Flaming Creatures

Flaming Creatures

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Flaming Creatures è il sogno notturno del baccanale, dell’infinita posa orgiastica, del ballo instancabile come unica reazione alla marmorea fissità del tempo, della società borghese; un atto sovversivo e collettivo, con cui Jack Smith contribuisce a creare il New American Cinema e a disossare le forme, ricercando e ricreando il senso stesso del concetto di avanguardia.

Gloria all’osceno

Un gruppo di individui si muove ininterrottamente, instancabilmente, davanti alla cinepresa, in una festa orgiastica priva di freni inibitori. [sinossi]

Figure emergono in assolvenza, fantasmi di celluloide che non hanno più tempo: sono gli albori degli anni Sessanta? O è forse l’America sfrenata che nella sua festa decadente ingloberà il martedì nero autunnal-infernale di Wall Street? Volti, corpi, suoni di un altrove che non ha collocazione a sua volta, e che riecheggia dell’eternità del ballo instancabile di Sheherazade (o Shahrazād che dir si voglia), dialettico all’epoca del re di Persia Shahriyār e qui invece orgiastico, perché la parola ha lasciato nel Novecento spazio all’immagine, e dunque al corpo. Ai corpi, decine di corpi che si incrociano, si intersecano, fondendosi gli uni con gli altri, in una coreografia che è quella del movimento eterno, dell’impossibilità di fermarsi. Dopotutto se solo avesse osato interrompere i suoi racconti Sheherazade sarebbe stata messa a morte; alla stessa stregua anche i “protagonisti” – che termine improprio! – di Flaming Creatures non possono smettere di muoversi, di toccarsi, altrimenti terminerebbe quella notte senza fine in cui trovano la libertà di fare ciò che la società non consente loro. Solo la notte, di nuovo come i fantasmi. E a sessant’anni di distanza dalle folli feste newyorchesi che Jack Smith intitolò proprio Scheherazade party la creatura che prese corpo d’eternità (il superamento del tempo è la base filosofica su cui si fonda il culto del cinema) sul tetto di un cinema nel Lower East Side torna a dominare gli incubi di una borghesia che non potrà mai sentirsi a suo agio di fronte a quel brulicare di umori, sudori, bagliori di un’identità schiaffata in faccia al pubblico. Proprio nel Lower East Side, estrema propaggine sud di Manhattan a un tiro di schioppo da Brooklyn e Williamsburg e crocicchio delle culture più disparate e in opposizione tra loro, le creature fiammeggianti di Smith danzano come spettri di una società bolsa, ma che nella cenere nascosta sotto il tappeto sa ancora come balenare nel buio. Quando oggigiorno in modo per lo più episodico qualcheduno torna con lo sguardo a Flaming Creatures lo fa per sottolineare tutti i problemi di censura cui andò incontro il film, osteggiato dalle autorità, finito sul banco degli accusati come i serial killer o figuri della medesima risma, dichiarato osceno. A suo modo anche questa reprimenda nei confronti del passato non fa che rinverdire il buon senso borghese, che sa assumersi le colpe del passato preferendo però sorvolare sulle responsabilità del contemporaneo.

La verità, o almeno una parte della verità, è che la sfrenata libertà immortalata da Smith nel 1962 per poi darle una forma cinematografica qualche mese più tardi – Jonas Mekas, il primo a sbandierarne le qualità ne scrive sulle pagine di « The Village Voice » il 18 aprile 1963 – farebbe scorrere ben più di un brivido freddo lungo la schiena alla placida platea borghese anche oggi, sessant’anni dopo. Il motivo? Perché si tratta di un’opera in effetti oscena, vita che pullula e sciama nei recessi del talamo ma che non ha diritto d’esistere alla luce del sole. Il buio della sala diventa dunque un compromesso, giacché illuminato, e dalla grandezza dello schermo Smith e i suoi baccanali schiaffeggiano irridenti un pubblico che non sa più da che parte voltarsi, e che dunque non ha più scampo. Ciò che doveva rimanere fuori dalla scena si prende la luce della cinepresa, e domina in un ribaltamento dei ruoli ciò che si vorrebbe rimosso, escluso, ciò di cui si vorrebbe fingere l’inesistenza reale. Per circa tre quarti d’ora brevissimi come un lampo notturno eppur eterni perché mossi nell’immoto del cinema da decenni e chissà per quanto tempo ancora, riemergono le memoria della Hollywood che fu Babilonia, stavolta in una New York che sa di Mille e una notte, e una ancora in più. Tacciato di ogni aberrazione possibile e immaginabile, Flaming Creatures è a tutti gli effetti un film deviante, che costringe lo sguardo assuefatto da immagini canoniche e preordinate a riscoprirsi vivo e costretto dunque non alla passività dell’accettazione dell’ovvio ma all’azione, alla ridefinizione dello spazio che si può concedere all’immaginario, alla sua potenza inTransigente (non è un refuso). A ben vedere Flaming Creatures non è un film che parla di sé, e della sua libertà, ma un’opera d’avanguardia che spinge avanti lo sguardo per permettere al popolo di riscoprirsi libero, e di saper forse anche persino accettare la propria libertà senza doverla ricondurre in uno spettro sociale coibentato, asettico e dunque informe. Qui le forme impazzano, e l’orgia ripresa in plongée entrerà con cotanta forza nell’immaginario di chi il cinema lo ordisce senza patirlo che il suo contraltare sarà un altro osceno che non può trovare definizione – perché oscenamente borghese, capitalista, dominante –, vale a dire il disgustoso atto social-sessuale collettivo dei padroni in Society – The Horror di Brian Yuzna.

Ha ovviamente ragione Stephen Dwoskin nell’intuire come “In Flaming Creatures la qualità del materiale filmico è parte integrante della dimensione espressiva”; quell’immagine sovraesposta, ectoplasmatica, quasi impalpabile a tratti, è la rivendicazione del nuovo cinema americano: non era certo un obbligo lavorare con una pellicola Dupont già scaduta, relitto di materiale militare che nessuno avrebbe mai più lavorato. Jack Smith spara addosso alla New York libertaria solo a parole immagini che non possono essere equivocate, e che stringono d’assedio la moralità insana della Grande Mela. La visione, neo-visione o re-visione che sia poco importa, di Flaming Creatures è un atto di liberazione dello sguardo pari a quello compiuto dai gruppi di guerriglieri decolonizzanti sempre nello stesso periodo. Lo spazio o-scenico del film non è colonizzato, è libero. Lo spazio o-scenico del film è l’atto da cui dovrebbe partire una rivoluzione che sarà essa stessa normalizzata, ma che per qualche anno e grazie a un manipolo di illuminati reietti della società illuminerà le notti senza luna piena delle coscienze borghesi. Quell’assolvenza dei volti che sa di fantasma intrappolato nella retina-pellicola ricorda anche come il Windsor Theatre in Grand Street, sul cui tetto si agitarono i corpi che divennero film, è stato demolito negli anni Settanta; anche il Theatre of the Ridiculous che è il corpo attoriale di Flaming Creatures non c’è più, e i suoi interpreti sono morti. Nel settembre 1989, ad appena cinquantasette anni, se n’è andato anche Jack Smith. Ieri è venuto a mancare Adriano Aprà, lo studioso che a tutti gli italiani – e non solo – ha per primo raccontato, mostrato, ricostruito quel cinema che stava mettendo a ferro e fuoco la morale della nazione più puritana del mondo. Si può ben dire che qualcuno dovrà prendere le redini dell’eredità di Adriano e continuare il percorso di scoperta e ri-scoperta del nuovo cinema, ma la verità è che quell’esperienza la si è voluta rimuovere a ogni pie’ sospinto, passo dopo passo, pezzetto per pezzetto. L’idea romantica che Aprà sia ora a volteggiare insieme ai fantasmi di Smith sui tetti di chissà quale città illuminata dalla notte non solleva l’animo dal dolore di una perdita che è umana e intellettuale, e da un vuoto che rinforza le falangi del ben pensare borghese, quelle mai impoverite. Schiaffeggiate però, questo sì, ancora oggi dalle immagini di Smith. Schiaffeggiate e impaurite. Gloria all’osceno!

Info
Flaming Creatures, un trailer.

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