Wild Field

Il nipote d’arte Mikhail Kalatozishvili dirige con Wild Field un’opera affascinante, dimostrando di saper gestire con grande intelligenza lo scenario naturale a dir poco annichilente nel quale è ambientata l’intera vicenda. Film di chiusura della sezione Orizzonti a Venezia 2008.

Il medico della steppa

Un giovane medico si stabilisce come guardia medica di un avamposto nel pieno della steppa desertica russa. Ogni giorno personaggi sempre più bizzarri passano da lui per farsi curare. [sinossi]

Dikoe Pole (il titolo internazionale scelto per la bisogna è Wild Field), film che ha chiuso ufficialmente l’edizione 2008 della sezione Orizzonti, rischiava seriamente il rischio di attirare l’attenzione per motivi del tutto estranei alla pellicola in sé e per sé. Innanzitutto si tratta di un film russo diretto da un cineasta georgiano, il che di questi tempi non rappresenta esattamente la norma, e per di più il regista, Mikhail Kalatozishvili è il nipote nientemeno che di Mikhail Kalatozov, nome al giorno d’oggi criminosamente dimenticato ma che tra la fine degli anni cinquanta e l’inzio degli anni sessanta fece parlare di sé (eccome), per capolavori quali Quando volano le cicogne – che se ne tornò da Cannes con una meritatissima Palma d’Oro –, La lettera non spedita e Soy Cuba. Insomma, i presupposti per abbandonare al suo destino il povero Wild Field e concentrarsi esclusivamente su altro c’erano tutti: per fortuna a impedire questa degenerazione critica è proprio l’apparato scenico su cui è costruito il film. Sfruttando a dovere una scenografia naturale a dir poco annichilente (conl’immensa piana arida della steppa sovrastata, alle spalle, dalle montagne spruzzate di neve), Kalatozishvili mette in scena una storia minimale che potremmo definire, fatto salvo il paradosso, atrocemente lieve: procedendo per aneddoti, elemento narrativo a dir la verità poco convincente a lungo andare, il regista georgiano traccia le coordinate della quotidiana vita di un medico di campagna, senza gettarsi in retorici pamphlet sull’abbandono a sé stessa della Russia rurale da parte delle istituzioni – anche se qualche accenno qua e là non manca di certo –, ma preferendo trasportare l’intera vicenda in un’atmosfera sospesa, magica, a tratti quasi rituale e mistica.

La steppa messa in scena da Kalatozishvili è una terra in cui non esiste morte: ci si è alcolizzati a base di vodka per un mese intero, mandando al diavolo il proprio fegato? Basta essere marchiati con un ferro arroventato per tornare in piedi. Si è stati colpiti da un fulmine mentre si cercava di radunare la mandria di pecore? Il sistema è semplice: si viene interrati completamente, con l’eccezione del braccio destro e del volto, per un’intera notte. E così via. Wild Field ci mette davanti una serie di morti, metaforiche e reali, e ce ne mostra l’aspetto più surreale, paradossale, in un teatro dell’assurdo in cui gli attori (tutti straordinari, viene da piangere a pensare a quanti volti indimenticabili ci abbia regalato il cinema russo, senza che il nostro mondo dello spettacolo mostrasse il benché minimo interesse: se volete una controprova, andatevi a ripescare il “morto vivente” alcolista, che in appena un mucchietto di inquadrature dona una prova attoriale ai limiti del maestoso) giocano un ruolo fondamentale, in uno scontro continuo e impossibilitato a trovare una fine tra corpo e panorama che è la ruota portante dell’ingranaggio innescato da Kalatozishvili. Come abbiamo avuto già modo di scrivere l’unico rimprovero che ci sentiamo di muovere nei confronti del regista riguarda l’architettura narrativa, pensata esclusivamente per accumulo di aneddoti. Ma, a fronte di un lavoro sull’atmosfera e sull’inquadratura così mirabile e originale si tratta, ce ne rendiamo conto, di un peccato davvero veniale.

Info
Wild Field sul sito di IFFR.

  • wild-field-2008-mikhail-kalatozishvili-01.jpg

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