Intervista a Edgar Reitz

Intervista a Edgar Reitz

Abbiamo incontrato Edgar Reitz, in tour per la promozione de L’altra Heimat. Con lui si è parlato di “patria”, “struggimento”, digitale, memoria. E di cinema, ovviamente…

Non capita tutti i giorni di poter intervistare Edgar Reitz, tra i nomi più importanti di quello che venne definito “Neuer Deutscher Film” (nuovo cinema tedesco). L’occasione è data dalla presenza a Roma di Reitz, giunto nella capitale per presentare al cinema Farnese L’altra Heimat – Cronaca di un sogno (Die andere Heimat – Chronik einer Sehnsucht), ultimo capolavoro della sua carriera già fuori concorso alla Mostra di Venezia del 2013. Il film uscirà nelle sale i prossimi 31 marzo e 1 aprile, grazie alla sinergia distributiva di Viggo, Nexo Digital e Ripley’s Film. Un’occasione da non perdere. Abbiamo incontrato Edgar Reitz in una mattinata piovosa, nell’albergo vicino al Colosseo dove era ospitato. All’intervista hanno partecipato, nella fase di elaborazione, Enrico Azzano e Daria Pomponio. Ringraziamo Alessandra Thiele per il lavoro di traduzione dal tedesco.

Il titolo Die andere Heimat inevitabilmente riconduce alla trilogia (e a Fragmente), ma la collocazione temporale, l’utilizzo del digitale al posto della pellicola e la struttura narrativa non episodica segnano uno scarto rispetto ai precedenti Heimat: considera il film slegato dai precedenti o vi riscontra comunque un fil rouge all’interno?

Edgar Reitz: Innegabilmente c’è un fil rouge che lega tutti gli “Heimat”, ed è rintracciabile nella mia persona e nella continuità del mio lavoro. Ma è vero anche che Die andere Heimat è un film completamente indipendente e a sé stante, e non è un’altra “puntata” della trilogia. Questa è una cosa molto importante per me: è stato pensato fin dall’inizio per il cinema, e per un pubblico che può anche non aver visto la trilogia o non saperne nulla. Ma può in ogni caso godere di questo film.

Il termine Heimat ha un significato che si presta a molteplici interpretazioni: quale è per lei il cuore, il centro narrativo di questo Die andere Heimat?

Edgar Reitz: Il significato è stato ed è sempre diverso. In questi trent’anni in cui ho girato attorno al concetto e alla parola “Heimat” ne ho scoperto vari aspetti e angolazioni. Qui il fulcro è l’immagine, la fantasia, il saper proiettare nel proprio spirito un luogo dove si vorrebbe arrivare, verso il quale ci si incammina. Possiamo dire che ho messo in scena la dimensione utopica del concetto di Heimat.

Sempre nel titolo lei utilizza il termine Sehnsucht, che ha una collocazione letteraria e filosofica ben precisa. Cosa l’ha spinta a utilizzarlo e che significato acquista?

Edgar Reitz: In questo caso Sehnsucht serve a definire questo luogo utopico di cui parlavo poco fa. La parola Chronik, che ho aggiunto, funge da cartello, ti dà la direzione verso cui muoversi per la comprensione di tutto. Qui si incontrano due concetti, come Heimat e Sehnsucht, che si aprono a moltissime interpretazioni. L’accoppiamento di questi due concetti apre un terreno molto più vasto di quanto non sarebbe se ne avessi usato uno solo: mi interessava problematizzare ulteriormente la questione, spingermi più in là.

Lei prova struggimento (Sehnsucht) per una sua patria ideale (Heimat)?

Edgar Reitz: Probabilmente sia Sehnsucht che Heimat per me sono il cinema. È l’unico luogo in cui riesco a immaginarmi, provare una sensazione di “casa”; allo stesso tempo, lavorando da decenni nel cinema, sono anche riuscito a costruire una realtà, un luogo che non è solo utopico, ma nel quale mi è possibile entrare. Ma, a parte questo paradosso, per me sia “struggimento” che “patria ideale” hanno senso solo all’interno di un’esperienza cinematografica.

Nel film si trova il cameo di Werner Herzog, nella parte di von Humboldt. Cosa l’ha spinta a chiamare sul set Herzog? Possiamo leggerlo come un doppio ritorno al passato, la storia della Germania, filtrata attraverso le parabole personali di Gustav e Jacob Simon, e la storia stessa del nuovo cinema tedesco?

Edgar Reitz: Per quanto riguarda la presenza di Herzog e l’ideale riallaccio a un certo tipo di cinema con il quale abbiamo ambedue iniziato, direi che la risposta è no. Oramai abbiamo fatto un lungo percorso e ci incontriamo con il rispettivo bagaglio di esperienze. È un’amicizia iniziata in quegli anni e siamo consapevoli che questo inevitabilmente porta la mente a vagare verso un’epoca ben precisa del cinema tedesco, ma siamo entrambi ancorati al presente, anche nel modo in cui trattiamo il cinema e lo facciamo.

Nel 1962 è stato uno dei firmatari del Manifesto di Oberhausen, da cui nacque il nuovo cinema tedesco. A distanza di più di cinquant’anni da quell’esperienza, quale crede che sia il lascito che il Manifestodi Oberhausen ha donato ai registi tedeschi di oggi?

Edgar Reitz: Il clima di apertura e di totale cambiamento nato con il Manifesto di Oberhausen è tornato di moda soprattutto negli ultimi anni (tre anni fa si è festeggiato il cinquantennale del Manifesto): sono stati organizzati vari incontri, e sono sorte molte discussioni su cosa sia rimasto di quell’esperienza. Alcuni aspetti, come lo stesso concetto di cinema d’autore, che nasce con il Manifesto di Oberhausen e nel presente non viene più messo in discussione, rimangono e si sono cementati. Ma oltre a quello non mi pare che sia rintracciabile un granché, e ho l’impressione che ci sarebbe un forte bisogno di un secondo Manifesto. Essendo cambiate le modalità di produzione, le pratiche per il sovvenzionamento del cinema, il sistema economico, la nuova generazione dovrà necessariamente trovare un nuovo approccio, legato alla realtà di questi tempi. Però lo spirito del Manifesto di Oberhausen, l’intima verità da cui nacque, credo che sia in grado di resistere ancora oggi.

A proposito di nuove modalità di produzione, Die andere Heimat è il suo primo lavoro girato in digitale. Come ha affrontato questa sfida, e quali sensazioni ha provato nel lavorare su un mezzo che non aveva ancora mai utilizzato?

Edgar Reitz: Queste nuove tecnologie sono fantastiche perché ti permettono una libertà incredibile. Hai moltissime possibilità di mettere in scena il tuo racconto, e sei portato a utilizzare tutto ciò che hai a disposizione. Per me la difficoltà è stata dunque questa, riuscire a disciplinare il mio lavoro senza farmi condizionare dalle possibilità. Ho prestato molta attenzione nello scegliere solo ciò che effettivamente si confacesse a una mia personale visione, perché la facilità ti porta a voler usare tutto. Mi sono dovuto limitare, disciplinare.

Cos’è la memoria per Edgar Reitz? Ha un valore solo intimo o si apre a una riflessione sulla società?

Edgar Reitz: Trovo che una delle principali continuità tra questo film e i tre precedenti capitoli di Heimat sia proprio relativo alla memoria, al modo in cui è messa in scena e a ciò che vuole significare. Die andere Heimat è ambientato in un tempo in cui non abbiamo vissuto, è vero, ma ho sempre avuto l’impressione che esista una memoria che va oltre la nostra possibilità fisica, e sono certo che la nostra biografia non inizi con la nostra nascita. C’è una memoria generale che torna indietro nel tempo e avvolge tutto. Una memoria ancestrale, che è il nostro vissuto anche quando non la viviamo.

Il terzo capitolo di Heimat, realizzato nel 2004, si ferma al 2000 e con Die andere Heimat torna al XIX secolo. Per ora ha scelto di non raccontare il decennio di Angela Merkel: c’è un motivo particolare?

Edgar Reitz: Io sono un regista che oggi ha scelto di fare un film per il pubblico di oggi. Non sono tornato indietro nel tempo e non fuggo dall’attualità. Credo che avendo fatto un film sulla nostra memoria collettiva (e che come popolo portiamo dentro di noi) e raccontando una storia di migrazioni che contiene molti paralleli con la nostra quotidianità, possa ritenere di aver diretto un film molto attuale.

Era la risposta che speravo di ricevere, lo ammetto…

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