Napoli – New York

Napoli – New York

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Gabriele Salvatores firma con Napoli – New York il suo primo film autenticamente napoletano, ritrovando la sua migliore ispirazione. Un viaggio nel Paese delle promesse (infrante), una favola che guarda al cinema di ieri ma che non rinuncia a uno sguardo lucido tanto sul passato quanto sul presente. E con un cast di ottimi attori fra i quali spicca il volto dei due piccoli protagonisti in grado di restituire il senso profondo del film con una frase o un semplice sguardo.

La linea della fortuna

Nell’immediato dopoguerra, tra le macerie di una Napoli piegata dalla miseria, i piccoli Carmine e Celestina tentano di sopravvivere come possono, aiutandosi a vicenda. Una notte, s’imbarcano come clandestini su una nave diretta a New York per andare a vivere con la sorella di Celestina emigrata mesi prima. I due bambini si uniscono ai tanti emigranti italiani in cerca di fortuna in America e sbarcano in una metropoli sconosciuta, che dopo numerose peripezie, impareranno a chiamare casa. [sinossi]

Facendo ritorno alla sua città natale, dove non aveva mai girato prima (fatta eccezione per qualche scena di Denti), Salvatores ritrova con Napoli – New York la sua Napoli e al contempo trova la sua New York. Ma soprattutto recupera la cifra migliore e più convincente suo cinema – che prese l’avvio proprio sul tema dell’on the road, del viaggio di formazione e di conoscenza di sé – finalmente privo del velleitarismo un po’ fuori fuoco del precedente Il ritorno di Casanova (2023). Forse per caso, forse per fortuna, il regista di 8 ½ (1963), di cui lì si volevano seguire le orme, rientra in ballo grazie al ritrovamento di una sceneggiatura inedita a firma Federico Fellini e Tullio Pinelli, risalente a parecchi decenni fa, quando ancora il cineasta riminese scriveva copioni per altri. Occupandosi dunque di un trattamento redatto all’indomani della Seconda guerra mondiale, in pieno clima di ottimismo e con una visione dell’America edenica e salvifica, non ancora inquinata dal senno del poi, Salvatores – da sempre egli stesso un ottimista, o forse meglio sarebbe dire un entusiasta, un vitalista – avverte il bisogno di correggere il tiro non occultando il vero volto dell’America dietro al sogno, manifestatosi nei decenni successivi all’entusiasmo del Dopoguerra. E, soprattutto, tiene presente il cinema di allora, quello che racconta l’Italia e l’America di ieri. Ecco dunque l’omaggio a un altro sommo maestro italiano, Rossellini, nella scena in cui, in una sala newyorchese, si proietta Paisà (1946): la piccola Celestina (Dea Lanzaro), riconoscendo alcuni bambini del suo quartiere immortalati sul grande schermo, non riesce a contenere l’emozione e inizia a gridarlo a tutti gli spettatori. Lo stesso Napoli – New York si potrebbe leggere allora, con una certa cautela, come un tardo epigono di quel neorealismo fiabesco che tentava di rompere il cerchio di un movimento spontaneo subito fattosi sistema (anche sotto la spinta di una critica e di tutta una compagine culturale dell’epoca comprensibilmente intransigenti), sulla falsariga di quella particolare modulazione intrapresa dal connubio De Sica-Zavattini con Miracolo a Milano (1951). Ma Salvatores torna poi a far leva sulla commedia all’italiana classica, nel personaggio scaltro ma in fondo sensibile dell’ufficiale di Marina interpretato da Favino, nonché su quella americana degli anni d’oro, quella dei Capra e degli Hawks, come si evince soprattutto dal personaggio del cinico editore di un quotidiano interpretato da Antonio Catania, dal suo parlare veloce e dal movimento che crea attorno a sé.

Se fosse tutto qui, ovvero un gioco di citazioni e sguardi al passato di un cinema che non c’è più, il film avrebbe l’odore un po’ stantio di pagine ingiallite e celluloide consunta. Per fortuna però questi omaggi sono solo un punto d’appoggio da cui ripartire, rivitalizzando e dando nuova vita a una storia che è innanzitutto quella del cinema, ma di un Paese, anzi di due Paesi, quello di partenza e quello di arrivo. Napoli – New York traccia la rotta che percorrono i due giovani protagonisti, Carmine e Celestina, e prima di loro quella di tanti italiani emigrati – in particolar modo la seconda ondata, quella degli italiani del Sud – in cerca di fortuna. E, in seconda lettura, costituisce anche una dichiarazione d’identità e di aspirazioni dello stesso cinema di Salvatores che, da sempre, partendo dal proprio sostrato culturale, guarda all’esempio americano, in termini di grande spettacolo popolare, giocando e sperimentando(si) – a differenza di molti altri colleghi assai più monolitici – con generi e stili sempre diversi. E quindi la ricostruzione della Napoli del Dopoguerra, e di una New York ricostruita fra scenografie artigianali e digitale. E ovviamente l’epica picaresca del viaggio in nave dei due piccoli clandestini in cerca di fortuna e della loro amicizia con il cuoco afroamericano interpretato da Omar Benson Miller. La tentazione di Salvatores, come spesso gli accade, è quella di metterci dentro tutto (immigrazione, razzismo, femminismo), ma stavolta riesce ad amalgamare bene i vari elementi adoperandoli per dare corpo e direzione a una storia di speranza che è, sì, fiabesca e ottimista, ma non smielata o effimera, capace anzi di mettere a nudo le non poche crepe di quel grande sogno condiviso che fu (e in gran parte ancora è) l’America. Una storia dal sapore ottocentesco, in cui Carmine e Celestina ci appaiono come reincarnazioni dell’Oliver Twist dickensiano. Ma basta pensare appunto a quanta cupezza c’è, anche, in Dickens, a quante venature quasi horror, per avere contezza dello sguardo omnicomprensivo e non edulcorato scelto da Salvatores. Lo dimostra anche la scena in tribunale, durante la quale l’Agnese omicida, incarnata da Anna Lucia Pierro, anziché tentare di muovere a pietà giurati, rivendica con dignità il suo gesto come unico possibile nelle sue condizioni di donna, straniera e povera, ricordando al suo pubblico e a tutti noi che l’unico straniero che non viene accettato, è quello povero. Che la xenofobia, ieri come oggi, ha a che fare con il classismo e con la paura atavica della povertà, paura indotta, se non foraggiata, dalla società capitalista ipercompetitiva. Questa scena, assente nel testo originale, è stata ideata dallo stesso Salvatores, ma non la storia della donna condannata a morte, che fu ispirata a Fellini e Pinelli dal caso dell’italiana Maria Barbella, la prima donna condannata alla sedia elettrica a New York per aver ucciso il suo amante, salvata poi da una campagna contro la discriminazione verso gli immigrati, cui fece seguito un secondo processo al termine del quale l’imputata fu assolta.

Intanto però è ancora e sempre la Statua della Libertà ad accogliere i nuovi venuti, con il suo alone mi(s)tico. Anche se lo sveglio Carmine (Antonio Guerra) subito avverte Celestina che la donna ivi raffigurata “tiene una faccia strafottente”. Dietro quel suggestivo simbolo di accoglienza si cela infatti Ellis Island, l’isola degli immigrati, in cui vengono sbarcati e trattenuti clandestini e “indesiderati”, ma anche gli slum in cui sono confinati gli afroamericani e su un cui muro campeggia una scritta anonima, due parole che costituiscono un’affermazione di rabbia, delusione e impotenza: broken promises. Per alcuni (i poveri, ancora una volta), l’America è il Paese delle promesse non mantenute, infrante. E allora se la fortuna non c’è, bisogna inventarsela, fabbricarsela da soli, come fa l’industrioso Carmine nel momento un’indovina gli rivela che sulla sua mano manca la linea della fortuna: prende un coltellino e se la incide da sé. Un gesto che, da solo, porta a New York tutta l’essenza di Napoli, racchiusa in quell’arte di arrangiarsi descritta da penne del calibro di Salvatore Di Giacomo e Matilde Serao. In mezzo a un cast di ottimi attori, spicca il volto dei due piccoli protagonisti, diretti magistralmente e in grado di restituire il senso profondo del film con una frase o un semplice sguardo.

Info
Napoli – New York, il trailer.

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