L’uomo del Sud

L’uomo del Sud

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Alla quarta esperienza del suo esilio hollywoodiano, Jean Renoir con L’uomo del Sud si dedica con sguardo profondamente umanistico a un racconto classico americano, sospeso tra naturalismo e leggenda, afflato romanzesco e potenza biblica. Stasera alle 21 al Palazzo delle Esposizioni di Roma per la rassegna su Renoir, organizzata da Azienda Speciale Palaexpo, Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale, Institut Français e La farfalla sul mirino.

Questa è la mia terra

Sam Tucker lavora come bracciante, ma quando decide di affittare un podere e mettersi in proprio dovrà affrontare molte difficoltà per realizzare il suo sogno. [sinossi]
Oh Signore, perché hai messo il cielo
lassù e questo vecchio fango quaggiù.
L’hai resa così bella se non volevi
che la lavorassimo e amassimo.
Vuoi che rinunci a tutto questo?
Che vada in città con Tim
e lavorare con lui in una fabbrica.
sotto un tetto che nasconda
il tuo cielo e spenga la tua luce?
Dimmi, Signore, aiutami a capire.
Preghiera di Sam Tucker in L’uomo del Sud

Distante dalla Francia in guerra, Jean Renoir con L’uomo del Sud (The Southerner, 1945), quarta esperienza del suo esilio hollywoodiano, si dedica con afflato profondamente umanistico a un racconto classico americano, quasi archetipico, sospeso tra naturalismo e leggenda, afflato romanzesco e potenza biblica. I rivolgimenti tragici di personaggi ambigui eppure umanissimi delle sue trasposizioni dai grandi romanzi europei del periodo francese pre-bellico (lo Zolà di Nana e il Gorki de I Bassifondi, il Flaubert di Madame Bovary) sembrano, almeno apparentemente, distanti ora, e Renoir, con il supporto non accreditato di William Faulkner alla sceneggiatura, pare aderire con sincero entusiasmo ai temi e ai modi del racconto americano, ricercando nei personaggi e, ancora una volta, nella raffigurazione del paesaggio naturale, il suo viatico verso un realismo intimo eppure universale, contingente eppure apolide.

Tratto dal romanzo di George Sessions Perry Hold Autumn in Your Hand, L’uomo del Sud è una storia semplice, quella del bracciante Sam Tucker (Zachary Scott) che, seguendo il desiderio in punto di morte di suo zio Pete, decide di mettersi in proprio, dissodando il terreno incolto di un ricco proprietario terriero e piantandovi il cotone. Dopo aver sofferto il freddo e la fame, affrontato la pellagra che colpisce il figlio più piccolo e l’ostilità di un vicino di fattoria, tutto sembra andare per il meglio, ma una tempesta fatale distrugge il raccolto. Spinto dall’ottimismo della moglie Nona (Betty Field), Sam ricomincerà tutto daccapo.

È una forza ancestrale quella che spinge Sam Tucker a lottare contro le avversità della natura, una forza che pare trarre origine in reazione a quella condanna biblica in cui incorse Adamo, cacciato dal Paradiso Terrestre con il peso profetico di quell’anatema divino che lo destinava a lavorare la terra con l’affanno e il sudore della fronte. Fin dall’incipit Renoir tematizza attraverso due oggetti, un calendario e un album fotografico, la ferma volontà dell’uomo di dare un ordine alla natura e alla memoria, di combattere l’entropia delle calamità naturali e del destino, sostituendoli con una temporalità scandita (il calendario) dalle stagioni e la narrazione biografica lineare (attraverso i ritratti fotografici) della storia di una famiglia che, consapevolmente o meno, vuole ritagliarsi un suo ruolo nella Storia dell’uomo.

A presentarci i vari personaggi, mentre scorrono le pagine dell’album del clan Tucker è poi il personaggio di Tim (Charles Kemper), vero e proprio alter ego urbano del rurale Sam, dal momento che ha preferito le seducenti sirene della vita cittadina e quella certezza di un salario che caratterizza il suo impiego in fabbrica. Sam è diverso, come nel film ci verrà chiarito più avanti e proprio per bocca dell’amico Tim, lui è un “gambler”, un giocatore d’azzardo, come ogni contadino che si rispetti, perché di fatto chi coltiva la terra scommette sul suo destino, mette in “gioco” la sua sopravvivenza e quella dei suoi familiari. È proprio la famiglia, in quanto cellula sana di una forma di vita collettiva fatta di reciproco supporto e mutuo soccorso, a costituire in L’uomo del Sud l’unico viatico possibile verso la proprietà privata, altrove da Renoir, pensiamo a Il delitto del signor Lange, demonizzata attraverso figure di padroni ingiusti e sfruttatori (anche sessuali) e dunque da condannare in favore di un più sano e persino più fruttuoso cooperativismo. In questo non è da leggersi una contraddizione rispetto agli ideali renoiriani perché innanzitutto Sam Tucker sta coltivando una terra che ancora non è sua, in quanto appartiene a un proprietario terriero, inoltre, la versione che il maestro francese qui presenta dell’individualismo americano è mitigata, ampliata, proprio da questa sostituzione del self made man, del cowboy solitario e selvaggio – lo stesso vagheggiato dal parigino signor Lange – con un nucleo familiare in cerca non tanto di un benessere economico fine a se stesso (altrimenti Sam andrebbe a lavorare in città con l’amico Tim) quanto di un lavoro che per quanto faticoso e frustrante consenta alla famiglia di restare unita.

Per cui L’uomo del Sud, si configura, anche narrativamente, come racconto della lotta non tanto dell’individuo, quanto dell’uomo e della donna (Sam e la moglie Nona) contro le avversità della natura. Una lotta governata da una profonda ed epica ed etica del lavoro, che Renoir accarezza ed esalta attraverso la figura stilistica del carrello laterale, che prima percorre i filari di cotone, poi cattura lo scorrere di quel fiume che straripando ha inondato il raccolto, disseminando nelle sue acque tempestose la mucca e le galline, ora appollaiate su quel che resta della staccionata e del pollaio. Rispetto dunque all’altro film incentrato sul lavoro di stampo proletario (quello di Lange è invece già un lavoro “borghese”, per quanto “artistico”, che solo il nascere di una cooperativa può nobilitare), ovvero Toni [1], dove l’occupazione in una cava estrattiva dell’immigrato italiano rappresentava un ostacolo all’autoaffermazione e al coronamento del desiderio amoroso del protagonista, Renoir preferisce ora, in terra americana, concentrarsi esclusivamente sulla raffigurazione della fatica nei campi, come sfida umana necessaria e irrinunciabile. Una sfida che a tratti assume i tratti di un affronto al divino, quasi blasfemo, e che si incarna poi in quella preghiera terragna recitata da Sam Tucker – «Oh Signore, perché hai messo il cielo lassù e questo vecchio fango quaggiù?» – frutto di una visione panica della vita (presente anche in Il fiume e Picnic alla francese), di quel paganesimo recondito e della quasi scientifica analisi della condizione umana che accompagna l’intera filmografia di Renoir.

È proprio nella scena della “preghiera” di Sam Tucker che diventa chiaro quanto L’uomo del Sud, sia anche un film incentrato sul contrasto tra orizzontalità e verticalità, tra umano e divino (Dio o natura matrigna che sia). Mentre Sam recita la sua orazione al dio del cielo e del fango, la sua figura si staglia contro il cielo, esile eppure ben salda al terreno, mentre la moglie Nona giace distesa prona su quella terra ingrata, affondando i pugni nel terreno, cercando forse tra quelle zolle un residuo di appartenenza, proprio ora che la natura li ha traditi. Certo, la verticalità dell’uomo è assai poca cosa in un paesaggio piatto e sterminato, ostile e duro, ma la forza propulsiva della volontà di modificarlo, resta irredimibile. Così come centrale è ne L’uomo del Sud il ruolo simbolico del focolare, di fronte al quale il regista inscena un rituale di accensione (presente sia all’installarsi di Tucker che nel finale), che lo denota quale luogo di aggregazione propulsore di energia e ottimismo, per quanto allocato in una vecchia casa sgangherata che, al pari degli uomini che la abitano, si erge esile su quella terra piatta e ingrata.

Da molte parti accreditato come il migliore tra i film americani di Jean Renoir, L’uomo del Sud è senz’altro la pellicola in cui il maestro francese sperimenta non solo con i codici della narrativa, ma anche con quelli del cinema americano, ritagliandosi, all’interno di questa parabola edificante e terragna, anche momenti slapstick (la festa di matrimonio che finisce a botte in testa), lacerti western (c’è una vera e propria rissa da saloon) e frammenti di buddy movie (nelle sequenze che raccontano l’amicizia complice tra Sam e Tim); sullo sfondo del racconto poi, ma già relegati nella “Storia”, ci sono anche gli indiani (quelli vagheggiati e imitati dal signor Lange), solo che ora non fanno più paura.

Ancora una volta poi Renoir, superando di falcata il suo mero plot edificante, presenta un affondo sulla natura complessa di ciascun personaggio, anche sul “malvagio” vicino di fattoria, invidioso solo perché lui ha già perso moglie e figlio nell’impervia lotta per mettere a frutto quel terreno ora florido. Centrale e per nulla accessorio è inoltre, come si è accennato, il ruolo dei personaggi femminili, con la nonna brontolona ma pragmatica splendidamente interpretata da Beulah Bondi (grande caratterista del cinema americano, ha lavorato anche in Mr. Smith va a Washington e La vita è meravigliosa di Frank Capra) e l’instancabile Nona (la Betty Field di Uomini e topi di Lewis Milestone, presente anche in Pic Nic di Joshua Logan), vera e propria compagna di vita e di lavoro nei campi, di fatto co-protagonista del film. C’è una forza nei personaggi e nelle immagini di Renoir che nulla può cancellare, nemmeno le sconfitte dell’uomo, una forza spirituale, esoterica più che religiosa, generata da un destino atavico, e che nessuna condanna di stampo biblico può piegare.

Note
Interessante notare poi che per Toni Jean Renoir si sia avvalso della collaborazione del giovane Luchino Visconti, mentre in L’uomo del Sud è Robert Aldrich ad assumere il ruolo di assistente alla regia.
Info
La scheda de L’uomo del sud sul sito del Palazzo delle Esposizioni.
Il trailer de L’uomo del Sud.
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