The Noose

The Noose

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Visionaria opera prima firmata nel 1958 da Wojciech Has, The Noose si innesta da qualche parte fra l’Espressionismo, il Neorealismo e il surreale per mettere in scena una giornata di dolore esistenziale e di ordinaria estraniazione di un uomo alcoolizzato, in procinto di smettere eppure irrimediabilmente intrappolato nel proprio purgatorio autodistruttivo di dipendenza, di emarginazione, di insicurezze e di paure. Un canto universale al nichilismo e alla disperazione, ai demoni interiori e alla debolezza umana, fra la frustrazione delle continue pressioni sociali e un male di vivere che non smette di consumare da dentro. In programma sul grande schermo del Palazzo delle Esposizioni fra i Grandi classici del cinema polacco di CiakPolska 2024.

Quella sporca ultima vodka

Kuba è alle prese con la propria dipendenza dall’alcol. Solo nel proprio appartamento, è in attesa della fidanzata per andare dal medico, mentre il telefono continua a squillare. La battaglia del protagonista con il proprio demone assume la dimensione di un interrogativo profondo sull’esistenza. [sinossi]

Servono ben due passi indietro prima di poter parlare di Pętla, o se si preferisce The Noose, letteralmente Il cappio. Uno, inevitabilmente, verso l’omonimo racconto breve pubblicato due anni prima dal co-sceneggiatore Marek Hłasko, dal quale il film con cui nel gennaio del ‘58 l’allora poco più che trentenne Wojciech (Jerzy) Has esordiva nella regia di un lungometraggio è dichiaratamente tratto. L’altro, ancora più a monte e ancor più decisivo, verso la realtà, verso l’aneddoto che come un perfetto paradigma della debolezza umana e della difficoltà di gestire le pressioni ha ispirato non solo il protagonista e l’incipit narrativo, ma in qualche modo il senso stesso della prosa letteraria e poi del film. Una piccola “storia vera” da cui far partire e lasciare libera l’immaginazione, ma anche il punto di vista, lo spettro emotivo, lo sguardo tutto fuorché giudicante, la profondità della comprensione umana, l’affetto verso un amico che si stima in ogni sua ferita. Nasce infatti in qualche modo da una visita inattesa ricevuta a casa dallo stesso Hłasko, The Noose. Alla porta, frustrato e tremante, il poeta, rivoluzionario e alcolizzato Władysław Broniewski, che dopo aver passato l’intera giornata a rispondere alle telefonate e alle raccomandazioni di altri amici che avevano appreso della sua decisione di smettere di bere, schiacciandolo di responsabilità e portandolo inevitabilmente a non ripensare ad altro che alla propria dipendenza e ai propri demoni interiori, implorava lo scrittore e amico fraterno di tirare fuori la vodka. Nasce da quell’esatto momento Kuba Kowalski, personaggio di fantasia ma non troppo che Has, al momento di trasporlo sullo schermo, deciderà di far tornare alla professione di artista tormentato proprio come Broniewski che lo aveva originariamente ispirato. Un antieroe, innestato nel corpo e nel volto di Gustaw Holoubek, sin da subito destinato a una progressiva perdita della speranza ma in qualche modo anche alla definitiva accettazione della sua condizione, del quale riflettere in ogni singola inquadratura gli stati d’animo e mentali, la sofferenza, le tentazioni, il tragico destino già segnato e irreversibile.

Inizia a stringersi progressivamente sin dalla prima inquadratura, il cappio di The Noose. Con il filo di quel telefono che non la smette di squillare, con la corda che quella bambina continua a saltare come se nulla fosse, con quell’orologio appeso a una catena proprio fuori dalla finestra. E poi con la cintura di un altro ubriacone giunto in arresto al posto di polizia, con la cinghia di un sassofono oramai immaginario, con gli intrecci di ombre sui soffitti, con i lampadari che pendono dall’alto, con i cavi sistemati dagli operai, con l’intreccio dei fili elettrici sospesi del tram. Un motivo visivo insistito, con cui Wojciech Has gioca apertamente con simbolismi e soluzioni formali per spingersi sempre più all’interno dei meandri esistenziali del protagonista, prima suggerendo e poi sempre più gridando l’unico possibile finale attraverso un uso espressionista degli interni e degli esterni, al contempo perfettamente reale eppure in qualche modo deformato verso il Surrealismo dalle percezioni alterate di chi soffre per il bisogno e per le conseguenze dell’alcool, per la petulante insistenza di un mondo che non sa farsi i fatti propri, per l’emarginazione di uno stigma sociale impossibile da estirpare. Un profluvio di piani olandesi, specchi, muri, disordine e oscurità, di plongée e contro-plongée claustrofobici e inquisitori che sembrano soffocare Kowalski nei tagli di luce laterali e nelle panoramiche che trasformano la sua stanza in una cella, di repentini cambi di fuoco che aprono i diaframmi per schiacciare la visione nell’annullamento di ogni profondità di campo, nelle linee oblique e nelle forme oblunghe, nei contorni netti e inquietanti delle strisce sulla carta da parati. Il resto lo fanno le strade deserte di Łódź, l’attesa, l’alienazione, le riviste con le pubblicità dei liquori, i venditori di bottiglie, gli amici che riportano immediatamente alla memoria una qualche ubriacatura, il senso di solitudine anche e soprattutto in mezzo alla gente, l’autista di autobus che si schianta ubriaco come a ricordargli le sue colpe. Il Neorealismo della depressione e del nichilismo, della facilità di ubriacarsi per stare bene, ma anche della necessità di smettere, di disintossicarsi, o magari di arrendersi. Fino a quando la vita reale non diventa il sogno, anzi l’incubo, e il bicchiere l’unica certezza, l’unica identità, l’unica verità, l’unico possibile mondo in cui trovare rifugio dal dolore, in cui dimenticarsene perfino i motivi.

Ma non è un film sull’alcolismo, The Noose. È semmai un film sul dolore esistenziale, sul chiudersi in se stessi, sull’estraniarsi fino a trovare una propria personale realtà alternativa. Su una disperazione che non si può combattere, si può solo imparare ad accettare per quello che è. Una lunga attesa, di quelle pillole di Antabus con cui finalmente riuscire a bloccare il desiderio di alcool fino a non sentirlo più, che più si accorcia e più sembra interminabile, inutile, senza scopo né reale possibilità di riuscita, perché non si può sfuggire alla propria natura che, prima o poi, sarà sempre destinata a ripresentarsi. Perfino i documenti non hanno più senso, quando non c’è più l’identità dell’uomo che rappresentano, ma solo l’alcolizzato, l’ubriacone, la percezione comune, l’etichetta appiccicata dal mondo. La mancanza di fiducia come una preventiva condanna, in cui poco importa essere sobri, e in cui importa relativamente anche l’amore di una donna, importa relativamente anche la legge, importa relativamente anche il denaro, importano relativamente anche le botte. Importa solo la smania, il bicchiere da svuotare e nuovamente riempire, il momento in cui ci si riconosce con un altro senza nome a cui offrire un giro dopo l’altro. Importa solo l’impossibilità di uscirne se non per rientrarci. Importa solo trovare finalmente pace, qualsiasi sia il modo.

Info
La scheda di The Noose sul sito del Palazzo delle Esposizioni.

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