Johnny Guitar

Johnny Guitar

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Con Johnny Guitar Nicholas Ray riveste di una patina western un melodramma fiammeggiante, negando gli spazi aperti tipici del genere a favore di un non-luogo claustrofobico, privo di vie di fuga, che simboleggia l’interiorità contorta dei suoi personaggi. Un’opera chiave all’interno della rilettura della wilderness, che testimonia una volta di più la grandezza di Nick Ray, e la nettezza della sua poetica. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

While my Guitar gently weeps

Vienna è la proprietaria di un saloon decisa a costruire una stazione ferroviara nella cittadina in cui vive. Il piano viene ostacolato dagli abitanti del villaggio e la donna chiede aiuto all’ex amante Johnny Guitar, allo scopo di farsi proteggere dalle ire dei residenti. La coppia si trova presto coinvolta in una disputa feroce contro Emma Small, una malvivente a capo di una banda di criminali, ed il compagno di lei, il famigerato Dancin’ Kid. [sinossi]

“Maybe you’re cold but you’re so warm inside”, canta Peggy Lee sulle celeberrime note composte da Victor Young ripensando alla quinta delle 12 Danzas españolas di Enrique Granados; l’impressionista Granados, che guardava a Debussy sotto il profilo musicale ma quando si dilettava con la pittura seguiva il solco scavato da Francisco Goya (soprattutto per quel che concerne la “maniera chiara”), morì neanche cinquantenne nel 1916 nel siluramento del traghetto Sussex che lo stava portando da Liverpool a Dieppe. Pare che nonostante fosse al sicuro a bordo di una delle scialuppe, Granados sia morto annegato nel disperato tentativo di salvare sua moglie rimasta a dibattersi tra le onde. Una morte tragicamente romantica, scaturita dalla passione, dallo slancio di rischiare tutto senza paura per l’oggetto del proprio desiderio, del proprio affetto. Si tratterà com’è probabile di una delle molteplici casualità di cui è costellata la storia del cinema, ma il fatto che Young abbia tratto ispirazione per la sua Johnny Guitar proprio dall’opera di Granados sembra riecheggiare una verità unica, sottolineando un punto di contatto che attraversa il Tempo, la Storia, e anche il digradare tra veridicità e rappresentazione. Dopotutto di non-spazio e non-tempo si occupa proprio Nicholas Ray nel mettere in scena la sceneggiatura scritta da Ben Maddow (Philip Yordan, unico nome accreditato ufficialmente per la stesura, si occupò di riscriverla sul set, seguendo una lavorazione non propriamente idilliaca vista e considerata la faida che intercorse tra Joan Crawford e Mercedes McCambridge) adattando il romanzo che Roy Chanslor aveva dato alle stampe nel 1953, neanche dodici mesi prima della prima proiezione pubblica di Johnny Guitar. Un film che gronda umori melanconici e romantici similari a quelli che in una certa qual misura ne avevano contribuito la creazione: la novella di Chanslor era dedicata proprio a Crawford, che infatti fece immediatamente suoi i diritti di sfruttamento della storia, e l’attrice sul set era impegnata in una relazione sentimentale con il regista che acuì il risentimento di McCambridge, la quale mal sopportava la collega in quanto Crawford aveva avuto un flirt con suo marito, Fletcher Markle – i due divorziarono nel 1950.

Il melodramma fiammeggiante che prende vita sullo schermo è dunque la replica, il doppio, l’imitazione della vita di quel che accadeva nelle retrovie, nei recessi più nascosti del set, in quel sobbollire di ansie, desideri, odi, invidie, e sogni di vendette che fanno in modo che Johnny Guitar sia ancora oggi uno dei punti cardine del “genere”. Ma di quale genere? Non è un mistero che gli appassionati cultori del western mal si ritrovino nelle pieghe di questo sublime racconto uterino, per gran parte recluso in interni bui, notturni, umbratili come le pulsioni dei personaggi principali; Ray, che approda alla storia di Johnny e Vienna da un altro set che ha a che fare con gli stilemi western (The Lusty Men, in Italia noto come Il temerario, 1952) ma si muove in una ambientazione nel Texas contemporaneo, e che con la wilderness si confronterà solo altre due volte – Run for Cover, vale a dire All’ombra del patibolo, e La vera storia di Jess il bandito, dove torna sulla mitologia dei fratelli Frank e Jesse James –, non vedrà mai nel corso della sua carriera nei “generi” altro se non la possibilità di dare sfogo alle proprie riflessioni sulle relazioni umane, sulla psicologia, sul conflitto inteso come atto del pensiero ben prima che reazione fisica a elementi esterni. Si veda in tal senso l’eccezionale Dietro lo specchio (Bigger Than Life, 1956), dove la scissione sempre più evidente tra le tensioni predatorie dell’America wasp e capitalista – non a caso discendente diretta di chi rapinava le diligenze neanche cento anni prima – e il retroterra culturale puritano approdato sulle sponde d’oltreoceano con la Mayflower trovavano compimento in un’opera schizoide, che è mélo ma anche e soprattutto angoscioso thriller che vagheggia persino istinti orrorifici. Non è distante da questo gusto barocco e sincretico per la rappresentazione anche Johnny Guitar, che Ray approcciò su richiesta di Crawford dopo che venne meno la possibilità di dirigere per lei e con lei un film dal titolo Lisbon, che venne scartato dalla Paramount dopo aver bocciato senza appello ogni tentativo di riscrittura della sceneggiatura. Il fresco divorzio della diva dalla Warner Bros. le aveva conferito una libertà di movimento rara nel sistema hollywoodiano ancora dominato dagli studios (gli anni Cinquanta rappresentano gli ultimi fuochi del cinema classico prima della pur breve ventata rivoluzionaria portata dalla New Hollywood), e così l’attrice portò in dote alla piccola Republic Pictures di Herbert J. Yates il progetto Johnny Guitar. Crawford vagheggiava l’idea di scontrarsi sul set con Bette Davis, ma la casa di produzione non aveva il budget a disposizione per potersi permettere due dive di quel calibro sullo stesso set, e fu per questo che si ripiegò sulla succitata Mercedes McCambridge.

Yates nel corso della sua ventennale carriera produttiva aveva già affrontato molto spesso il western, ma in modo assai più canonico, sia con i film dedicati al personaggio di Lone Ranger (due serializzazioni cinematografiche in quindici episodi sul finire degli anni Trenta) sia nel tentativo sovente riuscito di lanciare nuove stelle attoriali sul mercato, tra le quali vale la pena citare quantomeno Roy Rogers, Gene Autry, Rex Allen, e ovviamente John Wayne. Proprio The Duke era stato il protagonista, nel dopoguerra, di due dei titoli più ambiziosi mai tentati dalla Republic, vale a dire Iwo Jima, deserto di fuoco di Allan Dwan e Un uomo tranquillo di John Ford (che ottenne l’Oscar per la miglior regia). All’interno di un lavoro produttivo solitamente abituato a confrontarsi con il bianco e nero, anche per ragioni meramente economiche, la lussureggiante campagna irlandese immortalata da Winton C. Hoch trova il suo contraltare nella fotografia gloriosamente innaturale ordita da Harry Stradling per Johnny Guitar. La prima sta a simboleggiare il ritorno a una verità per lo statunitense che abbandona la “scortese” Pittsburgh per tornare alla fattoria irlandese in cui nacque, mentre la seconda sottolinea la totale falsità di ciò che sta prendendo corpo in scena. È falso il far west raccontato da Nicholas Ray, ma è falso il western in quanto tale perché ricostruzione ideologica, e dunque forzatamente fittizia, di una Storia che si è tramutata in poco tempo in Ideale – siamo pur sempre nel racconto di una nascita di una nazione. Sono falsi anche molti dei personaggi che Ray va a raccontare, che barano, imbrogliano, rapinano, trucidano senza pietà. Ed è falsa anche la riottosa distanza con cui Vienna (Joan Crawford in uno dei punti più illuminanti della sua carriera) accoglie Johnny, unico estensore del “vero”, perché unico elemento che non accetta la prammatica del genere di riferimento. In tal senso l’incipit di Johnny Guitar appare quasi una dichiarazione programmatica: c’è l’en plein air, lo scoppio di mine per fare spazio nella natura all’incedere del moderno – si sta costruendo una ferrovia, elemento determinante nello sviluppo della vicenda –, perfino una rapina a una diligenza. Ma tutto è visto a distanza, dagli occhi degli spettatori che sono però gli occhi di Johnny, che come ogni eroe che si rispetti arriva a cavallo ma non ha un fucile al fianco o una pistola nella fondina, ma una chitarra a tracolla. E se c’è una tempesta di polvere desertica a costringerlo ad alzare il fazzoletto fino a coprire le vie respiratorie, ecco che il rifugio (che è anche l’Itaca ideale che sta inseguendo l’uomo) è un saloon che sorge nel bel mezzo del nulla.

Un’architettura, tema caro al regista, per di più di stampo quasi europeo. Non a caso il suo nome, che è anche il nome della proprietaria, rimanda esattamente alla mitteleuropa: Vienna. Ecco che il saloon di Vienna diviene giocoforza il non-luogo per eccellenza di un film che assume fin da subito caratteristiche oniriche, ondivaghe, vagamente allucinatorie. Spiazza l’ingresso di Johnny nel saloon, con i croupier lì pronti ad attendere (chi? Si è nel pieno del deserto, non su una tratta cittadina definita); spiazza ancor più il fatto che l’eroe ha per difendersi una chitarra, e non la pistola che Vienna sa subito come puntare alla sua acerrima nemica e ai suoi infidi scherrani. L’ingresso nel saloon, che sarà l’epicentro di gran parte della vicenda, ha una forza stordente, come gli elementi gotici che ne caratterizzano la visione. Per quanto viva della straripante pulsione erotica che vive come eterno conflitto tra i personaggi, Johnny Guitar possiede le movenze criptiche dell’incubo, della fiaba, della storia oscura di tempi immoti e distanti. In questo astrattismo che è concettuale, scenografico, e persino narrativo, non può che ergersi fin da subito come classico, con la sua sottile mitopoiesi che nega però gran parte delle ovvietà del racconto tradizionale e popolare. Uomini disfatti e sconfitti osservano l’agone violento e privo di compromessi tra due donne, in attesa di tornare a recitare un ruolo che è però puramente esornativo, ed esemplificativo. Johnny è il liberatore degli istinti passionali di Vienna, ma è lei la vera protagonista della storia, per quanto all’uomo sia ancora concesso salvarla da un destino turpe e ingiusto. Anarchico e privo di cittadinanza d’altronde Johnny Guitar non riveste il ruolo di eroe dimesso ma conservatore, tipico del western, bensì quello del non-cittadino per scelta, per rifiuto di una comunità bigotta e cospiratrice. In questo senso si possono leggere con una certa nettezza riferimenti all’aria resa irrespirabile nella Mecca del cinema dal Maccartismo. La chiave sentimentale e melodrammatica può ancora permettere un “lieto fine”, ma solo fuggendo dalla civiltà, rifiutando i compromessi del Capitale, passando sotto la cascata e rigenerandosi, uscendo da quelle rocce che configuravano anche l’illusione di avere un posto di primaria importanza nello scacchiere sociale – la straordinaria scenografia d’interni del locale di Vienna meriterebbe un capitolo a parte, così come la scelta del colore bianco che in un profluvio di colori densissimi rifulge ancora di più rivendicando una morale virginale laddove impera lo scorrere del sangue.

“Maybe you’re cold but you’re so warm inside”, canta Peggy Lee sulle celeberrime note composte da Victor Young ripensando alla quinta delle 12 Danzas españolas di Enrique Granados, e solo alla fine del film ci si rende conto che non si sta qui cantando di Johnny Guitar, ma di Vienna, eroina protofemminista che rivendica sempre il proprio spazio, non accetta accomodamenti o ripieghi di sorta, sa come e quando riprendersi l’uomo che ama, giocando anche con lui. Indimenticabile in tal senso il dialogo in cui Johnny pare interpretare la parte del macho, e Vienna quello della donna sottomessa e innamorata, salvo svelare di nuovo la falsità di ciò che si sta vedendo. Lo si riporta qui, in chiusura, rimembrando come Pedro Almodóvar l’abbia utilizzato, in modo ironico e lungimirante, in un passaggio chiave di Donne sull’orlo di una crisi di nervi (successivamente lo ha ri-fatto suo anche Jean-Luc Godard in Le livre d’image).

Johnny: Quanti uomini hai dimenticato?
Vienna: Tanti per quante donne ricordi tu.
Johnny: Non andar via.
Vienna: Ma io non mi son mossa.
Johnny: Dimmi qualcosa di buono.
Vienna: Certo. Che ti devo dire?
Johnny: Mentiscimi. Dimmi che tutti questi anni mi hai aspettato. Dillo.
Vienna: Tutti questi anni ti ho aspettato.
Johnny: Dimmi che se non fossi tornato saresti morta.
Vienna: Se tu non fossi tornato sarei morta.
Johnny: Dimmi che mi ami ancora come io amo te.
Vienna: Io ti amo ancora come tu ami me.
Johnny: Grazie. Grazie mille.
Info
Johnny Guitar, il trailer.

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