Lo specchio della vita

Lo specchio della vita

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Nel suo commiato a Hollywood, con Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1959) Douglas Sirk elabora una grande metafora sull’arte e al contempo si congeda dagli studios con un ritratto feroce dell’America segregazionista, nonché con un quadro impietoso della società dello spettacolo.

Il funerale dell’America

New York, 1947. Lora Meredith, vedova con una bambina, Susie, incontra in spiaggia una donna di colore, Annie Johnson, a sua volta con una figlia a carico, Sarah Jane. La seconda diventa la governante della prima che, nel frattempo, intraprende la carriera di attrice teatrale e, in un decennio, arriva all’apice della popolarità. Sarah Jane subisce molte umiliazioni quando si viene a sapere essere figlia di una donna di colore. Alla fine, si ribella, scappa di casa e trova lavoro come ballerina in un locale di Hollywood. Annie, stroncata dal dolore per la fuga della figlia, muore. [sinossi]

In una spiaggia affollatissima, emblema della massificazione, vicino a un grande luna park, inizia l’ultimo film hollywoodiano di Douglas Sirk, Lo specchio della vita (Imitation of Life, 1959), che traspone l’omonimo romanzo di Fannie Hurst del 1933, già portato sullo schermo, l’anno successivo la pubblicazione, da John M. Stahl (da Stahl veniva già Magnifica ossessione come remake di un suo film). Siamo a New York, in un’ambientazione tipica sirkiana, che riprende, anche per una scritta sulle celebrazioni del Martedì Grasso, quella di Il trapezio della vita. In quel luogo si incontrano i personaggi principali del film, due signore sole con le loro figlie, e un uomo fascinoso, Steve (interpretato da John Gavin che assomiglia non poco a quel Rock Hudson feticcio del regista). Lo specchio della vita è una storia al femminile, di due donne e del loro legame, e del loro aiuto reciproco nelle rispettive traversie, di lavoro o nella crescita delle figlie. La loro amicizia è comunque viziata da un pregiudizio e un obbligo: è la donna di colore che deve essere la servitrice della donna bianca. Quando poi Lora diventerà ricca e famosa, assumerà anche un maggiordomo, ovviamente anche lui nero.

Nel suo commiato a Hollywood, già deciso prima di concepire questo film come Sirk raccontò a Jon Halliday, e nella vigilia di un cambio di decennio che vedrà poi il nascere dei movimenti di protesta degli afroamericani, l’autore confeziona un ritratto impietoso e feroce della società americana, intimamente razzista, segregazionista e classista. Un’opera scomoda proprio come teorizzato nel film, quando Lora rifiuta l’ennesima commedia commerciale per dedicarsi a un testo che il suo ex-regista bolla come controverso. Quella distruzione dell’american way of life qui non è più gentile come nella celebre definizione di Fassbinder. Sirk è feroce nel mostrare, per esempio, come sia Annie Johnson a proporsi come serva a Lora, la quale assume un atteggiamento di padrona compassionevole. La situazione di Sarah Jane è poi paradossale. Come il padre è di carnagione chiara, quindi in teoria bianca, e non vuole che si sappia che è “negra”. Il concetto di razzismo è assimilato e radicato nella stessa popolazione afroamericana. E questo si vede già nella scena in cui le bambine non vogliono la bambola di pelle scura. Sarah Jane nasconde la sua condizione, presunta, di black: lo si può venire a sapere solo se si conosce sua madre. Esemplare in tal senso la scena in cui quest’ultima entra nella sua classe per portarle ombrello e stivali, mentre cade tanta neve e tutto si tinge di bianco. L’insegnante, che sta spiegando il nome di Babbo Natale in varie lingue occidentali, già una concezione eurocentrica, inorridirà, come poi altri personaggi che conosceranno Sarah Jane, all’apprendere che questa sia figlia di una donna di colore. E, cosa più dirompente di tutte, pensare che possa essere il risultato di un matrimonio interrazziale, inconcepibile idea di meticciato. Un altro tabù che Sirk sfida riguarda la famiglia invece bianca, nel mostrare madre e figlia, Lora e Susie, innamorate dello stesso uomo, Steve, e così rivali in un rapporto di gelosia. Sirk è caustico anche nel delineare la società dello spettacolo, cui lui stesso appartiene, la scala alla celebrità, le stelle che nascono, nel mostrare, già in quell’epoca, il ricatto sessuale, fatto dall’impresario teatrale Allen Loomis, che dice a Lora che, per fare cinema come per fare teatro, si deve accondiscendere alle voglie di registi e impresari. Nonostante il rifiuto, Lora, con pelo nello stomaco, non si farà problemi a collaborare poi con Loomis. Qui Sirk inserisce anche un distinguo accettabile rispetto al sistema di molestie diffuso nel mondo dello spettacolo. Il regista rivela a Lora di innamorarsi sempre delle sue attrici. Si tratta in questo caso di una magnifica ossessione più volte avvenuta nel mondo della settima arte, di sublimazione e pulsione scopica per una figura femminile, per la quale si annulla la separazione tra vita e imitazione della vita. Lora è oggetto anche dello sguardo del desiderio di Steve. La donna è corteggiata da un fotografo e da un teatrante, dagli esponenti di due discipline che confluiscono nel cinema.

L’arte è imitazione, o specchio, della vita, il cinema è speculare al teatro e alla fotografia. Il teatrante, in origine, Sirk, l’intellettuale europeo, mette ancora una volta in scena il teatro, un mondo dello spettacolo rappresentato da Broadway e Hollywood, evidenziando di prediligere il primo. La carriera di Lora avviene tutta sul palcoscenico, dei grandi teatri. E se viene contattata per fare cinema, lo è per il cinema d’autore europeo, ingaggiata dal regista italiano Amerigo Fellucci, ovvio riferimento a Federico Fellini. Sia per lei che per Sarah Jane, il palcoscenico rappresenta la fuga dalla mediocrità della propria esistenza. Ovviamente con esiti ben diversi. La seconda approderà a squallidi e volgari spettacoli di vaudeville, non a caso in un locale di Hollywood, dal nome Moulin Rouge, nel cui ingresso troneggia una statua del tutto simile a quella dell’Oscar. Hollywood è un postribolo. Il conflitto tra le due forme di rappresentazione/imitazione avviene anche nel provino di Lora con Loomis: lei millanta di essere un’attrice cinematografica che vorrebbe fare del teatro quasi come allenamento, denunciando la vulgata della superiorità del cinema rispetto al teatro, di Hollywood rispetto a Broadway. E il teatro ha il privilegio della reciprocità con lo spettatore: Sarah Jane assume un’espressione innervosita quando, sul palcoscenico, vede la madre entrare in sala. Da Hollywood Sirk esalta il mondo del palcoscenico dal vivo rispetto alla pellicola. Ancora una volta intertestuale, trae un film dalla letteratura americana, da un romanzo già diventato cinema, per arrivare al teatro. Si parla due volte di Tennessee Williams, di cui si annuncia un nuovo e memorabile spettacolo. Visto che Sirk ha postdatato al 1947, rispetto al romanzo e al primo adattamento, l’inizio della vicenda, che poi si sviluppa nell’arco di un decennio, è probabile che sia un’allusione a Un tram che si chiama desiderio. E nella cameretta di Susie, su un comò compare una sorta di zoo di vetro. Il personaggio della ragazza appare fragile e insicura allo stesso modo di Laura, protagonista della famosa pièce.

I rapporti di specularità tra vita e arte, cinema, teatro e fotografia, imitazioni della vita, si moltiplicano e si aggrovigliano, nelle immagini oltre che nel testo. Lora fa l’attrice anche nella vita, per due volte viene smascherata in tal senso, quando si spaccia quale interprete hollywoodiana nel provino, e quando promette a Susie che non si sarebbe più vista con Steve e la figlia, in replica, la invita a smettere di recitare. A recitare è anche Sarah Jane nel ruolo di bianca come si è detto. Vari interni del film sono tappezzati di quadretti fotografici alle pareti, spesso a soggetto artistico, ritratti di divi piuttosto che scene di danza come quelle che campeggiano, numerosissime, nel locale in cui vanno Lora e Steve. Steve è un fotografo, il cui ruolo iniziale è quello di replicare, in bianco e nero, le immagini del film, imitazione del cinema, come lo scherzo delle bambine sulla spiaggia. L’uomo devolverà la sua arte nel mondo della pubblicità, altra dimensione dell’America sintetica e commerciale che Sirk ha sempre ritratto. Le pareti degli interni sono come superfici di esposizioni di quadri secondari, riempite di fotografie, dipinti, finestre e ovviamente specchi. Di foto dello spettacolo è piena anche l’anticamera dell’agenzia di Loomis ma, giunti nel suo ufficio privato, come in un crescendo aristocratico, i quadretti fotografici sono sostituiti da dipinti. Piena di dipinti anche la casa lussuriosa di Lora, ancora un capolavoro scenografico nel cinema di Sirk, dominata ancora una volta da una grande scalinata. E una grande vetrata finestra si apre sull’esterno, come una scenografia, rimandando a quella dello studio fotografico che dava su un treno, e ovviamente alla grande vetrata con cervo di Secondo amore. Sirk aggiunge anche una finestra ad arco che ritaglia un’immagine espressionista, le ombre inquietanti di qualcuno che sale delle scale. E poi ci sono gli specchi: uno riflette Lora che studia il copione, imitazione dell’imitazione, uno è nel suo camerino, uno è quello che comprende Sarah Jane con la madre, interrogato dalla prima, come lo “specchio delle mie brame”, sul suo essere bianca; un ulteriore guarda alla scena di gelosia tra madre e figlia. La superficie di una vetrina di un bar da affittare riflette invece la scena della rivelazione del fidanzato di Sarah Jane che la picchia avendo scoperto che è di origine afroamericana. Uno specchio e insieme un ritratto, due quadri secondari, ripetono l’immagine di Lora mentre apprende, per la prima volta, che la sua governante ha molti amici nelle congregazioni religiose, momento che si ricollega al finale del film, al funerale della donna di colore. Un funerale solenne, al suono dei gospel, straziante e intensissimo, il commiato di Sirk a Hollywood, il funerale dell’America.

Info
Lo specchio della vita, il trailer.

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