L’oro di Napoli

L’oro di Napoli

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Al crocevia fra neorealismo e tendenza al colore locale, già proiettato in una dimensione di grande produzione all star, L’oro di Napoli di Vittorio De Sica è un classico molto amato, popolato da uno stuolo di volti noti del nostro cinema. Gusto per il paradosso, rapporto tra individuo e Potere, un po’ di folclore e il tentativo di raccontare il ventre di una città al contempo sorridente e tragica. Restaurato e presentato alla Mostra del Cinema 2024 per Venezia Classici.

Di testa e di petto

Sei episodi di durata diseguale, tutti ambientati a Napoli. Il pazzariello don Saverio è vessato da un guappo di quartiere che si è installato in casa sua da anni e che vive alle spalle dell’intera famiglia. Una coppia di pizzaioli è costretta a rintracciare tutti i clienti della giornata per ritrovare un anello di smeraldo forse disperso nell’impasto – ma la bella donna Sofia se l’è semplicemente dimenticato a casa del fascinoso amante. Una madre addolorata accompagna la bara del suo piccolo figlio lungo la città, sostenuta da altri convenuti. Ossessionato dalle carte, un nobile spiantato costringe il figlio del portinaio, bravissimo al tavolo da gioco, a sfidarlo quotidianamente andando incontro a una sconfitta dopo l’altra. Una prostituta rimane sorpresa di essere stata scelta come sposa da un ammiratore segreto, ma subito dopo il matrimonio emerge una terribile verità. Per contenere i soprusi perpetrati sull’intero quartiere da un nobile automunito, don Ersilio Miccio suggerisce agli abitanti del luogo di ricorrere a una serie di pernacchi… [sinossi]

1952-1954: in questo biennio si colloca un po’ uno spartiacque nella filmografia di Vittorio De Sica regista, e se vogliamo pure attore. Uno spartiacque che è anche continuità e processo evolutivo (o involutivo, a seconda dei punti di vista), come ridisegno di una personalità artistica in via di mutare insieme al segno dei tempi. Pur ritornando più volte a riflessi neorealistici lungo la sua successiva produzione (basti pensare a Il tetto, 1956), De Sica si congeda dalla tendenza postbellica del cinema italiano con Umberto D. (1952), un capolavoro collocato al crocevia fra neorealismo, melodramma e paradosso kafkiano. Ed è proprio nel paradosso che probabilmente si rintraccia il robusto filo rosso convocato a tenere insieme L’oro di Napoli (1954) con la pregressa produzione desichiana-zavattiniana. A ben vedere, in molti dei film realizzati dal duo creativo fino ai primi anni Cinquanta resta ben percepibile infatti una cupa vena paradossale che trascende il neorealismo verso riflessioni universali su individuo e Potere. E mai altro luogo – almeno per la cultura popolare – è impastato con il paradosso quotidiano quanto Napoli, specialmente quella più arcaica e tradizionale, miscela esplosiva di credenze, usanze, costumi, consuetudini e antiche moralità. Napoli è il teatro, l’esteriorità, la messinscena di se stessi e dei propri sentimenti. È costruirsi un’identità e crederci fino in fondo. È almeno questa Napoli che De Sica e Zavattini scelgono di raccontare, attingendo da un’omonima raccolta di racconti di Giuseppe Marotta, pubblicata nel 1947. L’appropriazione è energica, dal momento che spesso L’oro di Napoli mescola e ricuce più racconti della fonte letteraria all’interno del medesimo episodio.
L’operazione è di intensa personalizzazione cinematografica. Nella Napoli qui evocata da De Sica è infatti facile riconoscere i prodromi di quella ancor più folclorica e cartolinesca di Matrimonio all’italiana (1964) edella sigaraia Adelina di Ieri, oggi, domani (1963) – in questi due casi, ulteriore elemento verso lo spettacolo popolare da esportazione sarà garantito dai toni squillanti della fotografia a colori. L’oro di Napoli si delinea invece come un’opera in qualche modo transitoria. Si racconta ancora di povera gente, spinta ai margini della società per la lontananza dal progresso modernista che pure inizia a dare i suoi frutti nel resto d’Italia, e per alcuni ruoli secondari De Sica ricorre ancora ad attori non professionisti. Ma al centro è posto con atto deciso e poderoso un cast di prima scelta selezionato fra il coevo Gotha dello spettacolo napoletano, sia cinematografico sia teatrale. Totò, Sophia Loren, Vittorio De Sica stesso in veste d’attore, Eduardo De Filippo: a ciascuno è riservato un episodio separato per esaltarne le singole doti istrioniche. D’altronde L’oro di Napoli è anche una grande e ricca produzione della Ponti-De Laurentiis; lo sfruttamento dello star system di casa nostra è ben evidente, e per il buon peso i due produttori pensano pure di dedicare uno specifico episodio alle rispettive compagne, Sophia Loren e Silvana Mangano – per un film corale è curioso, del resto, che la Mangano sia annunciata come prima attrice precedendo il titolo del film, ed è altrettanto singolare che nel suo episodio l’attrice romana sia accolta, nelle vesti del suo personaggio Teresa, come un’effettiva estranea a Napoli proveniente dalla capitale da accogliere e festeggiare con la migliore delle ospitalità, intonando pure la celebre Nannì in suo onore.

È infine il registro a mutare sensibilmente rispetto alle precedenti opere registiche di De Sica realizzate nel dopoguerra; pur alternando di segmento in segmento il dramma alla commedia, L’oro di Napoli lascia ampio spazio a un sorriso garbato e compiacente nei confronti della città partenopea e dei suoi riti sociali. Risulta in qualche modo significativa la scelta di congedare il film con l’episodio del pernacchio, che giunge a chiudere il racconto con un sonoro sberleffo di irridente irriverenza verso qualsiasi forma di arrogante Potere. La Napoli di De Sica prende vita dal basso, non può ribellarsi più di tanto al potere ma almeno si toglie la soddisfazione di dissacrarlo. E lo dissacra con una risata. Del resto, il Potere è un altro tema che ritorna più volte lungo i vari segmenti narrativi di cui L’oro di Napoli si compone. È la prepotenza del guappo (interpretato, pare, da un vero uomo d’onore) a schiacciare l’esistenza del pazzariello don Saverio e della sua famiglia. L’episodio è per lo più divertente, ma si chiude su una nota amarissima – di fronte all’unità della famiglia che gli si oppone, il guappo se ne va, ma dietro quella porta chiusa rimarrà per sempre la paura della vendetta e della ritorsione. È altresì un inedito e ridicolo rapporto servo-padrone a tenere legati i due giocatori di carte (il conte Prospero e il bambino Gennarino) che per volere dell’attempato signore si trovano costretti alla simulazione di un aulico scontro fra nobili. Da un lato vi è l’ossessione dell’uomo altolocato, interdetto dalla moglie, mezza calzetta nel gioco delle carte ma desideroso di imporre in ogni modo il proprio inesistente talento; dall’altro un bambino preso dalla strada, il figlio del portinaio, realmente bravissimo al tavolo da gioco. È un rapporto inevitabilmente sbilenco e sbilanciato; il conte Prospero dev’essere accontentato nei suoi capricci di nobile spiantato, e a Gennarino è rubata in qualche modo una parte della sua infanzia – il finale del segmento è sapientissimo nell’evocare la solitudine del bambino. Ma al contempo Gennarino tiene pure il conte in pugno, poiché il nobile ha bisogno di lui per poter continuare a giocare e si danna l’anima per carpire il segreto del talento del bambino nel gioco delle carte. Di pernacchio e Potere si è già detto. Resta infine l’episodio di Silvana Mangano, il più debitore del gusto per il melodramma lacrimoso d’appendice, che è altrettanto crudele nell’evocare rapporti di forza in tutto legati al potere del denaro – soltanto un ricco come Nicolino può nutrire in sé lo strano senso di colpa che lo attanaglia, vissuto come una sorta di vizio per benestanti da espiare umiliando e rovinando indirettamente la vita di un’altra persona.

Restano altresì tracce di uno scrupolo veristico (il ruolo sociale del pazzariello, l’attenzione ai comportamenti della massa intorno alla pizzeria di donna Sofia, i panierini che scendono dalle case, il senso di verità degli esterni e interni…) che tuttavia sono poderosamente contaminate con la ricca produzione cinematografica e con quello che sarà definito il neorealismo rosa anni Cinquanta. Certo fa macchia il segmento del Funeralino, che assume i toni dell’asciutto resoconto di un rito sociale. L’episodio fu rimosso dal montaggio al momento della distribuzione in sala poiché ritenuto troppo triste, e successivamente reinserito nel film. L’aspetto della protagonista Teresa De Vita porta tutti i segni dell’attrice non professionista, e rispetto agli altri segmenti narrativi scompare il gusto per il colore locale, rimpiazzato da una sentita adesione al dato antropologico. È assente la musica a commento; per lo più in colonna audio si odono i rintocchi sulla strada degli zoccoli dei cavalli. A Napoli è morto un bambino. Come ai tempi del loro primo cinema realizzato insieme, De Sica e Zavattini sembrano esprimere di nuovo una spiccata sensibilità per le storture del mondo, specialmente se toccate in sorte all’infanzia. Tuttavia, in quella piccola bara viene da pensare che venga sepolta anche una giovanissima idea di cinema, il neorealismo nato dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale e consumatosi nel giro di un quinquennio o poco più. Comunque sia stato, l’episodio stacca stilisticamente per evidente debito estetico al De Sica del dopoguerra, ancor più asciutto del solito nei suoi elementi espressivi. E ancora rintracciamo quella dicotomia fra Napoli ricca e Napoli povera nel desiderio della madre di far transitare il carro funebre, almeno per l’ultimo saluto, dalla via principale del lungomare. Luogo di sorrisi, di ottimismo, di soprusi e paradossi, dunque. Una delle pagine più gustose resta sicuramente la presa in giro del lutto coniugale – Paolo Stoppa, vedovo inconsolabile, in una delle sue prove più strepitose al cinema, che piange disperato per la moglie defunta e che tenta di suicidarsi, dando però bene un’occhiata che vengano a salvarlo in tempo. È il teatro a cielo aperto di Napoli, l’esasperazione esteriore dei drammi fino a spingersi verso il comico involontario. I fatti del singolo che diventano fatti di tutti (indicativo in tal senso è l’episodio dell’anello nella pasta della pizza, che in breve tempo diventa faccenda collettiva). E nel passo di donna Sofia tra i vicoli di Napoli s’intravede la nascita di un preciso profilo d’attrice. Fianco largo, passo poderoso, uno stuolo di uomini che la osservano e la seguono, e lei in mezzo che procede fiera e a testa alta, ben consapevole del fascino suscitato e di esso orgogliosa. Nasce una star presto internazionale. Nasce anche, probabilmente, un discreto numero di luoghi comuni cinematografici.

Info
L’oro di Napoli sul sito della Biennale.

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