Magnifica ossessione

Magnifica ossessione

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Mirabile intreccio fra l’alto della mitologia di Alcesti e di Edipo, ma anche della cecità di Tiresia, con il basso dei fotoromanzi rosa e delle soap opera radiofoniche del tempo, Magnifica ossessione è il primo melodramma a colori di Douglas Sirk nell’età dell’oro Universal, realizzato nel 1954 riadattando l’omonimo romanzo del pastore luterano Lloyd C. Douglas già portato sullo schermo nel ’35 da John M. Stahl. Il risultato è un film dalla trama meravigliosamente implausibile eppure semplicemente perfetto per emotività e messinscena, un capolavoro fra i più conclamati dell’autore intriso di sentimenti e di sensi di colpa, di specularità e di redenzioni, di impossibilità (mediche) che diventano puro miracolo (del cinema). Ma soprattutto di mere comparse che, attraverso un percorso umano, morale e spirituale, assurgono finalmente a nuovo regista (della vita). Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

Let me be your eyes again

Nel 1948, il comportamento sconsiderato del playboy viziato Bob Merrick gli fa perdere il controllo del suo motoscafo. I soccorritori chiamano il rianimatore più vicino, situato nella casa del dottor Phillips dall’altra parte del lago. Mentre il rianimatore viene utilizzato per salvare Merrick, Phillips subisce un attacco di cuore e muore. Merrick, che una volta era stato uno studente di medicina ma ha abbandonato gli studi, finisce come paziente nella clinica di Phillips, dove ben presto scoprirà di avere inavvertitamente causato la morte di un amatissimo e generoso filantropo. Fuggito via dalla clinica, fa il cascamorto proprio con Helen Phillips, la vedova del dottore, salvo poi crollare davanti alla sua auto una volta scoperta la sua identità. Dopo le dimissioni, Merrick lascia una festa ubriaco. Fugge in strada e finisce a casa del pittore Edward Randolph, che gli spiega la convinzione che ha alimentato la sua arte e il successo del dottor Phillips: aiutare gli altri in segreto e senza voler nulla in cambio. Merrick decide di provare questa nuova filosofia. Il suo primo tentativo fa sì che Helen si metta sulla traiettoria di un’auto mentre cerca di scappare dalle sue avances, rimanendo cieca. Merrick si impegna seriamente a diventare un medico, cercando di portare avanti l’eredità del dottor Phillips. Si è anche innamorato di Helen e la aiuta ad adattarsi alla sua cecità fingendo di essere un povero studente di medicina, Robby. Merrick organizza segretamente un viaggio di Helen in Europa per consultare i migliori oculisti del mondo. Dopo test approfonditi, questi chirurghi dicono a Helen che non c’è speranza di guarigione. Subito dopo, Robby si presenta al suo hotel per fornire supporto emotivo e scopre che Helen ha già intuito la sua vera identità. Merrick chiede a Helen di sposarlo. Più tardi quella notte, Helen si rende conto che sarebbe un peso per lui e scappa. Passano molti anni e Merrick è ora un neurochirurgo brillante e di successo, che continua segretamente i suoi atti filantropici e che non ha mai smesso di cercare Helen. Una sera, Randolph arriva con la notizia che Helen è molto malata, forse morente, in un piccolo ospedale del sud-ovest. Merrick arriva e scopre che Helen ha bisogno di un complesso intervento chirurgico al cervello per salvarle la vita, ed esegue questa operazione. Dopo una lunga notte in attesa dei risultati, Helen si sveglia, scopre di poter vedere e si riunisce con Merrick. [sinossi]

Basterebbe forse il diverso incipit, per marcare la distanza siderale fra il Magnifica ossessione realizzato nel 1954 da Douglas Sirk e l’omonimo film (nell’originale inglese Magnificent Obsession, mentre il titolo italiano era Al di là delle tenebre) che già nel ’35 John M. Stahl aveva tratto dal medesimo romanzo del pastore luterano Lloyd Cassel Douglas. Non solo per il formato panoramico e il fulgido Technicolor del remake con cui Sirk, nel suo primo melodramma a colori, riscriveva i bianchi e neri in 4/3 di diciannove anni prima in contrasti e chiaroscuri cromatici totalmente nuovi e ancora oggi semplicemente strabilianti nella loro potenza espressiva, e nemmeno solo per lo spostamento della vicenda al più vicino 1948, con più d’una stoccata a una società capitalistica ipocrita e superficiale che credeva di poter ripagare qualsiasi torto semplicemente staccando un assegno, e che non certo per caso due anni dopo in Come le foglie al vento diventerà, coerentemente, la vera e propria metafora con cui decostruire (gentilmente, come farà notare Rainer Werner Fassbinder, ma non per questo meno pezzo per pezzo) il mito e le convenzioni borghesi più radicate d’America. Il primo e principale punto di rottura è semmai nella scelta di Sirk di partire con un sostanziale controcampo del film originale, in cui l’incidente in motoscafo del ricco e viziato spaccone Bobby Merrick che provocherà inavvertitamente la morte del dottore (che qui torna a chiamarsi Phillips, come nel libro, dopo essere stato trasformato in Hudson nel primo adattamento), togliendogli il respiratore proprio nel momento del bisogno, non è più un evento che arriva dal fuori campo a sconvolgere improvvisamente la famiglia del medico e benefattore, ma è esattamente all’opposto quello che, nella maniera più spettacolare possibile, viene mostrato sullo schermo. Dove nel film di Stahl c’erano il placido arrivo del piroscafo e il ritorno a casa felici delle donne, rispettivamente moglie e figlia, che di lì a poco avrebbero scoperto la tragedia che le aveva colpite, c’è qui una sequenza d’apertura muscolare, di pura azione, che vede Rock Hudson, al tempo ventinovenne e alla terza di otto collaborazioni con l’iperprolifico Sirk, intento a inanellare record di velocità guidando sul pelo dell’acqua. Come a segnare sin da subito un contrasto fra la superficie calma del lago e la colonna di spruzzi alzati dal motoscafo, il conflitto fra l’uomo e la Natura, la prima aperta sfida all’impossibile, e di certo il costo salato del conseguente primo piccolo miracolo messo in scena da Sirk, con il salvataggio del protagonista ma al prezzo della vita di un altro uomo, a detta di tutti di gran lunga migliore di lui.

Del resto, ben al di là dei τὸποι più tipici del melodramma, ingredienti che di certo non mancano fra l’incidente catastrofico e l’innamoramento contrapposto all’odio, l’infermità e il senso di colpa, le false identità e la ricerca di riscatto, il biglietto d’addio e i reciproci sacrifici, la specularità dei personaggi e i loro percorsi di formazione, gli incontri per pura coincidenza e i fraintendimenti senza i quali non potrebbero evolversi i rapporti umani, è proprio la ricerca dell’evento miracoloso il punto cardinale di Magnifica ossessione. Un miracolo che, sin dal romanzo originario, parte evidentemente dalla concezione cristiana, ma che si espande, si stratifica, si innerva di mille possibili sensi e metafore fino a diventare un ideale, un archetipo, una pura utopia, il raggiungimento dell’impossibile. O forse proprio il cinema, ciò che tutto può immaginare e che tutto può creare, ciò che tutto può fingere e che a tutto può far credere: una passione sconfinata e insieme un patto non scritto fra le immagini e lo spettatore, la magnifica ossessione tanto di chi lo fa quanto di chi lo guarda, tanto di chi lo pensa quanto di chi lo sogna. È per questo che, già nel 1985, enrico ghezzi (con le minuscole, come ama farsi chiamare) aveva avuto l’intuizione di intitolare la maratona cinematografica Rai per festeggiare i novant’anni delle immagini in movimento proprio La magnifica ossessione, ora ri-declinato in Magnifiche ossessioni per accompagnare la rassegna Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959 in corso al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Ed è sempre per questa sostanziale coincidenza mistica fra chiodo fisso, miracolo e cinema che è così affascinante e anzi in qualche modo teoricamente necessario che la trama di Magnifica ossessione risulti così meravigliosamente implausibile, con le sue soluzioni narrative (in testa l’incidente con cui Merrick provocherà la cecità dell’amata, in fuga dalle sue avances fino a essere travolta da una macchina, ma anche il suo poco credibile atto di fingersi un altro pur di riavvicinarla ingannando la sua invalidità) consapevolmente forzate e melense, mutuate dal basso dei (foto)romanzetti rosa d’appendice e dalle prime soap opera radiofoniche (al tempo sulla CBS andava fortissimo l’allora audiodramma The Guilding Light, che in Italia conosceremo per interi decenni nel primo pomeriggio televisivo come Sentieri), e con i suoi sentimenti che deflagrano (im)possibili e inarrestabili senza essere corroborati da apparenti motivazioni: serve partire dall’irrealizzabile, perché possa scattare l’evento prodigioso; serve allontanarsi dalle prassi della realtà, per poterla riscrivere attraverso la poesia. Serve la consapevolezza di essere in un film, in un immaginario, in un sogno, su uno schermo, per poter vivere fino in fondo il dolcissimo delirio del proprio amour fou. Serve lambire consapevolmente gli abissi del kitsch, per poter scorgere e poi raggiungere le vette del sublime.

Non è un caso in tal senso che giunga quasi apertamente al puro (meta)cinema, Magnifica ossessione. Con la figura-chiave del pittore Edward Randolph, discepolo della filosofia di Phillips ma soprattutto sostanziale demiurgo-regista che prenderà il protagonista immaturo e arrogante e, attraverso un insegnamento di vita, lo trasformerà a sua volta in un altro demiurgo, non più un mero attore ma finalmente a sua volta un regista, un creatore in grado di intervenire per aggiustare chirurgicamente la propria e le altrui esistenze. Al punto che, nel prefinale in sala operatoria, Douglas Sirk innalzerà la decisiva apparizione del deus ex-machina Randolph, pronto a ridare consapevolezza a un impaurito Bobby Merrick nel momento dell’operazione attesa da tutta la vita, dal vetro ad altezza occhi della porta del film di Stahl fino all’ampio lucernario dal quale sovrapporre, come in uno specchio, il suo sguardo a quello di Dio. Un ritorno allo stesso sguardo cristiano del romanzo di partenza, in cui il magnifico insegnamento filosofico di altruismo e beneficienza silenziosa sul quale basare ossessivamente la propria vita nient’altro è che una differente declinazione di “Ama il prossimo tuo come te stesso”, un invito a fare disinteressatamente del bene come via spirituale per il benessere proprio e collettivo. Eppure, nonostante i violini e l’Inno alla gioia che sottolineano la profondità del miracolo e della redenzione, e ben al di là dello schema colpa-espiazione-riscatto, a Douglas Sirk interessava solo relativamente l’aspetto religioso dell’opera di partenza. Tanto che all’inserimento di possibili simbolismi sacri preferisce di gran lunga sottolineare i riferimenti al teatro shakespeariano (Romeo e Giulietta, che in qualche modo riecheggiano nell’odio familiare che monta nei confronti dell’innamorato Merrick) ma soprattutto alla mitologia classica, rimettendo in scena in una sorta di percorso circolare quello stesso amore puro che già aveva portato Alcesti a sacrificare senza esitazione la propria vita per l’adorato Admeto, fino a quando la disperazione del marito spingerà gli dei, per intercessione di Eracle, a far ritornare la donna dall’Ade (che poi a ben vedere e non certo per caso nient’altro è che il buio, lo stesso della cecità di Helen: una cecità che a sua volta già dai tempi dell’indovino Tiresia è metafora del saper vedere oltre, e che ritorna nell’innamorarsi di quella che fu la propria nemesi al punto di sacrificare il proprio amore pur di non essergli d’ostacolo). E poi, a latere, il mito di Edipo, che si rispecchia nella visibile differenza d’età fra i due protagonisti, con la Helen moglie del dottore in qualche modo “ucciso” dal futuro spasimante della sua sposa affidata a una Jane Wyman visibilmente più matura sia di Irene Dunne che aveva il suo stesso ruolo nella versione cinematografica del ’35, in cui Helen era amica in sostanza coetanea della figlia di primo letto del marito, sia dell’aitante Rock Hudson che, dopo averla resa prima vedova e poi cieca, la corteggia, la aiuta, la sostiene, la fa innamorare, la perde, la ritrova e la guarisce.

Una coppia che, con i suoi otto anni di differenza, si ricomporrà sullo schermo l’anno successivo in Secondo amore, altro irraggiungibile capolavoro sirkiano, mentre Rock Hudson, definitivamente consacrato da questo film nell’Olimpo dello star system hollywoodiano e da qui in poi quasi rigorosamente impegnato in ruoli di donnaioli seriali così lontani dall’omosessualità che per tutta la vita ha dissimulato dentro e fuori dai set, diventerà sempre più attore feticcio dell’autore fuggito dalla Germania nazista per specializzarsi (non solo) nel melodramma, partecipando, fra gli altri, anche a Come le foglie al vento e Il trapezio della vita. Qui, come spesso accade nel suo cinema, Douglas Sirk immerge più volte la coppia di protagonisti nella Natura, ora per creare, come si diceva in apertura, un contrasto fra le forzature della società moderna e l’ordine naturale del mondo, e ora esattamente all’opposto per annullare le distanze, e anzi per riportare in primo piano l’umanità e la purezza del sentimento, in barba a tutto ciò che, per differenza di età e per i ruoli di vedova cieca e di uomo inavvertitamente causa di entrambe le sue tragedie, sarebbe imposto dalla prassi borghese e dal puritanesimo di facciata. Dal già citato incipit sul lago alle premure di pentimento che diventano prima una tenera amicizia e poi un reciproco innamorarsi su una spiaggia che solo uno dei due può vedere, dai rami posticci ed apparentemente irraggiungibili dei fondali dietro alle finestre a Randolph che può finalmente allontanarsi soddisfatto verso il parco e una nuova estate quando gli occhi di Helen, operata dall’amato, torneranno per la prima volta a intravvedere la luce. Senza più alcun impedimento a celebrare l’impeto di un amore capace di farsi largo nell’imperturbabilità simmetrica e soffocante delle architetture così come nelle opposte convenzioni sociali, negli arredi spogli in cui muoversi al buio a tentoni così come nelle diatribe familiari, nelle tonalità fredde delle stanze d’ospedale così come nella necessità di cambiare per lei, e di sposare fino in fondo una filosofia in base alla quale riconsiderare totalmente la propria vita e la propria morale, la propria umanità e la propria disponibilità nei confronti del prossimo. Emozioni che Douglas Sirk maneggia e orchestra a piacimento, con straordinaria maestria, come se fossero una sequenza di note su uno spartito con cui letteralmente trascinare lo spettatore in un vortice di sentimenti e di variazioni sul tema, di passione e di malinconia, di ansia e di desiderio, di sorrisi e di strazi. Di flebili illuminazioni laterali nella notte e della luce del sole che irrompe all’improvviso dalle finestre. Fino a farlo in qualche modo ritornare a vedere, lo spettatore, insieme alla protagonista. Vedere, sullo schermo, l’impossibile (medico) che diventa possibile, anzi vero e proprio miracolo (del cinema) come sublimazione dell’inconscio e del desiderio. E così ritornare ancora una volta a credere, fino in fondo, anche a ciò che sembra più irrealizzabile, assurdo, illogico, utopistico, magnifico. L’eterna urgenza di (ri)aprire e strabuzzare gli occhi di fronte alla forza espressiva del cinema. L’ossessione con cui smettere di essere ciechi di fronte al mondo. La verità (nel mentire) ventiquattro volte al secondo.

Info
Magnifica ossessione, il trailer.

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