Sulla terra leggeri

Sulla terra leggeri

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La regista italo-tunisina Sara Fgaier, in precedenza assistente e montatrice per Pietro Marcello, esordisce nel lungometraggio con Sulla terra leggeri, un film esplicitamente lirico giocato su diversi piani temporali a emulare il percorso errabondo proprio di ogni memoria. Un azzardo affascinante ma non completamente riuscito per la difficoltà a coagulare una pluralità di ispirazioni diverse (dal documentario al film d’archivio) in un insieme coerente e compatto.

Tracce di amorosa memoria

Gian, un professore di etnomusicologia sessantacinquenne, lotta con l’oscurità causata da un’improvvisa amnesia. Perseguitato da frammenti di passato, che emergono nella sua mente con l’apparenza sgranata di remote immagini d’archivio, riceve dalla figlia Miriam, trattata come un’estranea, un diario da lui scritto a vent’anni. Gian si rende conto che ruota tutto intorno a Leila, la donna franco-tunisina con cui ha scoperto l’amore nello spazio di una notte su una spiaggia italiana legandosi a lei con una promessa di futuro, mille volte attesa, mille volte disattesa. Chi è questa donna che ha avuto una tale importanza nella sua vita? Dov’è adesso? [sinossi]

“La memoria non si ferma mai: appaia i morti ai vivi, gli esseri reali a quelli immaginari, il sogno alla storia”: queste parole di Annie Ernaux che Sara Fgaier legge fuori campo a commento delle immagini del suo bel cortometraggio Gli anni (presentato a Venezia nel 2018) possono benissimo fungere da base di partenza e substrato filosofico di questo suo esordio nel lungometraggio. In Sulla terra leggeri Fgaier dimostra una notevole ambizione: prova a tessere una riflessione sulle età della vita che trascorrono, sulla memoria che sfugge, sull’amore che è insieme radice esistenziale e vertigine spalancata sul tempo. In un film che s’interroga sul recupero del rimosso, la regista intreccia tre segmenti temporali distinti: il presente sfocato di Gian, un uomo che perde i confini tra sé e il mondo che lo circonda; il suo passato, il ricordo della notte con Leila, il primo amore che fa da perno emotivo alla sua esistenza; e poi un terzo, una sorta di limbo temporale che con le sue immagini d’incerta provenienza diventa la metafora di una memoria incerta, fatta di lacerti, di scorie, di brandelli di coscienza tenuti insieme da una qualche sotterranea forza immaginifica. A queste tre cellule narrative corrisponde un’impalcatura estetica edificata a sua volta su tre livelli: un piano realistico (la quotidianità di Gian e della figlia Miriam nello spazio domestico), uno semi-documentaristico (il passato in Tunisia, girato a tratti come un reportage etnografico), uno puramente lirico/poetico (il flusso delle riprese d’archivio). E’ la stessa regista a chiarire il carattere eterogeneo di questo film, nato dall’incontro di più suggestioni visive: “Sin dall’inizio ho immaginato questo film come un collage lirico composto da materiali di diversa origine (riprese dal vero, archivi, immagini documentarie). La prima ispirazione l’ho avuta filmando il Carnevale dell’entroterra sardo, un culto di origini arcaiche dedicato al Dioniso dell’Oriente, molto vicino alle danze dei mistici musulmani ancora presenti nel Maghreb, che ho filmato successivamente. Si tratta di rituali ancora potenti in cui la dimensione del Visibile e quella dell’Invisibile sembrano riuscire a comunicare”.

Sulla terra leggeri si muove così in una dimensione liquida, dove il tempo è sospeso e il confine tra il reale e il ricordo è sfumato. Il presente è quello di un uomo disorientato nella sua casa, dove i luoghi non sono più punti di riferimento certi ma diventano spazi vuoti, come abitati da una presenza fantasmatica. Il passato, invece, si materializza in sequenze che raccontano l’amore tra Gian e Leila, un sentimento che ha la fragranza e la sensualità della giovinezza. Le immagini in 16mm, spesso immerse in una luce tenue e umbratile (a opera di Alberto Fasulo, qui direttore della fotografia), si susseguono come tessere di un mosaico che non riuscirà mai a ricomporsi completamente. Leila è un’ombra che sfugge, un amore ideale che si dissolve sotto il peso della distanza e del tempo, senza mai diventare carne viva. Il cinema poi, può non solo riattivare la memoria ricorrendo al lascito di immagini passate, d’incerta attribuzione e scelte secondo una precisa affinità discorsiva invero piuttosto didascalica (Leila è un’aviatrice e numerose sono le riprese di deltaplani, mongolfiere, voli che contrappuntano il suo ricordo da parte dell’uomo) ma può anche creare una coalescenza di passato e presente grazie a uno strumento duttile come il piano-sequenza che riunisce il giovane Gian e il suo corrispettivo odierno, in una delle invenzioni formali più radicali del film, nel medesimo spazio-tempo. In questa struttura visiva così composita è evidente la lezione di Pietro Marcello, di cui Fgaier è stata assistente e montatrice per Il passaggio della linea (2007) e La bocca del lupo (2009) oltre che sodale nella creazione della casa produttiva Avventurosa; eppure il cinema di Marcello riesce spesso e volentieri ad innervare di un preciso senso politico l’operazione di recupero sui materiali preesistenti dando vita a opere che si interrogano sul senso della Storia e sull’agire umano in essa, nel suo duplice ruolo distruttivo e propositivo (Bella e perduta, 2015, Martin Eden, 2019). Non altrettanto avviene in Sulla terra leggeri invece, dove si ha la netta impressione che il materiale d’archivio sia il primum movens di tutto il progetto estetico, a scapito di una più strutturata costruzione preliminare, ma che non riesca poi a sostanziarsi in una funzione che non sia quella del mero contrappunto alla (piuttosto labile, va detto) traccia narrativa principale. Ne risulta così un film di a tratti estenuato lirismo, più prossimo ad un gioco degli specchi che ad una profonda, reisnasiana evocazione sentimentale e memoriale quale vorrebbe proporsi.

Info
Il trailer di Sulla terra leggeri.

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