiscono al volo come cooperare e coprirsi a vicenda (e magari un po’ ricattarsi, specialmente quando ci sono di mezzo il sesso prematrimoniale fra fazioni contadine in lotta), preferiscono alimentare quotidianamente la faida accusandosi a vicenda e facendosi dispetti come bambini, mentre non si faranno alcun problema a fare una promessa e immediatamente firmare per il suo contrario, ormai induriti e inariditi nel fondo dell’animo dagli anni di guerra, di lutti, di disperazione, di dolore. Inevitabilmente lontani, egoisti, anaffettivi, sardonici o peggio oramai privi perfino del sarcasmo “di reazione” più nero che caratterizza i figli anche in punto di morte, e forse proprio per questo ancora più tragici e sconfitti. Fra un prete e un carro funebre, fra una lucertola e uno scarafaggio, fra un granaio e un gufo, fra un dottore impegnato al fronte e un foglietto da usare come lapide, fra un inutile cucchiaio di olio di ricino e un cavallo «della guerra» che sarebbe stato decisamente meglio non toccare. Il resto lo fa, come si diceva in apertura sin dai titoli di testa, la Romanza musicale in mi minore (con un improvviso passaggio in maggiore destinato a tornare ben presto nella tonalità più malinconica, come l’illusione destinata a sgretolarsi di una vita felice) che Narciso Yepes ha riarrangiato e inciso come colonna sonora. La versione in assoluto più celebre e imperitura di una melodia di autore ignoto del XIX secolo che trova echi fin nella musica popolare e incisioni fonografiche che risalgono agli ultimi anni dell’800, ma che si lega così indissolubilmente a questo film che il chitarrista spagnolo si è per lungo tempo divertito a rivendicarla come composizione giovanile, in una lunga girandola di attribuzioni che solo negli ultimi anni ha ormai definitivamente rinunciato a trovare un nome e un cognome a cui legarla ma che tutt’ora la chiama comunemente Giochi proibiti. Un arpeggio che rimbomba fra la testa e le viscere, e che in qualche modo continua a risuonare nel fondo dell’anima anche ben dopo il cartello che annuncia la fine della pellicola di Clément fino a installarsi da qualche parte della passione cinefila per non uscirne mai più, come un trigger per la memoria e per le emozioni destinato a rimanere lì, sempre pronto a riattivarsi, sempre pronto a riparlare agli interstizi più profondi dell’umano, sempre pronto a spremere gli occhi fino all’ultima lacrima. Un po’ come quel grido disperato, «Michel Michel Michel», capace di cambiare per sempre chi lo vive sullo schermo con la forza di un assoluto miracolo su celluloide. Un film soave e al contempo capace di strappare il cuore, che fa stare male e che proprio nell’apice del dolore trova la sua immortalità e la sua massima, inesprimibile, dolcissima magnificenza.
Info
Giochi proibiti sul sito della Biennale.
- Genere: drammatico, guerra
- Titolo originale: Jeux interdits
- Paese/Anno: Francia | 1952
- Regia: René Clément
- Sceneggiatura: Jean Aurenche, Pierre Bost, René Clément
- Fotografia: Jacques Robin, Robert Juillard
- Montaggio: Roger Dwyre
- Interpreti: Brigitte Fossey, Georges Poujouly Amédée, Jacques Marin, Laurence Badie, Louis Saintève, Lucien Hubert, Madeleine Barbulée, Pierre Merovée, Suzanne Courtal
- Colonna sonora: Narciso Yepes
- Produzione: Silver Films
- Durata: 102'