Secondo amore

Secondo amore

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Bis della coppia Rock Hudson-Jane Wyman, di nuovo diretti da Douglas Sirk dopo l’enorme successo di Magnifica ossessione, Secondo amore è un distillato stilistico che conduce alle sue estreme conseguenze la coerente riflessione estetica dell’autore sul melodramma classico tramite un linguaggio sempre più denso nei suoi tratti, sintetico, ellittico e prezioso.

I care terribly

Nella piccola comunità di Stoningham la vedova Cary conduce una vita tranquilla nella sua elegante villetta familiare in compagnia dei due figli già adulti Ned e Kay. Da qualche tempo si occupa degli alberi del suo giardino l’aitante Ron, figlio dello storico giardiniere di famiglia che ha ereditato l’attività del padre passato a miglior vita. Nonostante la differenza d’età e di estrazione sociale, fra Cary e Ron esplode una travolgente passione amorosa, che ben presto però deve scontrarsi con i pregiudizi di Stoningham, dove regnano pettegolezzi, maldicenze e ipocrisie, e pure con l’egoismo dei due figli della donna. [sinossi]

La borghesia imprigiona, rende deboli, fragili. La borghesia indebolisce la volontà individuale. Sociosfera privilegiata dal melodramma americano anni Cinquanta, la middle/upper class, specie se provinciale, costruisce perfette gabbie dorate intorno ai suoi protagonisti. A rivedere Secondo amore (Douglas Sirk, 1955) colpisce innanzitutto la sovrabbondanza visiva di oggetti e suppellettili che invadono l’inquadratura. L’abitazione della protagonista Cary Scott, una consueta e garbata villetta indipendente americana, trabocca di materificazioni di benessere. Brillano con particolare vivezza anche i bottoni, gli anelli e i preziosi indossati da Cary e da sua figlia Kay. Sinesteticamente Secondo amore squilla di oggetti e colori. È una prigione che a suo modo pure Fassbinder ha saputo rileggere – basti pensare alla superficie liscia delle cose che domina gli spazi di Effi Briest (1974). Fra i tanti, vi è un oggetto che Cary rifiuta con fiera decisione. Non vuole il televisore in casa. Ultimo ritrovato dell’intrattenimento domestico, per Cary il televisore si delinea per l’ultima stazione della solitudine senile. Significa rinunciare alla vita, al desiderio. Significa chiudersi definitivamente nel soffocamento degli oggetti assicurato della fastosa villetta. A un certo punto appare in scena una copia del Walden di Henry David Thoreau. Viene da lì il profilo del fascinoso giardiniere Ron Kirby, impersonato da uno smagliante Rock Hudson qui riappaiato a Jane Wyman dopo l’enorme successo raccolto in coppia, e sempre diretti da Sirk, con Magnifica ossessione (1954). Ron è un uomo del popolo, umile e orgoglioso, che vive a contatto con la natura e ben lontano dalle convenzioni della media società americana, arrogante e benpensante. Leggendo un brano del libro, Cary scopre che «the mass of men lead lives of quiet desperation. Why should we be in such desperate haste to succeed? If a man does not keep pace with his companions, perhaps it is because he hears a different drummer». Ron segue altri colpi di tamburo, altre musiche, altri ritmi. Non si danna l’anima per avere successo, laddove il successo è inteso nel senso più convenzionale del termine. Sposa un’idea di vita quieta e ritirata, esasperatamente romantica, in armonia con i boschi e con i suoi amati alberi. Dal punto di vista ideologico vengono a contrapporsi nel film due momenti di festa didascalicamente antitetici. Alla festicciola ridanciana fra bonari paesani nell’ambiente di Ron, dove Cary viene in contatto con una dimensione immediata e viscerale del piacere, risponde l’impettito ricevimento nell’alta società di Cary, quando la coppia di innamorati è oggetto di pettegolezzi, cattiverie e umiliazioni.

Come infatti si vuole in ogni melodramma che si rispetti, l’amore è scandalo. E la passione fra Cary e Ron prende le forme di uno scandalo su più livelli. Lui è più giovane di lei. Lei è vedova con due figli già grandi. Lui è povero e lei è ricca, e subito sono pronte le malelingue a insinuare che il buon Ron non punti altro che a trovare una comoda sistemazione tramite un matrimonio d’interesse. Infine, ma non ultimo, il sesso, citato nel film con toni spregiudicatamente espliciti spesso tramite lo spiccato freudismo del personaggio della figlia Kay. Dietro alla relazione fra Cary e Ron fluttua lo spettro del puro piacere erotico. Che la vedova Cary, forse, si sia impazzita e si sia messa a correre dietro a una montagna di muscoli, come volgarmente afferma Ned, il figlio di lei? La predilezione espressiva per le riprese in interni porta con sé l’evocazione di un universo concentrazionario dove famiglia, convenzioni e psicologie si affrontano in una battaglia angosciosa. A poco a poco Secondo amore si tramuta in un sommo esempio di riflessione intorno al ruolo della donna in società, che strettissime convenzioni puritane vogliono santa, devota al marito, nient’altro che moglie e madre. Cary è la prigioniera di tutti. Votato il proprio destino alla condizione di vedova, Cary non soltanto non può concedersi liberamente a un secondo amore, ma è pure vittima dei ricatti sentimentali dei figli. In un universo così intensamente chiuso in sé, che può trovare una benefica parentesi di libero respiro soltanto nei paesaggi idilliaci abitati da Ron, emergono prepotentemente fantasmi psichici e archetipici. Come nel miglior caso edipico (e Kay ne dà conto pure con consapevolezza), il figlio Ned si ritiene infatti erede naturale del diritto paterno sulla condotta di Cary. Cosicché è Ned a mostrare i tratti più spiccati di una ferita profonda ricavata dalla nuova relazione della madre – del resto, è sempre lui a far notare, alle prime battute del film, che sua madre ha indossato una scollatura eccessiva. E ovviamente il nuovo ideale fidanzato per Cary è l’attempato Harvey, amico di famiglia che vista l’età può garantire un casto e rispettoso rapporto di coppia ben in linea con la sessuofobia dominante. Altrettanto colpevole è Kay, che in un batter d’occhio fa piazza pulita delle sue posizioni da donna moderna ed emancipata appena si trova a scontrarsi con le maldicenze e le umiliazioni dei concittadini – «I care terribly!». L’ipocrisia, innanzitutto. Con la sola eccezione di Ron e dei suoi amici, ne sono tutti vittima. Prima o poi in Secondo amore tutti quanti sono chiamati a prendere coscienza di quanto sia facile propugnare idee e sconfessarle un attimo dopo alla prima prova di confronto con la realtà.

La borghesia indebolisce la volontà individuale, si diceva. Sirk dà conto di questo tormentoso ingranaggio sociale lasciando deflagrare soprattutto le contraddizioni insite nella sua protagonista, vittima e carnefice di se stessa. Cary è debole perché la società così la vuole, ma è debole anche perché non sa ribellarsi (almeno non fino al finale) al giudizio degli altri. Come spesso accade nel cinema di Sirk, anche Secondo amore pullula di superfici riflettenti che si caricano di sottotesti. L’immagine riflessa è innanzitutto confronto con se stessi, è mettersi impietosamente al giudizio dei propri occhi. L’immagine riflessa è anche doppio – conosciamo davvero noi stessi fino in fondo, e sappiamo se la nostra integrità è capace di mantenersi tale anche davanti alle prove più difficili, come riconoscere e accogliere un sentimento inaspettato? In un concerto audiovisivo di rara potenza Sirk suggella il tema dei riflessi con la splendida soluzione narrativa, in prefinale, del volto di Cary riflesso nel televisore. Privata della propria volontà fino all’ultimo, la donna deve pure sopportare l’umiliazione di un regalo dichiaratamente non desiderato, che Ned impone in casa a sua madre per imprigionarla definitivamente. Il ricatto dei figli è probabilmente il più doloroso e il più significativo. Dopo aver rinunciato a tutto per il loro bene, Cary viene abbandonata anche dai due figli, per giunta intenzionati a vendere casa, esattamente quel che Ned rifiuta con orgoglio al tempo della relazione della madre con Ron. L’egoismo filiale è totale e schiacciante; Cary è ricondotta al profilo di donna-madre succube, che dà la vita ai figli per farsene lentamente divorare fino alla totale spersonalizzazione. C’è posto anche per una vera e propria materificazione visiva dell’atto di prigionia inflitto alla protagonista; dopo una lite, all’ultimo saluto colmo di rabbia, Ned comunica con Cary tramite una sorta di grata conventuale. In quanto donna, Cary dev’essere santa, monaca e prigioniera. In tal senso la vicenda di Cary Scott si tramuta in un’impietosa disamina della condizione della donna, del tutto eterodiretta in un sistema sociale che, in senso lato, è anche produttivo. E, di nuovo, è facile immaginare per quali ragioni Fassbinder abbia percepito così familiare a sé l’universo espressivo di Douglas Sirk, entrambi chiamati (magari a differenti gradazioni di consapevolezza) a riflettere sul sistema schiacciante che schiavizza la donna, intesa come sintesi di tutti gli emarginati del mondo. Se infatti Fassbinder rilegge la vicenda di Secondo amore riambientandola fra una matura donna delle pulizie e un marocchino in La paura mangia l’anima (1974), in epoca ancor più contemporanea troviamo ampie tracce del film di Sirk in Lontano dal Paradiso (Todd Haynes, 2002), omaggio estetico ed estetizzante allo stile sirkiano dove il racconto si apre con toni espliciti ai temi della discriminazione razziale e dell’omosessualità. Prima fra gli emarginati nella storia dell’umanità, la donna sconta la propria solitudine e lo stigma sociale in ogni luogo e tempo, e in lei (e da lei) si rispecchiano gli oppressi di ogni genere. È nel mondo degli esclusi, del resto, che Secondo amore trova il rifugio ideale dall’esistenza ansiogena del benessere materiale. Esclusi per loro volontà, perché Ron e i suoi amici preferiscono un altro genere di vita. Fra l’abnegazione assoluta e salvifica di Magnifica ossessione e la vita campestre intesa come via per la redenzione di Secondo amore vi è probabilmente un filo rosso che dal punto di vista puramente tematico tiene insieme due dei più celebri film di Sirk, magari con qualche tentazione misticheggiante di differente origine ed estrazione – Dio è santo, ma lo è anche la Natura, e Dio e Natura in fin dei conti si assomigliano o, se vogliamo, coincidono.

Secondo amore, però, sposa tale linea espressiva discostandola da qualsiasi tentazione regressiva, e valorizzando altresì la carica dirompente della passione amorosa, capace di scardinare le percezioni cristallizzate di una società ricca e gretta. Liberando la donna, infine, che sempre fu uxor, vidua e mater dolorosa. Piace immaginare che, prendendosi nel finale una pausa dall’accudimento dell’amato e ferito Ron, Cary rientri a casa per un’ultima volta e fracassi il televisore. O, con gesto più moderato ma forse più pungente, lo rispedisca al figlio Ned. Guardatela tu la televisione. Qui c’è ancora una vita da vivere. Io, Ron e il cerbiatto alla finestra.

Info
Il trailer di Secondo amore.

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