From Darkness to Light

From Darkness to Light

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Documentario che racconta la genesi, la disfatta e la scomparsa del film di Jerry Lewis, The Day the Clown Cried, la storia di un clown che si ritrovava in un campo di concentramento. Ma From Darkness to Light racconta anche la ricomparsa del film, mostrandone larghi estratti e permettendoci di apprezzare per la prima volta quello che poteva essere – e forse sarà – uno dei film più importanti della storia del cinema. In Venezia Classici, sezione documentari.

Il giorno che il cinema pianse

Nel 1972 Jerry Lewis aveva l’ambizione d’interpretare per una volta un ruolo drammatico e con quell’obiettivo si dedicò a mettere in piedi un film molto speciale: The Day the Clown Cried. [sinossi]

Appare vagamente futile parlare di come ci sia sembrato From Darkness to Light come film in sé, come prodotto autonomo rispetto all’oggetto cui dedica la sua attenzione, e cioè il film incompiuto e scomparso che Jerry Lewis provò a realizzare nel 1972, The Day the Clown Cried. Appare futile perché From Darkness to Light, diretto da Michael Lurie e Eric Friedler e presentato in Venezia Classici sezione documentari all’ottantunesima edizione del festival di Venezia, è ridondante, confuso, non ben strutturato, con troppe persone intervistate, infarcito di una musica insopportabile. Il film acquista senso solo quando ci viene data la possibilità di vedere degli estratti del film di Jerry Lewis, che tra l’altro vengono appositamente posticipati nell’ultima parte del documentario di Lurie e Friedler, proprio per farci soffrire ancora di più. Ma finalmente il tanto agognato momento arriva, e allora siamo investiti dall’immediata contezza e consapevolezza di essere di fronte a un’opera fondamentale che, si spera, sia prossimamente possibile vedere per intero.

The Day the Clown Cried avrebbe dovuto essere nelle intenzioni di Jerry Lewis il suo film serio, che arrivava quando la sua stella era declinante, per l’appunto all’inizio degli anni Settanta, e quando l’età dell’attore stava cominciando ad avanzare (un fattore che, da sempre, rappresenta un peso gravoso per il mestiere del comico). La “serietà” del film però risultò tale da apparire quasi insostenibile. La vicenda infatti prevedeva che, durante il Terzo Reich, un clown tedesco in declino (non ebreo) commetteva da ubriaco l’imprudenza di insultare Hitler finendo così in un campo di concentramento come prigioniero politico. Una volta ritovatosi lì, il protagonista scopre che tra gli internati, separati dagli altri da un filo spinato, ci sono anche una sessantina di bambini ebrei. Ed è la loro presenza a tirare su di morale il comico, perché ridono alle sue gag e gli ridanno fiducia nel suo mestiere, e dunque nella sua esistenza. Senonché, quei bambini saranno portati in una camera a gas e sarà proprio il clown, su ordine delle SS, a doverli accompagnare per rassicurarli ed evitare disordini, urla e pianti.
Questa, a grandi linee, è la trama di The Day the Clown Cried, stando almeno a quanto ci è stato dato di capire in base agli spezzoni visti all’interno di From Darkness to Light, che si dilunga sin troppo e in maniera ripetitiva intorno ai problemi produttivi del film, che furono di ogni ordine e natura (produttori scomparsi, diritti non pagati) tanto da spingere alla fine Lewis a dover interrompere il montaggio, lasciando il film incompiuto.

Va considerato che il film di Jerry Lewis, confrontato per esempio con La vita è bella (1997), oltre a essere stato concepito molto prima, ci sembra anche ben diverso. Infatti, là dove Benigni strutturava tutto il racconto nell’ottica del gioco per rendere “digeribile” la realtà del campo al figlio internato con lui, finendo per “alleggerire” quella realtà orrenda anche agli occhi dello spettatore; Jerry Lewis procede in una direzione completamente diversa: non è lui che salva il bambino, sono i bambini a “salvare” lui, ridandogli dignità e spingendolo a legarsi a loro per la vita e per la morte, pur non essendo suoi parenti né conoscenti. Quei bambini sono il suo pubblico, i suoi spettatori, e con la loro morte, morirà anche tutto il poco pubblico che gli è rimasto. E lui non addolcisce la vita del campo mentendo rispetto a quel che avviene, la rende invece sostenibile permettendo ai giovani spettatori un breve svago nel contesto di una realtà descritta comunque come tragica e orribile.

Va anche aggiunto un ulteriore elemento. Nonostante quel che un tempo veniva chiamato Olocausto e oggi viene chiamato Shoah fosse avvenuto già da quasi trent’anni quando nel 1972 Jerry Lewis prova a fare The Day the Clown Cried, non vi erano stati all’epoca tantissimi film dedicati al tema. Certo, quali esempi positivi, c’era stato nel 1956 Notte e nebbia di Alain Resnais, c’era stato nel ’64 La passeggera di Andrzej Munk e poi poco altro ancora, come per esempio L’ultima tappa di Wanda Jakubowska (1948) o L’uomo che bruciava i cadaveri di Juraj Herz (1969). E come esempi negativi c’era stato soprattutto Kapò di Gillo Pontecorvo (1960), che venne stroncato come abietto perché estetizzante dal celebre articolo di Rivette sui Cahiers. Da lì in poi, l’ “abiezione” del carrello di Kapò divenne un monito per chiunque volesse affrontare questo tema tragico, tanto da creare una sorta di schieramento – che tuttora, in parte, sopravvive – tra chi credeva che non si dovesse banalizzare e spettacolarizzare l’Olocausto (posizione capitanata da Godard e Serge Daney), ma che lo si dovesse comunque mostrare per prolungarne la memoria anche attraverso delle immagini, quelle “immagini malgrado tutto” di cui parla Georges Didi-Hubermann in un suo libro fondamentale; dall’altra parte c’era invece chi – nei primi anni Settanta ancora silente, anche se poi sarebbe divenuto maggioranza – pensava che anche quell’evento tragico dovesse essere fagocitato dalla società dello spettacolo, come poi puntualmente avvenne a partire dalla mini-serie tv Olocausto (1978), con Meryl Streep nei panni di un’ebrea, che in effetti fece scoprire al pubblico americano l’ampiezza della tragedia ebraica. Da lì in poi quell’evento è diventato l’evento per eccellenza da raccontare e mettere in scena in ogni modo possibile, da Schindler’s List (1993) al già citato La vita è bella, per passare a tutti quei film che vengono pensati e concepiti appositamente per il giorno della memoria, come ad esempio Il bambino con il pigiama a righe (2008), fino ad arrivare a La zona d’interesse (2023) o, addirittura, a The Brutalist, presentato proprio in questa edizione del festival e che in fin dei conti ruota sempre attorno a quel vulnus. A voler essere cattivi ci sovviene una sarcastica e amara considerazione che Philip Roth fa in un suo romanzo, Operazione Shylock, quando scrive cioè che “non c’è business più grande della Shoah”.

È lecito dunque domandarsi come sarebbe cambiata la storia del racconto della Shoah attraverso il cinema, se Jerry Lewis fosse riuscito a portare a termine The Day the Clown Cried. Viene da pensare che, ad esempio uno come Claude Lanzmann, autore del monumentale Shoah (1985), si sarebbe proprio rifiutato di vederlo, convinto com’era che solo ed esclusivamente la testimonianza verbale documentaria potesse raccontare l’evento. Al contrario, uno come Godard, di cui vengono citate diverse dichiarazioni all’inizio di From Darkness to Light, era assolutamente favorevole rispetto a questa operazione, anche perché aveva fiducia che Jerry Lewis sarebbe riuscito a non banalizzare la questione. Godard, tra l’altro, il cui Histoire(s) du cinéma ha come nucleo oscuro e abissale proprio l’archivio documentario ripreso nei campi liberati dai nazisti da registi come George Stevens, si è trovato a dire più volte nel corso degli anni che un film sui campi di sterminio non è mai stato fatto, un film cioè che ce li mettesse davvero di fronte, che ce li facesse davvero percepire come estremizzazione – e non negazione – o, addirittura, come mostruoso perfezionamento dei “progressi” della civiltà occidentale.

Ora, forse, The Day the Clown Cried non è quel film, ma sicuramente è uno dei pochi film che potrebbe stare insieme a Notte e nebbia e a qualche altro, e crediamo che possa essere così sia per l’atroce contrapposizione di toni tra il tragico e il comico (e le gag che il personaggio di Jerry Lewis improvvisa davanti ai bambini fanno davvero ridere), sia per l’atmosfera di morte che vi regna anche nei momenti divertenti, sia per quello che presumiamo sia il finale del film: le risate dei bambini su schermo nero nel momento in cui si ritrovano al buio dentro alla camera a gas. E noi spettatori ci troviamo con loro nel buio più completo, condannati anche noi alla morte. Un qualcosa di simile lo abbiamo visto – o, meglio intravisto – anche nella parte finale di La zona d’interesse, dove – nel passaggio dal passato al presente – veniamo “chiusi” come spettatori dentro alla camera a gas (ma ormai non più funzionante), avendo quale unica fonte di luce lo spioncino della porta. Questa immagine però la percepiamo a malapena ed è del tutto intellettualistica e concettuale, mentre in Jerry Lewis è parte integrante del racconto, è un elemento sia concettuale che commovente. Un finale che ci pare sconvolgente e tenerissimo, e che pare alludere all’unico modo possibile che ci è dato per sconfiggere il potere, anche il più orribile come quello nazista: la risata.

Non ci resta dunque che attendere con ansia l’edizione di The Day the Clown Cried, che pare prevista per il prossimo anno, visto che Jerry Lewis – al momento di depositare nel 2015 tutto il materiale del film alla Library of Congress – pare si sia raccomandato di aspettare dieci anni prima di mostrarlo. Qualche studioso ha già avuto modo di vederlo in proiezioni private, e si parla di cinque ore di materiale. Di queste cinque ore, però, non si capisce quanto sia il girato e quanto il montato. In più, non si capisce se il montaggio scena fosse finito, visto che molto probabilmente – mancando le musiche – non lo era quello della colonna audio. Speriamo di avere presto una risposta.

Info
La scheda di From Darkness to Light sul sito della Biennale.

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