Sentieri selvaggi

Sentieri selvaggi

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Il capolavoro di John Ford, il film che ha segnato in maniera indelebile la storia del cinema western, il punto di non ritorno della classicità hollywoodiana. Basta il titolo: Sentieri selvaggi.

Let’s Go Home, Debbie

È il 1868 e sono passati tre anni dalla fine della guerra di secessione. Una porta si apre sulla prateria dell’ovest americano. Ethan Edwards torna a casa dopo essere partito per la guerra come soldato dello stato confederato del Texas. Ritrova il fratello Aaron, la cognata Martha, le loro due figlie Lucy e Debbie, il figlio minore Ben e il figlio adottivo Martin, che per un ottavo ha sangue pellerossa. Ma è una felicità di breve durata… [sinossi]

Una porta immersa nel buio che si apre, spalancando gli occhi degli spettatori sul maestoso panorama della prateria del west. Anche gli occhi più ottusi, i più refrattari alla luce, non possono resistere alla tentazione di sgranarsi di fronte alla prima immagine di Sentieri selvaggi; è il ricatto di John Ford, all’ultimo incrocio con l’epopea del western “classico”, nei confronti degli spettatori. Dopo Sentieri selvaggi, all’interno della sua filmografia, il west troverà spazio solo per raccontare episodi della Guerra di Secessione (Soldati a cavallo e il suo segmento de La conquista del west), o per togliere dalla coperta della Storia la patina del mito: ne sono ottimi esempi I dannati e gli eroi, Cavalcarono insieme, L’uomo che uccise Liberty Valance e Il grande sentiero, dove per la prima volta nel cinema di Ford i protagonisti sono i nativi, il popolo Cheyenne capitanato da Piccolo Lupo.
Il western sta andando da tutt’altra parte, così come tutti i generi dell’age d’or hollywoodiana. Prima Delmer Daves e poi George Sherman rivestono di una luce diversa la dicotomia cowboy-indiano (ne L’amante indiana e Kociss, l’eroe indiano), quindi le regole del genere vengono disattese senza essere violate da George Stevens (Il cavaliere della valle solitaria), Fritz Lang (Rancho Notorious), Nicholas Ray (Johnny Guitar), Fred Zinnemann (Mezzogiorno di fuoco) e Jacques Tourneur. Il genere “americano” per eccellenza veniva dunque riletto e interpretato da autori europei, anticipando la deriva che avrebbe condotto, di lì a pochissimi anni, allo spaghetti-western e, in patria, al mood crepuscolare.
Ma nulla vi è, nell’intera storia del cinema, di più crepuscolare, demitizzato e mitico allo stesso tempo dell’ingresso in scena di Ethan Edwards. Si apre la porta e lui è lì, sullo sfondo. Immerso nella luce. Non ha luogo, ha una meta. Temporanea, come tutte le mete. Così lo descrive Frank S. Nugent nelle pagine della sceneggiatura: “La macchina da presa inquadra e segue un cavaliere solitario. È Ethan Edwards, un uomo duro come il paese che sta attraversando. Ethan è sulla quarantina, con una barba di tre giorni. La polvere si è incrostata nelle linee del suo volto e ha ricoperto i suoi abiti. Indossa un lungo cappotto Confederato, con uno strappo all’altezza della tasca, rattoppato e ricucito maldestramente ai gomiti. I pantaloni sono di un blu sbiadito e sono scoloriti lungo le gambe dove un tempo si trovavano le strisce gialle della cavalleria yankee. La sella è messicana e lui indossa un serape in luogo del poncho del Texas… Cavallo e cavaliere hanno percorso una lunga strada”.

Ethan è “duro come il paese che sta attraversando”. Duro, incattivo, privo di qualsiasi tipo di speranza, aggrappato a una melanconia del vivere che si rinnova ogni volta che il sguardo incrocia quello della cognata Martha, che ha sposato il fratello. Aaron e Martha hanno costruito un focolare domestico, un luogo in cui possono rinchiudersi, protetti (apparentemente) dall’esterno; Ethan ha solo il suo cavallo, e quei vestiti che dicono di lui più di ogni altra cosa. Ha la giubba Confederata logora, ma i pantaloni sono nordisti. Porta con sé una medaglia al valore dello stato del Messico – che donerà a Debbie – e non è stato in California come tutti credevano. Nessuno si ricorda di lui neanche durante le sanguinose battaglie della Guerra di Secessione, eppure si considera ancora sotto il giuramento che fece agli Stati del Sud. In The Searchers, la canzone scritta da Stan Jones che accompagna i titoli di testa, si canta: “What makes a man to wander? What makes a man to roam? What makes a man leave bed and board, and turn his back on home?”.
Ethan è un uomo che non ha nulla, né legami, né ideologie, né una patria da servire. Non ha uno scopo, per questo può tornare a casa del fratello, solo per vedere una volta di più la cognata e i suoi nipotini. L’unico reale legame, quello con il figlioccio Martin Pawley, da lui salvato quando era in fasce dopo che la famiglia era stata massacrata dagli indiani, lo disgusta: Martin ha un ottavo di sangue pellerossa, un’infamia che non potrà mai cancellare. Bastano i primi dieci minuti di Sentieri selvaggi per accorgersi di come John Ford stia tentando di percorrere una via perigliosa, mai intrapresa prima, difficile da rincorrere anche in seguito – e per chiunque. C’è un eroe, che appare in scena come tale e non abbandona neanche per un momento il proprio ruolo durante tutto il film. C’è un eroe, ed è John Wayne. John Wayne, esattamente come Ford, non “fa” il western. Lo è. Sono lì a testimoniarlo, qualora esistessero dei dubbi, i nove western portati a termine insieme (Wayne recitò per Ford in quattordici film, ventuno se si considerano anche i titoli in cui il nome dell’attore non compariva nel cast principale), da Ombre rosse in poi. Quando Ford gira Sentieri selvaggi, lui e Wayne non lavorano insieme da quattro anni (Un uomo tranquillo) e non girano un film ambientato nel west da sei (Rio Bravo). L’ingresso in scena di Ethan, dunque, (si) proietta direttamente negli schemi dell’epopea western, e penetra sottopelle senza che a nessuno venga in mente di opporre alcuna resistenza. Ma Ethan Edwards non è l’eroe che il western classico ha sempre preteso, con le macchie da redimere legate al passato e per questo proteso, al di là di ogni ragionevole dubbio, verso il “bene”, qualunque esso sia. Ethan è un uomo stratificato, composto da parti che cozzano violentemente le une con le altre, a partire – come si è visto – dal vestiario.

L’eroe viene spesso dal nulla, e ancor più spesso nel nulla deve tornare a vagare, ma perché la sua azione non può essere relegata a un unico posto. È suo destino quello di “risolvere” le situazioni, di agire là dove è necessario il suo intervento. Non ha interventi in piano, Ethan, e il suo vagare è solo dettato dalla riottosa incapacità di accettare l’esistenza. Duro come il paese che sta attraversando, e come esso ingiusto, prima di ogni altra cosa. Se James Stewart rappresentò il volto giusto dell’America, facendo deflagrare in sé e su di sé le speranze del new deal (un discorso che vale tanto per i film con Frank Capra quanto per quelli con Anthony Mann, e che trova la sua “dannazione” in Vertigo e la sua “redenzione” ne L’uomo che uccise Liberty Valance), il Wayne di Sentieri selvaggi mostra al pubblico le fragilità, le ossessioni, i pregiudizi, il razzismo e la violenza priva di controllo dell’America. Non è un caso che Ford ambienti il film nel 1868, a tre anni dalla conclusione della Guerra di Secessione; gli Stati ora sono davvero Uniti. Il Paese, dimentico dei retaggi della Rivoluzione, è pronto a (ri)nascere sotto le spoglie del Capitale. Si deve colonizzare, conquistare un territorio dopo l’altro, strapparlo ai barbari selvaggi – i nativi – e dominarlo. Non è più tempo per le scaramucce interne.
Ford, sempre molto parco nei movimenti di macchina, utilizza il carrello ad avanzare sui personaggi in più di un’occasione in Sentieri selvaggi. Enfatizza il primo piano per mostrare il vero volto dei suoi protagonisti, per costringere una volta di più lo spettatore a comprendere l’angoscia, e la follia, che governa i personaggi: tra i più sublimi, quell’incedere rapido, quasi epilettico, verso il volto immerso nell’ombra di Wayne di fronte alle donne che vivevano con i comanche che sono state “liberate” dalla cavalleria. L’odio e il disgusto dominano il viso di Ethan, perché quelle ragazze non sono “più bianche” oramai, sono impure, anime perdute. L’odio e il disgusto, e Ford non fa nulla per celarlo, per nasconderlo. Lascia fuori campo la violenza, quella sì, a partire dalla morte di Scar (Scout, nella rivedibile traduzione italiana), ma ne rimarca fino all’esasperazione gli effetti.

Si prenda come esempio la sequenza della scoperta della casa di Aaron e Martha data alle fiamme dagli indiani di Scar (e citata, con la capacità di copiare propria degli studenti modello, da George Lucas nel primo Guerre stellari, quando Luke scopre la casa degli zii distrutta dalle truppe d’assalto imperiali). La scena giunge dopo il lungo inseguimento nel deserto da parte degli uomini capitanati dal reverendo Clayton, e che ha funzionato come depistaggio nei confronti dello spettatore – la stessa tecnica, a ben vedere, usata da Scar con Ethan, Martin e gli altri nel film –: bastano poche inquadrature, con il campo lungo che è infranto solo dal piano americano in cui sono inquadrati sia Ethan che Martin, per rendere chiaro ciò che accaduto. Non c’è un solo cadavere in scena, perché il corpo abusato e massacrato di Martha è al buio della rimessa, e solo agli occhi oramai già sconfitti di Ethan è concesso vederlo. Martin (e con lui lo spettatore) deve rimanere fuori, all’oscuro del reale orrore. Dopotutto, se neanche John Wayne, l’uomo che è il west, è riuscito a reggere di fronte a un simile spettacolo, come potrebbe pensare di farcela qualcun altro? Lo stesso procedimento viene seguito per la morte di Lucy. La violenza è nulla rispetto a ciò che lascia dietro di sé.
Se la dispersione di Ethan e Martin, per anni cocciutamente alla ricerca di Debbie, possiede barlumi omerici, l’epica di Ford ha oltrepassato il punto di non ritorno. Nulla è come un tempo, perché quel tempo non esiste più. L’America ha tradito se stessa, o forse ha rispettato fino alla fine il suo reale piano: là dove c’è un deserto prima o poi ci sarà una città, ma sarà comunque solo un’illusione. Per questo la regia si fa più brutale, secca, sempre sul filo dall’angoscia o della follia, quella di Ethan e quella (ben più rassicurante) di Mose Harper, che sogna solo la sedia a dondolo su cui cullarsi per l’eternità. Il sogno, quasi paradossale, è sempre quello del focolare, del luogo in cui rinchiudersi lasciando il mondo fuori, dello spazio buio, ventre materno/bara in cui trovare una stabilità che il duro paese che si sta facendo le ossa non può garantire. Il montaggio anche, a sua volta, si mostra spietato: non c’è altro che una serie di stacchi all’interno dell’articolato flashback che parte dalla lettura della lettera inviata da Martin a Laurie. Un montaggio che è aspro come la realtà descritta da Ford: il contrasto tra il tradizionale “arrivano i nostri” e ciò che questo effettivamente comporta (il massacro del campo indiano nel quale perde la vita anche Look, la donna nativa che Martin ha sposato a sua insaputa) ha il ghigno sardonico del paradosso, e anticipa i western “riparatori” di Arthur Penn, Ralph Nelson, Elliot Silverstein (e via discorrendo) con una potenza che lascia senza fiato a sessant’anni dalla sua realizzazione.

È fin troppo facile, alla fine del 2015, ragionare su quanto sia stato incompreso, all’epoca della sua uscita nelle sale, Sentieri selvaggi. Lo si accusò di razzismo, e di essere null’altro che una stanca eco dei portentosi western dell’epoca d’oro. Non si riuscì a vedere oltre la superficie, perché Ford non aveva mai stratificato fino a questo punto la sua messa in scena. Non c’è una sola inquadratura, in Sentieri selvaggi che non sia genitrice e figlia allo stesso tempo, ma anche desolata e sola, quasi abbandonata al proprio destino, come gli esseri umani che arrancano nella scena e come lo stesso paesaggio mozzafiato della Monument Valley. Non c’è un unico passaggio che non metta in discussione il senso della morale, e il modo in cui gli uomini dovrebbero agire.
In un mondo in cui ai figli vengono dati nomi biblici (Ethan, Martha, Aaron, Mose), il razzismo striscia già nella piccola borghesia, quella che indossa l’abito buono per la festa; perfino la caparbia Laurie, innamorata del “quasi indiano” Martin, non sa trattenersi dal paragonare la rapita Debbie a uno scarto, ora che ha dormito fianco a fianco con dei comanche. Eppure solo nel superamento di questa eterna contrapposizione, che è quella della comunità contro ciò che al di fuori di essa si muove e prospera (in fin dei conti si è ancora fermi all’hic sunt leones), può persistere una pur labile speranza, quella del finale in cui il quadretto familiare è composto da Mose che si dondola con lo sguardo folle, dal futuro matrimonio tra Laurie e Martin e da una ragazza che ha vissuto metà della sua vita tra i pellerossa, e non può comunque essere rinnegata. Perché l’America non è solo una terra conquistata, ma è anche una terra in cui si è sempre “stranieri”. La Terra Promessa è uno dei punti fermi della poetica di Ford, ma mai come in Sentieri selvaggi si ha l’impressione di vagare per quaranta anni nel deserto, come il popolo di Israele in fuga dall’Egitto.
Il film è dominato dalla terra rossa del deserto, perché è la terra l’unica cosa che conta. In questo si trova perfino un punto di contatto, non solo superficiale, tra il Texas di Ford e la Georgia di Via col vento, altro film che cerca di trovare un senso all’America, e al suo stesso esistere, pur giungendo a conclusioni diverse da quelle di Sentieri selvaggi.
Martin ed Ethan vagano insieme, sotto la neve e il sole cocente, alla continua ricerca di notizie che possano condurli sulle tracce di Debbie, ma solo per un labile legaccio i loro percorsi possono essere considerati similari. Quello di Martin è un vero e proprio viaggio di iniziazione, un coming-of-age, un percorso di maturazione indispensabile per poter trovare il proprio posto nella civiltà. Per Ethan il discorso è ben diverso: il suo scopo non ha altro valore se non quello di esaurire la propria azione in sé, nell’atto dell’uccisione di Scar. C’è solo vendetta, senza possibilità di maturazione, o di redenzione. Martin potrà trovare una propria stabilità, nell’amore di Laurie e in una dimensione familiare che forse Ethan non ha mai neanche davvero ricercato. Ford mette in pratica la sistematica disintegrazione del personaggio di Ethan Edwards.
Per questo, nel ricongiungimento finale, non può che rimanere fuori dalla porta. La soglia per lui è un limite invalicabile, perché è un fantasma che oramai può vivere solo nel mondo esterno. Non c’è focolare, non c’è famiglia, non ci sono affetti. Gli altri possono tornare a rinchiudersi al buio, in quel ventre/bara che sarà la loro esistenza in attesa di una nazione ancora di là da venire. Ma là fuori, al sole, finalmente Ethan può cambiare la propria posa, distendendo in maniera quasi fanciullesca la gamba sinistra e tenendosi il braccio destro con il sinistro. Un omaggio all’attore Harry Carey, certo, ma anche la definitiva costruzione di un personaggio che non ha eguali nella storia del cinema western: iroso e crudele, ma carico di una fragilità tale da intenerire. Torniamo a casa, Debbie, perché c’è ancora una casa. Per te.

Info
Il trailer di Sentieri selvaggi.
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