L’anarchico Tommasini e il Duce
Apertura ieri sera a Trieste della 14esima edizione del festival I Mille Occhi con due filmati rari: la visita di Mussolini nel ’38 nel capoluogo giuliano e la preziosa intervista a Umberto Tommasini, anarchico triestino che ha attraversato la storia del Novecento.
Trieste come crocevia della storia italiana del Novecento. Ce lo ha confermato l’apertura ieri sera della 14esima edizione del festival I Mille Occhi dedicata per l’appunto al capoluogo giuliano con la proiezione di due filmati rari: la registrazione della visita che Mussolini fece in città nel 1938 e una lunga intervista a Umberto Tommasini, anarchico triestino che ha viaggiato e lottato in lungo e largo nel corso del secolo passato a partire dalla guerra civile spagnola.
Il Duce a Trieste è nettamente diviso in due parti, la prima con un comizio di Mussolini in Piazza Unità d’Italia di fronte ad una folla oceanica, la seconda con la visita nei vari cantieri della città. Ed è soprattutto la prima a risultare più interessante, sia perché per la prima volta Mussolini annunciava la terribile svolta delle leggi razziali (e si riconosce in quei momenti qualche esitazione nel plauso della folla), sia perché si vede una piazza piena in ogni ordine di posti.
E, al di là per l’appunto del ruolo storico di Trieste che viene ricondotto e falsificato da Mussolini nel suo comizio come un unico filo ininterrotto che parte dall’irredentismo e arriva fino al fascismo, il vero orizzonte estetico attraverso cui analizzare questo reperto propagandistico è quello di andarsi a scovare quei punti in cui si ‘smaglia’ l’ideologia. E ciò avviene soprattutto per via di una modalità di ripresa inusuale rispetto a quel che siamo abituati a vedere nei repertori dell’Istituto Luce (pur essendo stato prodotto anche questo filmato dall’organo ufficiale fascista): vale a dire che non vi sono solo i classici giochi di campo (il Duce che gesticola dal balcone di turno e che viene ripreso dal basso per incutere timore e rispetto) e di controcampo (i campi lunghissimi con la folla che si sbraccia esultante), ma vi si possono rintracciare anche delle curiose vie di mezzo, in particolare delle inquadrature più strette sulla folla. E allora, finalmente, è possibile riconoscere dei volti: volti di contadini e di operai che indossano le camicie nere quasi come se si trattasse di un vestito da festa. Volti da cui traspare la povertà di un popolo e attraverso cui ci si rivela dunque come la forza bruta (nel senso di primitiva) dell’immagine, di una qualsiasi immagine, arrivi sempre a scardinare le sovrastrutture dell’ideologia. Il cinema del resto è sempre più forte della storia, come ci ha insegnato Tarantino nel finale di Bastardi senza gloria.
Altro discorso, ovviamente opposto, per il secondo filmato che è stato mostrato ieri sera, Vivere da anarchici. Umberto Tommasini: intervista sulla rivoluzione spagnola, diretto nel 1976 da Paolo Gobetti, figlio di Piero e per anni presidente dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino.
In un bianco e nero un po’ sfatto e slavato, tipico della registrazione su nastro di quegli anni, Tommasini rievoca con foga, ironia e sagacia la sua vita in lotta, dalla Prima Guerra Mondiale all’esilio in Francia durante il fascismo passando per la guerra civile spagnola, quando avvenne la tragica rottura tra i comunisti (“stalinizzati”) e il resto delle formazioni anti-fasciste. Ed è qui che Tommasini si infervora particolarmente, di fronte allo scetticismo di uno degli intervistatori che, in qualche modo, cerca di giustificare la condotta comunista in quel cruciale momento storico. Un Tommasini dotato di una favella incontrollata e che vince sempre incontrastata e sovrastante nei confronti dei suoi interlocutori, rotta evidentemente a una vita intensa di dibattiti e discussioni politiche. Un Tommasini che però è stato tutt’altro che un intellettuale chiuso in un mondo di lettere – anzi, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, una volta tornato a Trieste ricominciò a fare il suo lavoro di sempre, il fabbro – e che dunque deve il suo rigore morale e politico a un’esperienza ininterrotta di lotte e a un’educazione tipicamente operaia. Un tipo di figura purtroppo inimmaginabile nel mondo odierno e che il Novecento ha portato forse per sempre via con sé, insieme a tutte le grandi tragedie che lo hanno attraversato.