Jess il bandito

Jess il bandito

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Notevolissimo esempio di (anomala) classicità hollywoodiana, Jess il bandito – presentato al Cinema Ritrovato per l’omaggio a Henry King – è un western rooseveltiano asciutto, rigoroso, spettacolare, quasi proletario, mai sentimentale e pressoché privo di commento musicale.

Diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo

Finita la guerra civile americana, molti contadini vengono espropriati dalle proprie terre per mano degli scagnozzi della compagnia ferroviaria. Due fratelli, Frank e Jesse James, si rifiutano però di abbassare la testa e finiscono per diventare dei criminali. [sinossi]

Un film come Jess il bandito – presentato al Cinema Ritrovato nell’ambito dell’omaggio dedicato a Henry King – ci ricorda, banalmente, quanto fosse grande il cinema americano dell’epoca d’oro. Una grandezza e una magnificenza che vanno riconosciute anche nella estrema varietà di toni e stili, di approccio narrativo e umano. Basti pensare che il 1939, quando King realizza Jess il bandito, è lo stesso anno di Via col vento, apice indiscusso della spettacolarità hollywoodiana, vertice estremo dell’idea di un cinema bigger than life, sontuoso, fastoso, elegante, eccessivo, come solo il massimo prodotto della Fabbrica dei sogni poteva essere. E Via col vento viene classificato, non a caso, e giustamente, come il punto d’arrivo della classicità di quel cinema, costruitasi lungo tutto il decennio degli anni Trenta.

Eppure, allo stesso tempo, si potrebbe considerare in modo simile e speculare Jess il bandito, accostandolo però a un’altra forma di classicità, quella più tendente al realismo sociale, un realismo non solo cinematografico, ma innanzitutto romanzesco (da Steinbeck a Faulkner), che tanto aveva influenzato gli intellettuali italiani anti-fascisti, da Vittorini a Pavese, passando oltralpe per Jacques Prévert e per lo stesso Jean Renoir, come dimostra in maniera indiscutibile un film quale Il delitto del signor Lange, dove con tratti solo apparentemente paradossali si fa un parallelismo – tematico e simbolico – tra l’epopea western americana (in quel caso a fumetti) e quella urbana parigina. Si intende dire cioè che, come Furore di John Ford, anche Jess il bandito è il frutto della temperie culturale nata per reazione agli anni della Grande Depressione e incarnatasi nel New Deal rooselveltiano, in quegli stessi anni in cui Orson Welles – prima di Quarto potere – portava a teatro il Macbeth “nero” e un Giulio Cesare in abiti fascisti e mussoliniani.

Quegli anni Trenta rappresentarono dunque il più potente tentativo – prima di quel che poi accadde con la New Hollywood (1) – di mettere in scena a Hollywood dei racconti di natura progressista e anti-autoritaria, e Jess il bandito – nella descrizione di un mondo di contadini sfruttato dalla nascente ferrovia – sta qui a dimostrarlo in tutta evidenza. Però – ed è questo probabilmente il discrimine fondamentale – Henry King non solo tematizza un’epica degli oppressi in cui Jesse James risulta essere allo stesso tempo il figliol prodigo e il rinnegato (perché travalica, infine, in maniera eccessiva nell’illegalità), con modalità non troppo dissimili da quanto poi accadrà per il nostro Salvatore Giuliano; ma questo racconto si struttura anche secondo una precisa dinamica stilistica, tutta giocata sull’understatement, a partire dalla quasi totale assenza di commento musicale, che si ritrova – sostanzialmente – solo nei titoli di testa, oltre che in certi passaggi celebrativi (criticamente celebrativi, verrebbe da dire, visto che uno di questi è l’inaugurazione della ferrovia), dove la musica funziona praticamente solo da strumento diegetico e non da forzata sottolineatura sentimentale.

Una scelta siffatta trasporta Jess il bandito verso il campo del realismo, e lo si constata in maniera precisa soprattutto nelle scene degli inseguimenti a cavallo, proprio dunque in quelle sequenze action in cui il cinema americano richiede da sempre il massimo grado della sospensione dell’incredulità spettatoriale. Qui King mostra di saper conoscere alla perfezione tempi e ritmi visivi, riprendendo ora i fuggitivi e ora gli inseguitori e passando poi ai totali in cui – sempre con l’unico commento dello scalpicciare dei cavalli – si vedono sia i primi che i secondi, a momenti più vicini, a momenti più lontani, a tratti sparpagliati, a tratti più raccolti, per dei saggi – le sequenze di inseguimento sono due in particolare – di maestria registica capaci di lasciare sbalorditi sia per l’esattezza del montaggio sia per la percezione del sudore e della fatica che si riesce a far trasparire. E non ci pare esornativo sottolineare come la prima delle due scene si concluda in maniera del tutto anomala, con Jesse che lancia il denaro rubato ai soldati che inseguono lui e suo fratello, dandosi così la possibilità di seminarli, visto che i militari sono pur sempre uomini attaccati al denaro; e infatti li vediamo scendere da cavallo per raccattare le banconote, per uno dei momenti di più aspra critica sociale del Dio dollaro.

Jess il bandito, però, vale anche – in senso più tradizionale – da vetrina per due grandi star di quegli anni, Tyrone Power nei panni del protagonista e Henry Fonda in quelli del fratello Frank, entrambi utilizzati come portatori di mitologia divistica e virile. E viene anche da pensare che, al di là del seguito diretto un anno dopo da Fritz Lang (Il vendicatore di Jess il bandito), è proprio da questo film di King che Sergio Leone avrebbe poi preso il là per il suo C’era una volta il West, dove non solo sembra dilatare all’estremo il gioco di suoni diegetici e di tempi scenici dell’incipit (e dove, di nuovo, a un livello più ampio l’arrivo della ferrovia segna il via della Storia e dunque delle ingiustizie), ma addirittura assegna al personaggio interpretato da Henry Fonda proprio il nome di Frank, ribaltandone però in sembiante cinico la figura di divo accogliente e comprensivo.

Eppure, nonostante la presenza delle due star sopracitate e nonostante la presenza – anch’essa incisiva – di Randolph Scott nel ruolo di uno sceriffo il cui sospetto nei confronti delle palesi ingiustizie della legge sembra già anticipare le atmosfere di Mezzogiorno di fuoco, la vera protagonista di Jess il bandito è una donna, la compagna di Jesse James, interpretata da Nancy Kelly, qui chiamata a far leva, più che sulla sua femminilità, sulla sua praticità e sul suo buon senso, cui non si può fare a meno di aderire come spettatori. È lei a far presente a Jesse che, a forza di combattere la ferrovia in maniera illegale, finirà per abbracciare il lato oscuro della sua personalità, ed è lei che – più tardi – constaterà come sia impossibile impedire a Jesse di fare che quel che fa, perché lui è l’incarnazione della wilderness e dunque incapace di accettare l’ingiustizia e l’urbanizzazione portate dalla ferrovia.

E allora il punto sta proprio qui, nel concetto della wilderness tipicamente americana, sconosciuto da noi in Europa, eppure terribilmente affascinante in quanto possibile declinazione dell’anarchia e dell’ecologismo e in quanto sogno di una civiltà più umana e più a contatto con la Natura, dove lo sfruttamento del suolo non è previsto e dove il denaro viene rigettato (o lanciato via letteralmente per sopravvivere e per restare liberi, come nella scena dell’inseguimento sopracitata).
La carta libertaria che viene esposta in Jess il bandito è, dunque, ovviamente destinata a perdere, a essere superata dall’avvento della Storia. E questo Henry King lo sa benissimo. Anche se ciò non toglie che fosse necessario raccontare l’epopea degli sconfitti, come sempre ha fatto il grande cinema americano, da John Ford allo Steven Spielberg di War Horse.

Nota
1. E la New Hollywood, in una sua tarda manifestazione, quella de I cavalieri dalle lunghe ombre di Walter Hill (1980), si ricordò di questo film e del suo approccio realistico, citandolo paradossalmente – e letteralmente – in uno dei suoi momenti più spettacolari, quello in cui i due fratelli Jesse e Frank cominciano la loro seconda fuga sfondando a cavallo la vetrina di un negozio.
Info
La scheda di Jess il bandito sul sito del Cinema Ritrovato.

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