War Horse

War Horse

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War Horse, oltre a rappresentare una delle visioni più struggenti della Prima Guerra Mondiale, iscrive in maniera definitiva e incontrovertibile Steven Spielberg all’albo dei grandi registi classici di Hollywood.

Una questione universale

Durante la Prima Guerra Mondiale, l’amatissimo cavallo del giovane Albert, Joey, viene venduto alla cavalleria e lui decide di seguirlo andando al fronte. Gli eventi porteranno Albert fuori dai confini dell’Inghilterra e attraverso l’Europa in guerra. [sinossi]

Come la Prima Guerra Mondiale, anche Steven Spielberg sembra oramai un monumento, reliquia da ricordare ma considerata inattuale da una parte sempre più consistente del mondo critico. L’ingresso nel terzo millennio ha segnato un distacco evidente di chi pensa il cinema (soprattutto le nuove generazioni) con il regista di E.T., Lo squalo e I predatori dell’arca perduta. Con uno sguardo teso solo al passato, si è continuato a considerare Spielberg il più ricco dei registi della New Hollywood, relegandolo di fatto al ruolo di edificatore di fiabe di grande successo internazionale, eroe del blockbuster anche quando abbandona le timbriche del “meraviglioso” per concentrarsi sulla Storia, come nel caso di Schindler’s List, che rappresentò il punto di incontro tra il box office e la glorificazione sullo scranno dell’Oscar. Titoli come Prova a prendermi, The Terminal, Munich, lo stesso La guerra dei mondi (che pure avrebbe dovuto accendere l’animo degli spielberghiani), sono passati quasi in sordina, quando al contrario simboleggiano con forza il tentativo riuscito di rinnovare il proprio universo espressivo da parte di un autore tra i più riconoscibili e allo stesso tempo complessi del panorama statunitense. In particolar modo è doloroso ricordare la tiepida accoglienza cui andò incontro Munich, tra le opere politiche fondamentali del cinema hollywoodiano contemporaneo.
Gli anni Dieci, poi, hanno completato il processo: come testimonia Il Grande Gigante Gentile, presentato fuori concorso lo scorso maggio a Cannes, Spielberg è per molti un affettuoso ricordo del passato, un regista di cui si disconosce con criminosa sufficienza l’attualità. Di esempi in tal senso ce ne sarebbero molti, da Lincoln a Il ponte delle spie, ma forse nessuno di questi raggiunge l’incomprensione cui è andato incontro War Horse.

A distanza di cinque anni dalla sua realizzazione War Horse sembra già dimenticato, come si fosse trattato di un passaggio trascurabile. Il John Ford appena fuori dall’age d’or del western, anche quello di Sentieri selvaggi, subì il medesimo destino; e proprio a Ford viene naturale accostare buona parte delle opere dell’ultimo Spielberg, per respiro epico e indole romantica carica di dimessa disillusione. Scambiato per la stanca riproposizione di temi cari al regista quali il romanzo di formazione adolescenziale e il rapporto affettivo tra l’umano e l’altro-da-sé (nello specifico il cavallo Joey), War Horse contiene sì tutto ciò, ma si dimostra anche e soprattutto un’immersione nell’incubo bellico affrontato non più con i tonitruanti toni di Salvate il soldato Ryan, ma attraverso una struggente storia di divisione e ricongiungimento che torna a guardare con insistenza dalle parti di una Hollywood dimenticata, rimossa. Nelle mani di Spielberg l’omaggio al “classico” non si fa mai tentare da riscritture postmoderne, né da un semplice calligrafismo espressivo; il suo cinema può permettersi di essere classico senza mai allontanarsi dal suo tempo perché comprende le necessità ultime, lo spirito intimo e primigenio della Hollywood d’antan. War Horse è un film sul conflitto bellico tra il 1914 e il 1918 solo perché si svolge in quegli anni, ma sfonda la parete del tempo per farsi universale.

Al di là di Ford, il paragone che viene immediato fare è con Friendly Persuasion di William Wyler, Palma d’Oro a Cannes in Italia conosciuto con il titolo La legge del Signore, uscito (il caso) nello stesso anno di Sentieri selvaggi. I punti in comune tra i due titoli non sono pochi, dalla fotografia di Janusz Kaminski che nelle timbriche dei tramonti sembra guardare al lavoro di Ellsworth Fredericks – mitico dop de L’invasione degli ultracorpi, tra gli altri –, al fiero pacifismo che lo connota, fino a piccoli dettagli come la presenza in scena, nelle sequenze casalinghe, di un’oca dal carattere temprato. Come il film di Wyler, che affronta la Guerra di Secessione con gli occhi di una comunità quacchera, anche War Horse segue un tracciato rigoroso nello sviluppo narrativo. L’incubo della guerra è anticipato da un preludio bucolico, dove alle bombe si sostituisce però il giogo del padronato, l’impossibilità per l’uomo medio di venire a patti con una giustizia sociale che non gli viene mai riconosciuta. Anche il padre del giovane Albert, interpretato da Peter Mullan, ha preso parte a un conflitto, la seconda guerra boera, dal quale non è mai veramente riuscito a riemergere. Sistematizzato in capitoli (l’Inghilterra, il plotone britannico, i tedeschi disertori, il mulino francese, l’esercito teutonico, la trincea e infine di nuovo il plotone britannico, con Albert stavolta in età d’arruolamento ma reso temporaneamente cieco dal gas), War Horse è la sintesi del pensiero di Spielberg sulla guerra, e sul sistema sociale degli uomini.
Opera emozionata prima ancora che emozionante (ma di grande impatto), War Horse procede per una retorica poetica che spezza in continuazione il filo invisibile dell’eroismo guerresco. L’intera Grande Guerra è ridotta a un accumulo di morti inutili, improvvise o meno che siano; Spielberg le risolve tutte fuori campo, impedendo alla macchina da presa di impregnarsi fino in fondo dell’orrore che le permeano, ma facendo rimbombare con forza l’eco.
Così la carica di Tom Hiddleston finisce in uno stacco di montaggio, che lo “elimina” dalla sella, i giovani fratelli Michael e Gunther vengono trucidati mentre la camera viene occultata da una pala del mulino, Colin – migliore amico di Albert – svanisce semplicemente nella nuvola di gas, per non apparire più.

Spielberg utilizza le armi del cinema per dare corpo alla barbarie della guerra, riportando la tecnica al suo scopo primigenio. L’odissea di Joey – che cambia nome a seconda del proprietario provvisorio che lo adotta – ha qualcosa del vagare apparentemente privo di meta di Ethan e Martin in Sentieri selvaggi, e come per loro il ritorno a casa è comunque un’illusione di pace, per quanto beata. Nella splendida sequenza in cui il cavallo, reso oramai imbizzarrito dal furore dei combattimenti, corre a perdifiato per le trincee, finendo ferito e intrappolato nel filo spinato – altra bestialità inventata dall’uomo per definire confini che non esistono nella geografia – Spielberg tocca uno degli apici del cinema degli ultimi anni, così come nella seguente discussione tra i “nemici” su chi deve andare a liberare il povero animale dal martirio.
Se in Lincoln e Il ponte delle spie Spielberg rifletterà sul valore politico della Storia, e su come questo viene letto e interpretato dagli uomini, War Horse è la cupa riflessione sull’umanità mandata al macello, sull’insensatezza della guerra, sull’impossibilità – una volta entrati nel cuore del conflitto – di distinguere tra buoni e cattivi: solo i soldati, carne da far infilzare sulle baionette o esplodere con le granate, possiedono ancora la spinta verso il futuro. Un futuro che gli verrà probabilmente precluso, riuscissero pure a sopravvivere ai combattimenti. Albert torna a casa con il suo Joey, accolto sulla soglia dalla madre e dal padre. Non è diventato uomo, ha solo salvato il suo affetto più caro. Non c’è speranza per l’umanità, resta ancora forse solo il rifugio intimo. La casa. Sempre che il padrone non torni a reclamare un fitto che nessuno può permettersi. War Horse è una delle opere fondamentali del Ventunesimo Secolo, e Spielberg uno dei registi ancora in grado di coniugare grande narrativa, spettacolo e sguardo politico. Guai a considerarlo vecchio.

Info
Il trailer di War Horse.
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