L’amore è una cosa meravigliosa

L’amore è una cosa meravigliosa

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Melodramma americano anni Cinquanta di pura convenzione, L’amore è una cosa meravigliosa di Henry King mescola umori da Guerra Fredda, pacifismo alla buona e fratellanza universale di immediata efficacia. Dilaniato fra Oriente e Occidente, il destino dell’uomo è assegnato a una generica fiducia nell’amore in aria di misticismo popolare. Jennifer Jones e William Holden abbracciati sotto l’albero in cima alla collina: il glamour è garantito. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Volemose bbene

Hong Kong, 1949. Ogni giorno migliaia di cinesi cercano riparo nella colonia britannica per sottrarsi alla nuova Cina comunista, e la dottoressa Han Suyin, euroasiatica di genitori misti, si occupa di loro in ospedale per sostenerli e curarli. Benché per metà europea, Suyin si sente intimamente cinese, e come tale vive il proprio stato di giovane vedovanza, dopo che il marito, nazionalista oltreconfine, è stato ucciso dai comunisti. Dichiarandosi donna orientale totalmente insensibile a qualsiasi altro uomo, Suyin deve mettere in discussione le proprie convinzioni quando incontra Mark Elliott, giornalista americano sposato a una donna che non ama. Fra Mark e Suyin nasce un grande amore, che tuttavia si trova ad affrontare mille difficoltà per differenze culturali e per i pregiudizi della benpensante società occidentale che li circonda a Hong Kong. [sinossi]

Hollywood, ancor più quella del passato, ha ragioni che la ragione non conosce. In L’amore è una cosa meravigliosa (Henry King, 1955) è rintracciabile una limpida testimonianza del rapporto emblematico tenuto dal cinema americano con l’alterità. Specie riguardo ai generi più popolari come il melodramma, il dato extra-anglosassone va spesso incontro a un robusto bagno di indigenizzazione. Nel caso in questione ciò è facilitato dal profilo euroasiatico del principale personaggio femminile, Han Suyin, serissima dottoressa metà inglese e metà cinese, per cui non è completamente fuori luogo affidare il ruolo a un’attrice in tutto americana come Jennifer Jones, giusto un filo agghindata in stile orientale per dare evidenza al suo doppio profilo etnico. L’indigenizzazione passa tuttavia attraverso altri strumenti, corroborati soprattutto dalla tendenza al gusto esotico di ambientazioni e antropologie narrate. La Hong Kong in cui si snoda la vicenda d’amore e scoperta di se stessi si delinea spesso come una cartolina fastosamente evocata da colori e scenografie di gusto tipicamente anni Cinquanta., così come la maggior parte dei personaggi sono comunque figure anglosassoni, con qualche sparuta figura di cinese confinata sullo sfondo. Ancora: nel bagno di indigenizzazione ci passano pure specifiche scelte narrative. Da più parti è testimoniato infatti che la vera Han Suyin, figura realmente esistita e autrice del libro parzialmente autobiografico al quale il film s’ispira, fosse una fervente simpatizzante della nuova Cina comunista. Non è così invece nel film, che si adatta con schietto opportunismo a umori e sentimenti anticomunisti ben radicati negli Stati Uniti del tempo – e la vera Han Suyin prese le distanze dall’opera di King, rifiutandosi pure di vederla. Sotto questa luce L’amore è una cosa meravigliosa è un esempio compiutissimo di cinema da Guerra Fredda; la rivoluzione maoista è vista come il male assoluto da tutti i personaggi, occidentali e orientali, e si giunge a negare quasi totalmente la presenza scenica a qualsiasi figura umana che possa minimamente nutrire sentimenti favorevoli alla nuova Cina – fa eccezione il dottor Sen, al quale King, pure con una certa dose di coraggio, affida il ruolo di fautore di nuove magnifiche sorti e progressive per il futuro del suo Paese. Altrettanto opportunistica è la posizione assunta dal film nei confronti del dissidio fra Cina, Occidente e la Hong Kong britannica presa in mezzo. Han Suyin si dichiara infatti più volte rocciosa sostenitrice del proprio popolo d’appartenenza (benché euroasiatica, Suyin si sente più cinese che europea). Sostenitrice del popolo, si badi bene, ma non del suo attuale Paese. Suyin vuol tornare in Cina per aiutare la povera gente, di nuovo inquadrata come vittima e prigioniera di una dittatura violenta e schiacciante. Il popolo è vittima innocente; il potere politico è violento e carnefice. I rappresentanti del mondo occidentale, ça va sans dire, non possono che guardare con disprezzo alla nuova Cina di Mao, mentre la soluzione del conflitto sembra identificarsi (con spirito da cinema puramente popolare e anche un po’ facilone) nella concordia fra i popoli, nel giusto mezzo incarnato per l’appunto dall’euroasiatica Han Suyin – per sua stessa esplicita dichiarazione, gli euroasiatici si trovano nell’ottimale condizione di poter attingere al meglio di entrambe le etnie.

A fare da motore a questa operazione di epidermico pacifismo ecumenico (la morale, in ultima analisi, è volemose bbene) interviene l’amore, forza unificatrice capace di scavalcare steccati sociali e di risolvere conflitti apparentemente insanabili. Questa sconfinata fiducia nell’amore trova la propria endiadi allegorica nella passione divampante fra Han Suyin e il giornalista americano Mark Elliott, che pure si trovano a dover affrontare numerose difficoltà derivanti dalle loro diverse appartenenze culturali, ma che sembrano travolti da un sentimento talmente forte e potente da assurgere a fondamentale risorsa per ricompattare l’intero universo umano oltre ogni barriera e divisione. Il compromesso, ovviamente, è a tutto vantaggio dell’Occidente. Giovane vedova il cui marito nazionalista è stato ucciso dai comunisti, Suyin deve superare le proprie convinzioni culturali per potersi concedere liberamente al nuovo amore di Mark – ribadendosi donna cinese, sulle prime Suyin afferma di essere insensibile a qualsiasi sentimento poiché dopo la morte del coniuge il suo cuore si è letteralmente spento e raffreddato. Alla rigida disciplina interiore della cultura orientale, fatta di fede e spiritualità, risponde il quieto razionalismo occidentale – certo che si può amare di nuovo, vietarselo è uno spreco, la vita è più materia e meno spirito, evviva l’epicureismo, chi vuol esser lieto sia, di doman non c’è certezza. A poco a poco L’amore è una cosa meravigliosa si riconverte in una sorta di (ri)appropriazione di un’identità occidentale da parte di una figura femminile euroasiatica. Ed è una riappropriazione a conti fatti piuttosto retriva. Esordendo come figura di donna indipendente e autodeterminata, Suyin ribadisce più volte che tramite l’amore per Mark ha riscoperto il vero significato della propria natura femminile. Che non sembra soltanto la riscoperta dei sentimenti dopo il gelo della vedovanza, ma anche l’adeguamento a un profilo di sostanziale prostrazione e sottomissione al maschio fascinoso – il film, non dimentichiamolo, appartiene a Henry King, regista quasi settantenne, giunto alla fase finale della propria chilometrica filmografia, iniziata nell’epoca del muto. È ancora “indigenizzazione” il ritratto riservato alle culture altre. Tornata in Cina per un breve periodo, Suyin fa visita alla propria famiglia d’origine, raffigurata secondo rigidi schemi di liturgia domestica, nelle pose e parole ieratiche, nei movimenti codificati da uno spazio scenico all’altro. L’America si racconta terre lontane sulla base di qualche bigino raccolto qua e là, tanto per rassicurare il proprio pubblico che tutto il mondo è affascinante, esotico, pittoresco, magari da visitare, ma come si sta bene in Occidente, mai in nessun altro luogo. Non a caso, davanti all’amore di Suyin e Mark lo zio capofamiglia si arrende dopo qualche resistenza affermando che non si può arrestare il vento del cambiamento. Il cambiamento sta nell’apertura della Cina al resto del mondo, ma si tratta di un’apertura, di nuovo, a tutto vantaggio dell’Occidente. Tema ricorrente è la fuga dalla Cina comunista; Suyin, Mark e gli altri personaggi non perdono occasione per sottolineare le migliaia di cinesi che ogni giorno cercano rifugio a Hong Kong, così come la visita di Suyin in Cina è funzionale al desiderio di fuga occidentale di una delle sue sorelle.

È altrettanto vero che L’amore è una cosa meravigliosa non risparmia stoccate nemmeno all’immortale spirito coloniale degli occidentali, ricchi, opulenti, arroganti, che tutto possono in disprezzo e a detrimento degli altri – la figura emblematica dell’anziana e viziata Mrs Palmer-Jones. Henry King e il suo sceneggiatore John Patrick certo non amano la Cina comunista, ma altresì si muovono nei buoni salotti dei ricevimenti occidentali, dove lo straniero fa il padrone in casa d’altri, mettendone in luce tutto l’egoismo e la rapacità capitalistica – con mossa platealmente didascalica si fanno i conti sul basso costo dei nuovi domestici cinesi in fuga dalla rivoluzione. È una società ipocrita, perbenista, chiusa su se stessa, che guarda gli altri popoli dall’alto in basso, convinta della superiorità della propria cultura, e che al contempo è pronta a escludere anche figure apprezzate non appena si devia dal sentiero dei comportamenti convenzionali. Così, stimatissima professionista, Suyin può perdere il proprio lavoro in ospedale soltanto perché frequenta Mark, uomo sposato. Il tema del giudizio sociale è più pertinente al melodramma americano anni Cinquanta tout court che agli afrori di Guerra Fredda pur emananti dal film di King. Basti pensare, un esempio fra i tanti, al cinema coevo di Douglas Sirk, che vede più volte l’amore ostacolato da steccati sociali e/o razziali. L’amore è una cosa meravigliosa non ha dunque mano lieve nemmeno nei confronti degli occidentali, ma ciò non è certo dovuto a chissà quale scardinante morale innovativa proposta dal film. Semplicemente né la rapace America capitalista e coloniale, né tantomeno la Cina comunista e proletaria, conoscono le profonde potenzialità dell’amore, al contrario ben note a Suyin e Mark. La loro storia d’amore è banalissima, convenzionale, culturalmente conflittuale ma anche capace di apparire come un fiume sereno al quale soltanto la violenza può mettere fine. I conflitti fra i due protagonisti si risolvono nel giro di due inquadrature, mentre si leva una generica condanna della guerra, l’unica che può distruggere un sentimento d’amore tanto inscalfibile. Hong Kong è il compromesso, il giusto mezzo. Colonia britannica a fianco della Cina. Corpo britannico e anima cinese. La soluzione è l’Eurasia. Han Suyin è la soluzione. È dottoressa, quindi affezionata alla cultura razionalistica, ma da buona orientale è anche superstiziosa. E, a differenza sia degli occidentali che degli orientali, Suyin ha davvero a cuore il popolo, gli ultimi. Vuole occuparsi di loro, sull’onda di un sentimento di umanitarismo e fratellanza universale che va oltre la stretta politica contingente e che si fa più scopertamente mistico. È d’altronde intriso di misticismo il finale, dove le massime di Mark, snocciolate in voice over, evocano una dimensione di amore panico e sovrannaturale.

Stilisticamente L’amore è una cosa meravigliosa è pura convenzione hollywoodiana anni Cinquanta. Si conserva una buona dose di spettacolarità con frequenti scantonamenti verso il kitsch, si sfrutta al massimo l’ampiezza scenografica del Cinemascope, si adotta una fotografia squillante e pastosa che dia pieno risalto al gusto per l’esotico. Così come l’uso della musica, con il famosissimo theme composto da Alfred Newman, è insistente e ridondante fino allo spasimo, convocato a enfatizzare un discorso che sia il più chiaro e intelligibile per il grande pubblico. Tanto è ripetitivo il commento musicale, quanto è sostanzialmente banale la sceneggiatura, fitta di approssimazioni, sfilacciature e dialoghi sentenziosi, secondo un’idea di narrazione tutta orizzontale, iper-dichiarata e didascalica, che non lasci la minima ombra di sottotesto. Spettacolo per grandi masse, desiderose di abbeverarsi a emozioni immediate e di illudersi che basta amarsi e tutto va a posto. In tale direzione danno il loro contributo anche divismo e fotogenia: Jennifer Jones e William Holden, belli, eleganti e appassionati. Perché la bellezza è sovranazionale, ecumenica, universale, come l’amore. Se si è americani, lo è di più.

Info
L’amore è una cosa meravigliosa, il trailer.

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