La calda amante

La calda amante

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Accolto a suo tempo da critica e pubblico con discreta freddezza se non con un vero e proprio rifiuto, La calda amante di François Truffaut si delinea in realtà per un ennesimo capolavoro di una filmografia di rara coerenza e compattezza. Imperniato sul convenzionale tema dell’adulterio borghese, il film si articola nei fatti intorno a una schiacciante idea di negazione di qualsiasi passione amorosa, adottando una sottile e strisciante vena di sadico umorismo nero. Presentato in versione restaurata alla Mostra del Cinema 2024 per Venezia Classici.

L’atto mancato

Uomo di cultura, direttore di una rivista letteraria, padre di famiglia, il maturo Pierre incontra in uno dei suoi viaggi di lavoro la bella e giovane Nicole, hostess di volo. Fra i due si avvia una relazione che mette rapidamente in crisi il matrimonio di Pierre con Franca, donna determinata e affezionata alla propria vita fatta di sicurezze e agi borghesi. Dopo una serie di umiliazioni subite da Nicole per via dell’invincibile ipocrisia che imprigiona l’esistenza di Pierre, la vicenda procede a larghi passi verso un esito tragico… [sinossi]

Venuto subito dopo Jules e Jim (1962), La calda amante (1964) spiazzò un po’ tutti, soprattutto il pubblico del Festival di Cannes, dove il film fu presentato in concorso e dove fu accolto da una generalizzata reazione negativa. François Truffaut disorientò le aspettative, proponendo una rilettura del classico tema del triangolo amoroso e dell’adulterio borghese dopo la ventata di libertà (nei fatti ben più problematica) emanata dal suo amatissimo lungometraggio precedente. A ben vedere La calda amante (titolo italiano infelicissimo, in luogo del ben più pregnante originale La peau douce)fu soltanto uno dei segmenti di una più ampia riflessione autoriale sull’amore borghese che caratterizzerà buona parte della produzione truffautiana. Alla viscerale radicalità della vicenda di Jules e Jim si oppone qui una visione del mondo spenta e grigia, in cui nemmeno l’amore riesce in realtà a trovare una sua effettiva espressione. Non c’è infatti niente di particolarmente esaltante nella vicenda di Pierre Lachenay, signore di buona cultura che dirige una rivista letteraria e che da anni si dedica allo studio dell’opera di Honoré de Balzac. Ha un bell’appartamento, ancorché freddo e asettico nei suoi ambienti (si tratta della vera abitazione di Truffaut ai tempi delle riprese), una bella moglie, una bambina. Con scelta precisa e fermamente perseguita lungo tutto il racconto, l’esistenza di Pierre è fatta di frammenti, che collidono uno contro l’altro in un montaggio rapido e spezzatissimo. Un mondo di piccoli gesti insignificanti, di oggetti, di attrezzature da mettere in funzione – telefoni, interruttori, orologi, opportunamente sottolineati da ripetuti rumori in colonna audio. Un mondo di inessenziale sostanza, che pure finisce per riempire un’intera vita, spesa fra un automatismo e l’altro. Un mondo ordinato e prevedibile, come la serie modulare e iterativa delle paia di scarpe lasciate fuori dalle stanze in un albergo piuttosto anonimo. In uno dei primi incontri con Nicole, bella e giovane hostess di volo, Pierre ammette candidamente che con buona probabilità ha stentato a trovare moglie perché non sa ballare. È dunque un uomo di pensiero e di cultura, ma privo di una vera e determinata volontà, soprattutto poco convinto di sé e poco assertivo, quantomeno in ambito di rapporti umani.

Se dunque Truffaut pare dedicarsi a uno dei tòpoi più abusati del cinema commerciale (l’adulterio, la passione extraconiugale), d’altro canto in La calda amante avviene una chirurgica demolizione e decostruzione di qualsiasi possibilità amorosa. Resta qualche traccia di enfasi – stupenda la sequenza del primo incontro in hotel, ma anche in uno dei brani apparentemente più appassionati Nicole resta in uno stato indefinito fra sonno e veglia. Dal basso della sua debolezza, Pierre ha il coraggio di affrontare il corpo della donna soltanto quando Nicole è in qualche modo assente. Per il resto, l’illusione della passione si consuma e si spegne nel volgere di due inquadrature, soffocata dai frammenti non coincidenti di una vita che si apre a un’infinità di contrattempi e casi sfavorevoli. Come spesso accade nel cinema di Truffaut, si potrebbe parlare di tragico Fato avverso. Stavolta non è esattamente così. È il fattore umano, in realtà, a non essere sufficientemente corroborato dalla necessaria volontà d’esistenza. Circa vent’anni dopo Truffaut realizzerà La signora della porta accanto (1981), dove di nuovo due telefoni che confliggono aprono le danze all’impossibilità dell’amore – come d’abitudine, Truffaut ricorre all’autocitazione significante, come a tenere insieme un’intera produzione all’interno di un unico e coerente discorso. Ma se Bernard e Mathilde vivono fino in fondo una passione autodistruttiva, di contro i Pierre e Nicole di La calda amante si collocano esattamente agli antipodi, vittime di una rarefatta rassegnazione nemica di qualsiasi vero slancio, dove in larghissima parte le responsabilità sono addebitabili all’indeterminazione del protagonista maschile. Basti pensare alla lunga e magistrale parentesi a Reims, quando Nicole va incontro a una serie di terribili umiliazioni e Pierre, schiacciato dall’ipocrisia, non è nemmeno capace di intervenire a difendere la sua donna dalle insidie di un molestatore di strada. Alla prima metà in buona parte dominata dalla figura di Nicole, si oppone un secondo capitolo tutto dedicato alla reazione della moglie Franca alla relazione extraconiugale avviata dal marito. Il quadretto borghese che ne emerge è di raro squallore, soprattutto nella prima lite notturna fra coniugi all’insegna del ricatto morale e del patetismo. Poche ore dopo Franca, però, pretende un rapido divorzio perché non ha intenzione di restare a lungo da sola, vittima a sua volta di precise coordinate comportamentali borghesi che rendono impossibile l’idea di bastare a se stessi.

Da qualsiasi lato lo si guardi, dunque La calda amante è tutto fuorché percorso da irresistibili passioni amorose. La passione resta un obiettivo perduto che aleggia come inappagata e irraggiungibile possibilità, e forse come rimpianto di una giovinezza mai veramente vissuta. Lo stesso Truffaut ammise che Gianfranco De Bosio, da lui definito “regista italiano di sinistra”, aveva più di una ragione nel ravvisare in La calda amante uno strisciante umorismo nero. La catena di sfortunati contrattempi, sempre più fitti verso il finale, assume a poco a poco tratti pressoché paradossali. Ed è percepibile altresì un certo gusto sadico nel raccontare impietosamente le ambasce di un eroe meschino come pochi altri se ne sono visti nella produzione truffautiana. Tale venatura ghignante deflagra poi nello scioglimento, nell’eccesso degli atti innescati da una banalissima e squallida storia di corna. Quel fucile squadernato da Franca con gesti pacati, decisi e ineluttabili appare in scena in tutto il suo eccesso grafico, e al momento dello sparo è necessario mostrare il corpo di Pierre che cade per due volte con la faccia riversa sul tavolo del ristorante. Siamo ancora nel mondo dei faits divers, dei fattacci di cronaca nera, spesso a carattere passionale, che più volte hanno alimentato i racconti del cinema di Truffaut, e più in generale di molto cinema francese. Il linguaggio cinematografico è di nuovo percorso da continue infrazioni alla grammatica classica, fitto com’è di panoramiche a schiaffo, rapidi avvicinamenti e allontanamenti dalle figure in scena, jump-cut quasi impercettibili e un montaggio, come dicevamo, fatto di brevi e brevissime inquadrature dal ritmo rapido e ultra-frammentato. Al canovaccio abusato e tradizionale del tradimento borghese si applica dunque una ricerca linguistica che tende a far deflagrare acquisite consuetudini espressive e che contribuisce alla radiografia di un globale atto mancato. In La calda amante nulla è compiuto, nemmeno il linguaggio espressivo. Ad assumere l’onere dell’atto più compiuto di tutti ci pensa Franca, portatrice di morte, l’unico atto possibile in una grigia catena di balbettii e incompiutezze. A ben vedere, nel cinema di Truffaut il personaggio di Franca si allinea a una lunga galleria di femmine folli e omicide, molto spesso per amore: la Catherine di Jules e Jim, la Julie di La sposa in nero (1968), la Marion di La mia droga si chiama Julie (1969), la Mathilde di La signora della porta accanto (1981). E se non arrivano all’omicidio, si dedicano comunque all’autodistruzione per amore – le sorelle di Le due inglesi (1971), la sventurata di Adèle H. (1975). Non rimane estraneo a tale linea nemmeno Effetto notte (1973), in cui si gira il noto film nel film Vi presento Pamela, di nuovo una storia di adulterio borghese aggravato dal fatto che il suocero attempato s’innamora della nuora bella e giovane, dove Truffaut autocita esplicitamente il gattino intorno al vassoio della colazione presente in La calda amante.
Al massimo l’amore può incarnarsi a conti fatti in una logorante e insoddisfatta ricerca della felicità, come quelle mani che tristemente si cercano intorno a un anello nella sequenza di apertura di La calda amante. Il film contiene una delle partiture musicali più belle mai composte da Georges Delerue (fra le molte delle sue, in verità, assolutamente memorabili) ed è anche una delle poche prove concesse dal cinema alla sfortunata Françoise Dorléac, sorella di Catherine Deneuve e al tempo delle riprese compagna dello stesso Truffaut, scomparsa prematuramente a soli 25 anni a seguito di un tragico incidente automobilistico. Nei panni di Pierre troviamo invece l’ottimo Jean Desailly, perfetto corpo anonimo di un uomo senza qualità, che attraversa la sua vita come si attraversa impassibilmente un corridoio d’albergo. Meschino, tragico, forse ridicolo. In un mondo grigio e impersonale, vi è posto soltanto per la negazione.

Info
La calda amante, un trailer.

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