Cloud

A sessantanove anni e con oltre quaranta lungometraggi alle spalle Kiyoshi Kurosawa si lancia con Cloud in un’operazione di revisione e summa del suo intero lavoro, spaziando con libertà invidiabile tra i generi per una riflessione – non nuova nella filmografia del cineasta giapponese – sulla morale, sulla vendetta, e sull’impossibilità di una “reale” redenzione. Fuori concorso a Venezia 2024.

Produci, consuma, crepa

Ryōsuke Yoshii lavora in una piccola fabbrica e fa qualche soldo in più come rivenditore sotto lo pseudonimo di “Ratel”. Tratta attrezzatura medica, borsette, oggettistica, in pratica tutto quel che può rivendere per ricavarne un profitto. Compri al ribasso, vendi al rialzo: tutto qui. Muraoka, che gli ha insegnato i trucchi del mestiere quando erano compagni ai tempi del college, gli fa una proposta potenzialmente redditizia, ma lui rifiuta e continua con la sua discutibile attività. Si fida solo del suo conto in banca che continua ad aumentare. Rifiuta categoricamente anche una promozione e si dimette all’improvviso dopo tre anni di lavoro. Affitta una casa sul lago fuori città, sia per viverci sia per trafficarci, e inizia una nuova vita con la sua ragazza, Akiko. Con l’aiuto di Sano, un giovane locale assunto come aiutante, il suo business pare andare a gonfie vele, finché intorno a lui non iniziano a verificarsi inquietanti episodi uno dopo l’altro. Una spirale negativa di animosità si trasforma in una folla impazzita di dimensioni sconosciute. Il suo obiettivo è Yoshii, la cui inconsapevole esistenza viene rapidamente fatta a pezzi. [sinossi]

Il cloud è quel luogo virtuale in cui si immagazzinano e stipano dati, file, elementi spesso sensibili di quella vita privata che più tale non è nel mondo dell’algoritmo dominante, ma che allo stesso tempo si è ancor più allontanata dal concetto di collettività. Soli di fronte al computer, aggiornando le pagine con la speranza che la merce messa in vendita trovi acquirenti nel minor tempo possibile. Produci, consuma, crepa, la triade cantata quarant’anni or sono dai CCCP – Fedeli alla Linea torna come elemento preponderante del nuovo film di Kiyoshi Kurosawa, che l’ottantunesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha pensato bene di collocare nel fuori concorso, in una posizione così scomoda da renderlo quasi invisibile (destino toccato anche a un altro titolo “scioccante” di Venezia 2024, vale a dire Baby Invasion di Harmony Korine) nonostante si trattasse a tutti gli effetti di uno dei titoli più puntuali nel cogliere le distonie del presente, la marcescenza di una società scollegata completamente dal reale e per questo ancor più vittima/carnefice della struttura piramidale. O forse proprio per questo, chissà. Si può uscire destabilizzati da Cloud, un’esperienza emotiva che appare legittima perfino per coloro che hanno una maggiore dimestichezza con il quasi settantenne cineasta giapponese, giunto oramai a oltre quaranta lungometraggi conteggiando anche i film prodotti per la televisione (tra questi anche un classico come Seance, oltre al recente Wife of a Spy che al Lido permise a Kurosawa di ottenere il Leone d’Argento per la miglior regia) o quelli portati a termine all’epoca dell’esplosione del fenomeno dei direct-to-video, come ad esempio la fortunata saga Suit Yourself or Shoot Yourself. Già, perché Kurosawa sceglie di costruire un’opera-summa in grado di contenere al proprio interno tutte le derive del proprio approccio autoriale, in una mescolanza fruttifera di “alto” e “basso” che deflagra in un finale al limitar dell’action. Se proprio si deve trovare un punto di riferimento all’interno della vastissima filmografia kurosawiana, Cloud fa tornare alla mente l’esaltante dittico del 2013 composto da Seventh Code, noir quasi muto e adrenalinico in quel di Vladivostok con protagonista la splendida Atsuko Maeda, e le arti marziali che la facevano da padrone nel cortometraggio Beautiful New Bay Area Project.

Ma Kurosawa si spinge ben oltre una propria personale rivisitazione del genere, e con Cloud sembra volersi riappropriare dei temi centrali del proprio pensiero sul cinema e sul mondo declinandoli in una chiave distorta, sempre in bilico, mai volutamente salda nella struttura ma pronta a slittare, a passare di genere in genere, dal dramma all’action, dal thriller alla disamina sociale, dal revenge movie alla crisi di coppia. Si torna a ragionare ad esempio sulla virtualità sempre maggiore del presente, tema cardine attorno al quale si sviluppava oltre venti anni fa lo straordinario Pulse, e che qui svuotata oramai di ogni velleità filosofico-morale è utile solo ai più furbi per orchestrare truffe online, rivendendo a prezzi esorbitanti merce ricavata spesso ricorrendo ad altri illeciti, grandi o piccoli che siano. È questo il “mestiere” di Ryōsuke Yoshii, operaio molto apprezzato dal suo padrone – ma si licenzierà ben presto per perseguire il suo disegno di vita davanti a un computer – che sul web è noto con il nickname Ratel. Non ha scrupoli, Ryōsuke, seguendo l’insegnamento dell’uomo che gli ha svelato i trucchi da seguire e che ora è a sua volta superato da questo arrivista che ha come unico scopo aggiornare il proprio libretto di risparmio in banca scoprendosi di colpo milionario – di yen, sia ben chiaro, il massimo che incamera il giovane uomo sono poco meno di quindicimila euro, ed è questa un’altra trovata brillante di Kurosawa, che svela la miserrima dimensione del microcosmo che porta a galla. Quello che appare a tutti gli effetti come un dramma sociale inizia a tramutarsi poco per volta in un noir, quando Ryōsuke/Ratel decide di trasferirsi con la sua compagna in una villa fuori città, dove però inizia a sentirsi spiato. Questa lenta erosione del genere porta poi in direzione del western contemporaneo, e quindi come già accennato dell’action.

Nulla di forzato, né di esondante: Kurosawa dimostra la solita maestria nella messa in scena, elaborando una volta di più una riflessione sul senso di impotenza di fronte all’ingiustizia e sulla vendetta, la rivalsa disperata contro colui o coloro che hanno attentato alla tranquillità, quel mito apparente del tutto introvabile a conti fatti nella società del Capitale, dove tutto è in vendita, dall’action figure fino alle storie d’amore. Dominato da una cupezza annichilente, Cloud è un viaggio agli inferi dove Caronte e Virgilio diventano un’unica cosa – il fedele servitore Sano è con ogni probabilità il personaggio più complesso, stratificato, e affascinante, Giano bifronte che non segue una stolidità del comportamento e può dunque agire anche da angelo/demone custode – e nulla può essere redento, perché il dark web è più veloce e più assoluto di qualsiasi gesto umano, persino il più ferale e all’apparenza definitivo. Divertente, spiazzante, tragico, disperato, Cloud è il segno di resistenza dell’immagine come senso, là dove l’algoritmo è insensato perché persegue logiche inumane, ultra-umane, subumane; ed è anche forse la dichiarazione di una sconfitta ontologica, eterna, che è quella dell’umanità post-tutto, dove il linciaggio di qualcuno viene deciso tramite una chiacchierata in chat, senza che nessuno conosca l’identità degli altri. Un’opera simile avrebbe meritato uno spazio ben più consono all’interno dei lavori della Mostra, un discorso valido anche per il succitato Baby Invasion, o per lo splendido Phantosmia di Lav Diaz.

Info
Cloud sul sito della Biennale.

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