On the Bowery

On the Bowery

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Mosso dall’intento di raccontare l’altra faccia (la più oscura) del Sogno Americano, On the Bowery di Lionel Rogosin adotta metodi espressivi a metà fra il documentario e il neorealismo dedicandosi alla narrazione di un microcosmo di emarginati prigionieri dell’alcool nel cuore della New York anni Cinquanta. Al Festival del Cinema Ritrovato 2024 di Bologna per la sezione Documenti e documentari.

Il sogno è un incubo

Giunto a New York dopo aver lavorato nelle ferrovie, il giovane Ray approda alla Bowery Street, un angolo della metropoli dominato dall’alcolismo e dal disagio sociale. Ray familiarizza con altri alcolisti del luogo, in particolare con l’attempato Gorman, con il quale costituisce un sodalizio fra amicizia e inganni. Cercando di sbarcare il lunario e di procurarsi il denaro necessario per continuare a bere, Ray attraversa varie esperienze di degrado lontano da qualsiasi possibilità di vera redenzione… [sinossi]

C’era (e c’è) un’altra America. Terra dell’abbondanza, catalizzatore di speranze e aspirazioni a ogni latitudine, gli Stati Uniti hanno sempre contribuito a divulgare un’immagine di sé improntata all’ottimismo e al benessere socio-economico. Per decenni si sono riversate al di là dell’Atlantico masse di emigranti da ogni parte del mondo, dando vita a quel melting pot di etnie e culture diverse che da sempre ha contraddistinto il profilo antropologico del Paese. On the Bowery (Lionel Rogosin, 1956) interviene esattamente a puntare un riflettore sull’altra faccia del Sogno Americano. Il film vinse la Mostra del film documentario e del cortometraggio di Venezia, ma significativamente Rogosin ricevette il disprezzo dell’ambasciatrice americana in Italia. I panni sporchi si lavano in famiglia, verrebbe da dire, come affermò Giulio Andreotti riguardo a Umberto D. (1952) di Vittorio De Sica. L’episodio è simile, e viene a testimoniare lo scarso piacere da parte degli Stati Uniti nel vedere narrate al mondo intero le storture del proprio sistema sociale, tenute ben nascoste sotto il tappeto dalla sfera della comunicazione ufficiale, benché il film sia riuscito comunque a ottenere una nomination all’Oscar per il miglior documentario. Il nucleo narrativo convocato a testimoniare l’altra faccia dell’America nel cuore degli anni Cinquanta si concentra tutto sulle vite ai margini condotte nella Bowery Street, una strada di New York dalle parti di Manhattan popolata dal disagio e dall’alienazione. È una strada abitata da alcolizzati, senzatetto, disoccupati, che trascinano un’esistenza priva di qualsiasi prospettiva. Il film si apre con una sequela di interventi delle autorità che cercano di liberare la strada, raccogliendo reietti dalle panchine, dagli angoli dei marciapiedi, dagli spazi circoscritti tramutati in unico orizzonte di vita. Successivamente Rogosin stringe il racconto su un numero limitato di figure, e in particolare su due di esse, il giovane Ray e l’attempato Gorman. Seguendo i metodi di Robert J. Flaherty, prima di iniziare a girare Rogosin visse sei mesi a contatto stretto con i suoi protagonisti della Bowery, sulle orme di strumenti di ricerca assimilabili all’osservazione partecipante delle discipline etnografiche. In un secondo momento Rogosin si è dedicato poi alla restituzione di quella esperienza in forma di cinema, adottando un linguaggio in qualche modo collocato a metà fra il documentario e il neorealismo italiano.

On the Bowery presenta infatti un racconto a suo modo preordinato in cui si percepisce qualcosa di simile a una sceneggiatura, benché affidata a dialoghi estemporanei e colti naturalmente nel loro farsi. Viene da pensare che molte delle sequenze siano state girate in qualche modo a soggetto, dando cioè ai protagonisti spunti di dialogo da sviluppare poi liberamente e da cogliere con la macchina da presa nella loro spontanea realizzazione. Non ci troviamo di fronte a una forma di documentario che si autogenera, come accade con il cinéma-vérité, ma piuttosto a una sorta di reenactment in cui i personaggi presi dalla vita reale sono convocati a dare forma cinematografica alle proprie esistenze ed esperienze – per intenderci, un esempio fra i tanti, è abbastanza difficile che Rogosin abbia colto l’esatto momento in cui Ray arriva in città con la valigia in mano. Discende direttamente dal neorealismo italiano la prassi di utilizzare attori non professionisti e di calarli in un racconto preordinato, ma in On the Bowery gli esseri umani scelti nella massa non sono convocati a interpretare personaggi altri-da-sé, bensì sono chiamati a dare corpo a se stessi e a raccontare la propria vita tramite la reinterpretazione di essa. In questa via mediana si colloca ad esempio la struttura portante del racconto, quel pedinamento del personaggio di Ray al centro di un disperato tentativo di redenzione. Sebbene sfrangiato in una narrazione che divaga liberamente e che spesso si apre anche a pagine di realtà colta effettivamente nel qui e ora del suo spontaneo farsi, la storia di Ray sembra voler assurgere a percorso esemplare, sorta di Virgilio che conduce lo spettatore, tappa dopo tappa, nei gironi di un inferno a stazioni. Inizialmente determinato a trovarsi un lavoro sia pure volutamente precario, Ray non riesce a mollare la bottiglia, mentre altre figure che incontra sulla propria strada vagheggiano fughe addirittura in Guatemala – d’altra parte, afferma il fuggitivo, in Guatemala non si starà certo peggio di come se la passano a New York da ubriachi in mezzo alla strada. Vige un continuo scambio di favori e di denaro, una solidarietà fra uomini tutta mirata alla possibilità di continuare a bere. Ray assomma esperienze tipizzanti una dopo l’altra. Tenta di vendere abiti, dorme all’aperto per terra dove capita, continua a nutrire in sé una sentita fede religiosa (cerca luoghi dove poter seguire le funzioni), si sorbisce pure i sermoni di un predicatore della Bowery Mission, e tocca con mano anche i deplorevoli strumenti istituzionali di assistenza agli alcolisti. Nato su buoni intenti di sostegno ai senzatetto, il centro d’accoglienza si delinea come una conquista a suo modo prestigiosa e confortevole per chi non sa dove dormire – si può restare a dormire, mon Dieu, addirittura per una settimana intera prima di lasciare il posto ad altri. Fervente oppositore di fascismo e razzismo, Rogosin descrive in realtà tale forma di filantropia come un vero e proprio lager, in cui la massa di senzatetto è messa a dormire per terra per i primi giorni in vista di acquisire successivamente sistemazioni migliori. Una sorta di riproduzione della scala sociale americana, che in piccolo evoca un intero sistema economico fondato sulla crescita dell’individuo attraverso l’acquisizione di migliori condizioni di censo. Realizzarsi significa conquistare il letto più grande, più comodo, più elegante, a scapito di altri. La stratificazione sociale americana si manifesta a ogni livello, pure all’interno di uno squallido centro d’accoglienza dai contorni totalitari – al primo cedimento all’alcool gli ospiti sono cacciati dalla struttura.

Il tentativo di redenzione si conclude per Ray con una robusta decisione di cambiare vita, ma il film si congeda sulle note di scetticismo dei suoi amici. Ray tornerà. In tal senso On the Bowery suggerisce una prigionia senza fine che non lascia adito a troppe speranze. Nel sistema classista americano non ci sono grandi margini di redenzione per chi ha vissuto a lungo nel disagio e nell’alienazione. Il Paese della seconda possibilità, ma non è mica vero. Chi è stato fuori, ci rimane. Con strumenti di immediata efficacia Rogosin dà conto di un inattaccabile determinismo sociale che chiude gli esseri umani dietro precisi steccati. Al contempo Rogosin mostra grande rispetto umano per i suoi personaggi, ma non ne nasconde anche i versanti più amari. C’è della vera solidarietà, ma c’è pure l’inganno dell’altro sempre finalizzato a procurarsi alcool. Rogosin racconta dunque una piaga sociale e al tempo stesso la totale inefficacia di un Paese, stordito dall’autocompiacimento, nell’affrontarla. Di On the Bowery rimangono, più forti di tutto, quelle carrellate di volti (si pensi alla sequenza alla Bowery Mission) presi dalla strada che portano tutti i segni della loro sofferenza. Rimangono gli scorci di una New York in bianco e nero colta negli enormi sottoponti che accolgono un’umanità ferita e dilaniata. Rimangono quei bar dai soffitti altissimi, ben lontani dall’eleganza delle caffetterie di lusso, in cui Ray, Gorman e i loro amici cercano il conforto di due chiacchiere in attesa di disporre del denaro per bere ancora. Atto di denuncia e testimonianza umana. L’America non poteva esserne felice.

Info
On the Bowery sul sito del Cinema Ritrovato.

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