Intervista a Giorgio Ferrero
I pozzi di petrolio, una nave cargo, la camera anecoica, un termovalorizzatore. Sono i luoghi dis-umanizzanti in cui Giorgio Ferrero ha ambientato Beautiful Things, tra i migliori titoli della scorsa edizione di Venezia. Lo abbiamo intervistato per parlare del processo di realizzazione del film e delle ambiziose – e riuscite – soluzioni stilistiche adottate.
Comincerei dal fatto che Beautiful Things era in selezione in Biennale College alla scorsa edizione di Venezia, una sezione non competitiva e in fin dei conti secondaria. L’ho trovato un po’ limitante, visto che ad esempio mi sembra che il tuo film fosse perfetto per una sezione come Orizzonti. Non vorrei metterti in difficoltà, ma secondo te non si poteva trovare una soluzione migliore?
Giorgio Ferrero: Beh, no, impossibile. Essendo proprio prodotto dalla Biennale, non può succedere quello che succede ad esempio per altri festival, come Berlino, che ha un incubatore per sviluppare progetti, ma concretamente non produce. Con la Biennale le cose vanno così: tu vinci il bando di produzione – che è anche e soprattutto un workshop di sviluppo -, hai accesso a 150mila euro e l’unica cosa che devi dare in cambio è la prima mondiale a Venezia. Certo, sarebbe stato ancora più bello essere al Lido in concorso, ma allo stesso tempo abbiamo avuto l’opportunità di fare un film che altrimenti non avremmo potuto fare in alcun modo in così poco tempo e con un budget così basso, oltretutto lavorando con tutor di caratura internazionale, e per un’opera prima non è cosa da poco. Quindi sono molto contento.
In quanto tempo l’avete fatto?
Giorgio Ferrero: Il progetto è iniziato tanto tempo prima, ma l’idea di lungometraggio così come l’hai visto è molto recente. In prima battuta avevamo in mente una serie di cortometraggi, una specie di serie, poi diversi autori e operatori del settore a noi vicini ci hanno spinto a pensare a un lungometraggio, in primis anche Paolo Manera, il direttore della Film Commission di Torino. Così ho deciso di scrivere il primo progetto e l’ho mandato a Tommaso Bertani della Ring Film, co-produttore del cortometraggio precedente che avevamo prodotto e realizzato con il nostro studio, Riverbero. Ed è stato lui a suggerirmi di provare con Biennale College. È accaduto tutto molto in fretta. Biennale College è l’unico bando di produzione a cui abbiamo partecipato, il primo tentativo… Ho scritto la prima scaletta del film a settembre, a ottobre abbiamo fatto il primo workshop con i dodici finalisti internazionali. A novembre è nata la prima sceneggiatura. Nominati i tre vincitori, a dicembre e gennaio siamo tornati a Venezia per il secondo e il terzo workshop. A febbraio eravamo in camera anecoica a girare le prime immagini. Abbiamo finito le riprese all’inizio di giugno, abbiamo montato in un mese e fatto la post-produzione nelle prime due settimane di agosto. Le musiche invece ho iniziato a scriverle subito, nel corso del secondo workshop a dicembre a Venezia. Ho appuntato le musiche della prima parte, quella di Petrolio allestendo un piccolo studio nella camera di San Servolo dove dormivamo. Ogni volta che tornavamo in studio tra una ripresa e l’altra io e Rodolfo Mongitore ci mettevamo al lavoro sulla partitura le musiche prendevano vita.
Ma sei veramente riuscito a farlo con soli 150mila euro?
Giorgio Ferrero: Sì
E come avete fatto?
Giorgio Ferrero: Eh, abbiamo fatto il film in cinque…
Ma i vari viaggi che ci sono nel film? Ricordiamo che Beautiful Things è diviso in quattro capitoli: il primo tra i pozzi di petrolio del Texas, il secondo su una nave-cargo sull’oceano, il terzo in una camera anecoica (che poi spiegheremo cos’è), il quarto ed ultimo in un termovalorizzatore in Svizzera. Attraverso questi quattro tempi viene raccontata la nascita e la morte degli oggetti, con un protagonista per ciascun episodio. Quindi, come hai fatto a contenere le spese di un progetto così ambizioso e anche così impegnativo dal punto di vista produttivo?
Giorgio Ferrero: Ci sono due cose da dire: la prima è che io e il direttore della fotografia e co-regista di Beautiful Things, Federico Biasin, abbiamo uno studio multidisciplinare che si occupa di diverse attività a Torino, sia in ambito commerciale che artistico, per cui il video è stato girato, prodotto, post-prodotto, mixato in casa nostra, il che vuol dire un abbattimento di costi altissimo. Il nostro studio si chiama Mybosswas. Poi, sono diversi anni che mi occupo di colonne sonore, ho lavorato tra gli altri per Daniele Gaglianone, i gemelli De Serio e Alba Rohrwacher. Sono prima di tutto un musicista, come si può immaginare vedendo il film e sono già stato a Venezia credo quattro-cinque volte come autore e produttore di musiche o di suoni per film, sempre per i De Serio ma anche con Irene Dionisio per Le ultime cose. D’altronde quasi metà film è stato girato con la nostra camera. L’altra cosa da dire è che inizialmente il film aveva un budget più alto proprio perché, volendo assolutamente girare nei posti che hai citato, avevamo previsto delle difficoltà di organizzazione e di location. Ci sembravano inarrivabili. Al contrario, proprio grazie alla Biennale, abbiamo avuto la possibilità di accedere a dei luoghi come ad esempio i pozzi in Texas che sono, non dico impossibili, ma quasi da raggiungere. Quella dei pozzi è una location impensabile per dei budget europei, mentre se sei una produzione americana ci riesci ma ti chiedono un sacco di soldi. Avendo la Biennale alle spalle invece è stato tutto molto più semplice. Loro ci hanno scritto una lettera di presentazione in modo tale da facilitare il dialogo con i partner. Siamo andati con questa lettera nella città di Odessa in Texas per farci indirizzare sui pozzi di petrolio, dalla Grimaldi Lines per avere il cargo, dall’università di Ferrara e alla Db Technologies proprietari delle camere anecoiche, dai responsabili del termovalorizzatore in Svizzera e gli abbiamo detto: “Abbiamo questa idea, alle nostre spalle c’è la Biennale di Venezia. Non è un film che nasce con uno spirito commerciale, è un progetto artistico, anche se comunque speriamo che in seguito abbia una vita commerciale. Siete interessati a partecipare come partner?” E hanno accettato. Se ci fossimo presentati con dei produttori indipendenti, sarebbe stato tutto molto più difficile. Basti dire che girare nei termovalorizzatori è quasi un’impresa, ci sono mille problematiche, timori di ogni genere, oltre ad essere un posto estremamente pericoloso. Quindi, grazie alla Biennale e al suo prestigio e importanza a livello internazionale, ci siamo riusciti.
Beh, questo è stato un vantaggio non da poco.
Giorgio Ferrero: Sì, infatti. Anche per questo sono molto contento di aver avuto la Biennale come produttore. È vero che abbiamo avuto pochi soldi, però abbiamo avuto la possibilità di fare Beautiful Things esattamente come volevamo, confrontandoci con altissime professionalità del settore che ci hanno dato fiducia e una spinta incredibile ad andare oltre i nostri limiti, e siamo riusciti ad arrivare a questi luoghi che, prima della Biennale, eravamo ben lontani dall’approcciare. E, anzi, ci stavamo girando attorno.
Quindi avevate già identificato le location?
Giorgio Ferrero: Sì e no. Inizialmente avevo fatto un sopralluogo in California, perché mi trovavo lì per altri motivi, e volevo girare lì la prima parte, quella del petrolio. Poi durante i workshop organizzati dalla Biennale – la cosa bella di questi workshop è che si lavora con moltissimi tutor americani e, se hai un film come il nostro che ha a che fare in parte con gli Stati Uniti, sei facilitato – questi tutor, insomma, ci hanno indirizzato piuttosto verso il Texas, dandoci il contatto della Film Commission locale. E da lì ci hanno indirizzato alla città di Odessa, che proprio in quel momento stava promuovendo una sorta di attività culturale legata ai pozzi di petrolio. Quindi c’è stata per noi anche una circostanza fortunata. Perciò alla fine abbiamo girato nel bacino Permiano, il bacino di estrazione del petrolio più grande degli Stati Uniti, il posto perfetto per dare al pubblico l’idea dell’essenza e del luogo paradigmatico legato al petrolio. E poi a Odessa finisce la nuova serie di Twin Peaks, che io non ho ancora visto, ma quando Federico lo ha saputo è andato fuori di testa. David Lynch ha avuto una certa importanza nella nostra vita.
Invece veniamo alla camera anecoica, che è un luogo straordinariamente suggestivo, fatto di questo biancore assoluto delle pareti. È questo il cuore della terza parte di Beautiful Things. Puoi descriverci cos’è la camera anecoica?
Giorgio Ferrero: Sono camere costruite su strutture in cemento completamente isolate dall’esterno e rivestite con cunei di materiale fonoassorbente lunghi anche qualche metro su tutte le le pareti, soffitto e pavimento, con la finalità di annullare qualsiasi eco e riverbero. Io chiaramente da musicista conoscevo già da tempo l’esistenza della camera anecoica. E poi conoscevo da tempo anche Andrea Pavoni Belli, il protagonista di questa sezione del film, che era già protagonista del nostro corto Riverbero, ed è stato il primo esperimento filmico che ci ha poi portato a girare il lungo. Riverbero l’abbiamo girato nel 2012 e presentato nella sezione Cinemaxxi al Festival di Roma, poi a Glasgow e a Brooklyn.
Ah, al Festival di Roma quando c’era Marco Müller?
Giorgio Ferrero: Sì, esatto. È un cortometraggio completamente ‘estetico’ e musicale ed è girato in una camera riverberante, l’esatto contrario della camera anecoica dove per l’appunto non c’è eco. Quindi siamo partiti da lì. E, nella fase iniziale della scrittura del film, io volevo girare di nuovo nella camera riverberante proprio perché c’era il precedente del corto preparatorio. Ma ad un certo punto mi sono reso conto che, anche se la camera anecoica era più difficile da rendere da un punto di vista estetico perché vi è una totale assenza, allo stesso tempo poteva essere più interessante dal punto di vista della carica emotiva e di disagio che è in grado di trasmettere. E quindi ho introdotto questa modifica. Come dicevo, Andrea era l’unico dei quattro personaggi che conoscevo già, perché era stato docente in una scuola dove avevo fatto un master di musica. E lui è sempre stato un punto fisso del progetto. Questo anche perché, mentre le altre parti del film potevano essere più assiomatiche, perché tutti sanno che col petrolio si fa la plastica, che gli oggetti una volta imballati vengono trasportati in giro per il mondo, che vengono bruciati dopo che li buttiamo, quasi nessuno sa che se io mi compro una lavastoviglie per poterla mettere in commercio deve avere, per legge, un passaggio scientifico di quel tipo, deve essere testata nella camera anecoica. Quindi, è quello il risvolto più inaspettato, che però è fondamentale come gli altri. Abbiamo girato nella camera anecoica dell’università di Ferrara perché è in assoluto la più bella d’Europa, la più grande. Invece abbiamo scelto una piccola azienda di diffusori sonori di Bologna per averne una più piccola. Ne volevo due – anche se poi in realtà sono diventate tre – proprio per far capire quanto siano numerose, ma anche per dare conto di come – quando ci si trova là dentro – la sensazione di oppressione sia enormemente variabile in base all’architettura e alle dimensioni della stanza. Quella in cui Andrea è inginocchiato è piccolissima e ci restituisce un’immagine potente; sembra una bara totalmente bianca. Quella grande invece sembra una cattedrale, ha un aspetto di grandeur che potrebbe far pensare alla Nasa.
Che poi è un percorso di vita e di morte quello che fanno gli oggetti in Beautiful Things…
Giorgio Ferrero: Sì, lo è.
…dal petrolio che è il sangue della terra e che viene ricavato in un modo così brutale, passando per il viaggio nell’acqua sulla nave cargo del secondo capitolo – acqua che ha anch’essa, ovviamente, un portato simbolico -, quindi il test di funzionalità della terza parte e infine la morte nell’ultima sezione, quella del termovalorizzatore.
Giorgio Ferrero: Sì, l’idea era proprio quella di un ciclo vitale. Che d’altronde scorre in parallelo con l’altro ciclo vitale, quello della coppia, della loro solitudine, fino ad arrivare al balletto finale…
…che trovo straordinario. Un momento musical in piano-sequenza che è sbalorditivo per precisione e per esuberanza dei materiali – visivi, umani, di regia, ecc.
Giorgio Ferrero: Grazie…
…Ma, prima di parlare del balletto, volevo soffermarmi ora proprio sulle modalità con cui i quattro capitoli comunicano con l’altra linea, quella ‘umana’ per così dire, della ‘vita’ e della ‘morte’ di una coppia. E si tratta di una linea che attraversa trasversalmente i quattro capitoli. Si comincia con la camera di un bambino, poi quella di una studentessa universitaria, quindi vediamo una coppia che ha un figlio, quella stessa coppia che si allontana e che si chiude nel silenzio, poi il giocattolo che si era visto nella stanza del bambino viene bruciato nel termovalorizzatore insieme a mille altri oggetti. E, infine, l’apoteosi conclusiva: il visionario, irrealistico – e direi anche iperrealistico – balletto nel centro commerciale, esplosione gioiosa quasi a significare un ottimismo della volontà. Beh, vengo alla domanda: come hai armonizzato la linea ‘umana’ con il resto? E non credi di aver rischiato delle ridondanze, come ad esempio quando Andrea nella camera anecoica parla di silenzio e poco dopo vediamo la coppia chiusa nel silenzio e nell’incomunicabilità?
Giorgio Ferrero: Mah, no. Perché quello è per me il vero momento documentaristico, è la mia vita. Quel tipo di situazione è proprio il punto di partenza di Beautiful Things. È la conseguenza di una consapevolezza: il momento in cui, a trentacinque, quarant’anni, ti guardi indietro e hai un senso di vuoto. È una fase della vita in cui non ti piace più nulla e ti trovi a vivere una sorta di trapasso da una fase esistenziale a un’altra. È qualcosa di profondamente distonico e inquietante. E io avevo voglia di rappresentarlo, così come avevo voglia di rappresentare quel finale con il balletto perché per me vuole essere il segno della ricerca di una libertà estrema. Una specie di auto-analisi e, insieme, una nota di speranza. Vorrei riuscire a vivere con quella leggerezza lì.
Una leggerezza che però si vive pur sempre all’interno di un centro commerciale, e dunque l’apoteosi del neo-capitalismo…
Giorgio Ferrero: È un po’ come per suggerire che gli oggetti sono fondamentali, però bisogna trovare un equilibrio. E l’idea di ballare in un centro commerciale chiuso e spento non volevo che restituisse una sensazione di aggressività, ma che fosse una sorta di risoluzione, come per dire: forse c’è un modo per essere sereni.
Comunque, la parte ‘umana’ era così già in fase di scrittura o l’hai risolta in questo modo al montaggio?
Giorgio Ferrero: No. Il film è totalmente scritto, per due esigenze. La prima è che io mi sentivo inesperto, nel senso che con quel budget e con quei luoghi non potevamo andare lì un po’ a caso a girare con la camera e poi risolvere al montaggio. Avevo bisogno di avere tutto molto chiaro in mente, anche perché come hai visto ci sono dei movimenti di macchina molto complessi. La sceneggiatura era di un centinaio di pagine e praticamente è una sceneggiatura che aveva cinque livelli: il primo era formato dalle fotografie dei sopralluoghi con delle inquadrature-madre; il secondo era quello testuale di descrizione; il terzo era il commento alla fotografia con i movimenti di macchina previsti; il quarto livello era la descrizione della colonna sonora; e l’ultimo livello, che è stato quello che si è evoluto di più col tempo, erano i monologhi. La seconda sta proprio nel suono. Abbiamo sempre pensato al film come a una specie di opera musicale in cui le parole, le immagini e le note musicali avevano lo stesso peso drammaturgico. È impensabile affrontare un approccio così improvvisando, per questo è stato scritto quasi tutto prima, per poter immaginare il ritmo, la progressione, lo stesso montaggio prima. Oltretutto avevo l’esigenza di scrivere le musiche sulla sceneggiatura per esigenze di produzione. Abbiamo scritto il 70% della parte musicale prima di girare, è un metodo che seguo sui progetti che devo dirigere ma che non avevo mai applicato a un lungometraggio. In questo film ci sono almeno venti playback, momenti in cui la macchina è perfettamente a sincrono con la musica, momenti in cui il montaggio è una conseguenza dei movimenti di macchina. Ci sono molte scene nel film che noi chiamiamo danze, in cui le architetture e la musica sono perfettamente fuse insieme, questo anche grazie alla consapevolezza della velocità che i movimenti dovevano avere per seguire gli appuntamenti musicali. Ci sono poi tantissime camminate nel film. Ogni camminata era pensata con un tempo, un bit da seguire per assecondare il ritmo di quell’atto. Ci sono quindi delle riprese fatte a sincrono sulla musica che il pubblico non percepisce forse che sono dei playback, ma lo sono. Io sono abituato a fare in questo modo: giro molto spesso mettendo uno speaker bluetooth nella tasca dell’operatore, di Federico, che è il mio socio, il direttore della fotografia, che allo stesso tempo ha o un metronomo o, almeno, un riferimento della partitura. Questo perché ho bisogno di essere assolutamente sicuro che – specialmente nei piani-sequenza – il tempo-macchina sia lo stesso di quello che sto scrivendo o sul monologo o sulla parte musicale. Tutto perciò è pensato come una partitura, ed è un modo di procedere che mi facilita. Ad esempio, il film comincia con Van che lavora nei campi di petrolio, e lui inizia a parlare dicendo che suo padre era uno stronzo, poi chiude la bocca, c’è una parte di monologo e poi la sequenza si conclude con lui che parla di nuovo in campo. Come le altre, questa scena era stata cronometrata e pensata in quel modo, anche se in realtà era molto più lunga e l’abbiamo poi tagliata al montaggio. Era stata pensata in modo tale che lui avesse il tempo giusto delle pause. Questa modalità di procedere mi serviva tra l’altro anche per dare il ritmo, perché avevo l’esigenza di dare quattro ritmi diversi a ogni atto. Giravamo col metronomo o con i provini delle musiche che avevamo già scritto di quell’atto per fare in modo che il movimento di macchina sul pozzo fosse lo stesso del ritmo della musica e del montaggio. Abbiamo rigirato delle scene anche tre volte perché quel tempo non era perfetto. La prima camminata di Van nella strada texana è stata girata tre volte in tre giorni diversi, perché mi rendevo conto che il ritmo continuava ad essere imperfetto sulle parole che lui doveva scandire. Anche i giri in spirale nella camera anecoica sono molto ridotti nel film ma per ottenere quel contrappunto alla parte musicale ossessiva li abbiamo rigirati mille volte. Quindi c’era una costruzione piuttosto malata, se vuoi [ride, n.d.r.], però era una maniera per sentirmi più sicuro e per potermi esprimere meglio. Penso proprio di avere dei problemi….
No, al contrario, mi sembra invece tutto molto coerente con la complessità – e insieme l’immediatezza – di quel che si vede nel film. E, a proposito di questo, non so se hai pensato a una possibile definizione del tuo film. Intendo dire, al genere di appartenenza. Si può parlare ad esempio di un’opera sinfonica?
Giorgio Ferrero: Io non l’avrei definito in questo modo perché il termine sinfonia è molto impegnativo. Però a Venezia quasi tutti i tutor mi continuavano a dire: questo è un film sinfonico. Inizialmente è una parola che non usavo nelle presentazioni, perché la trovavo troppo pretenziosa. Poi, andando avanti con la lavorazione e con il montaggio, chi lo vedeva mi diceva: “Eh, ma è un film sinfonico!”. Allora a quel punto ho cominciato a definirlo così anch’io. E adesso anche sul pressbook c’è scritto che è un film sinfonico.
Ah, ok, non l’avevo letto. Te lo chiedo perché il film-sinfonico era un genere che un tempo aveva una grande importanza, soprattutto ai tempi del cinema muto e delle sinfonie delle città. A questo punto perciò non posso non chiederti quali sono stati i tuoi riferimenti. A partire proprio da Citizen Kane e da 2001: Odissea nello spazio, i più impegnativi se vuoi, ma che mi sembrano molto riconoscibili in almeno un paio di punti.
Giorgio Ferrero: Beh, quelli è ovvio che siano dei riferimenti, ma lo sono per chiunque ami il cinema.
Sì, però, per entrare più nello specifico penso al finale di 2001: Odissea nello spazio, con quella stanza settecentesca così astratta e bianchissima, un momento che mi è venuto in mente nelle scene ambientate nella camera anecoica, soprattutto in un paio di inquadrature. Un omaggio, che a mio avviso ci sta tutto, visto che la camera anecoica è un luogo tanto evocativo e visto che rimanda a un senso di immobilismo assoluto e dunque di morte, proprio come nel finale di 2001. E poi, Citizen Kane per il robottino che è un po’ la tua slitta. C’è infatti l’incipit di Beautiful Things in cui vediamo per la prima volta il robottino e poi il finale in cui brucia nel termovalorizzatore. E questo passaggio, tra l’altro, ha un movimento di macchina molto simile a quello del finale del film di Welles, visto che passa dal totale al dettaglio.
Giorgio Ferrero: Il riferimento di Citizen Kane ti devo dire la verità è emerso agli occhi di tutti, anche se io non ci avevo pensato. Quell’inquadratura finale è venuta in modo molto naturale ed è stata dettata dalla possibilità di poter appendersi al ragno, vale a dire quella gigantesca struttura mobile che sposta gli oggetti nel termovalorizzatore. Quando, al momento dei sopralluoghi, avevo chiesto: “Ma posso appendermi al ragno?”, mi era stato detto di no. Poi ho iniziato a insistere e alla fine li ho convinti. A quel punto ho riscritto la scena, perché era talmente bello fare quel movimento, che all’inizio neanche avevo osato scriverlo. Tra l’altro è stato complicatissimo girarla, ci sono voluti due giorni. Non voglio entrare troppo nel tecnico, ma c’era un ronin [un giroscopio che permette di tenere sempre in asse la macchina da presa, n.d.r.] appeso a un ragno di otto tonnellate che serve a scaricare rifiuti, non esattamente un braccio da cinema, visto che è fatto per essere manovrato con dei movimenti meccanici per scaricare oggetti e non per portare la camera. Quindi l’ho scritta lì sul momento. Quando poi l’ho fatta vedere a degli amici, loro mi hanno fatto notare questa cosa di Welles, e ho pensato ‘ops!’. I primi riferimenti e più importanti che ti posso citare sono invece musicali, essendo io un musicista. Infatti, per facilitarmi nella stesura della sceneggiatura, pensavo a dei precisi modelli, che mi diventavano più chiari man mano che andavo avanti. Lo facevo per non perdermi e per individuare dei differenti mondi musicali. Quindi, per la prima parte, quella dei pozzi, ho pensato a Steve Reich e al minimalismo, a queste terrazze di percussioni che si rincorrono. Per il secondo movimento, quello del cargo invece c’è la voce subacquea che canta e lì il riferimento era il progetto di musica sottomarina danese Aquasonic, e i cori liturgici di Penderecki. Per la terza parte ho guardato a Bryce Dessner, che lavora anche con Jonny Greenwood dei Radiohead, Alva Noto e Sakamoto tra gli altri: lui scrive dei temi di archi che hanno sempre un contrappunto costante tra qualche cosa di estremamente dissonante, atonale e inquieto e qualche cosa di molto appagante, armonico e aereo. Adoro il suo modo di scrivere. Mi sembrava fosse la sensazione giusta per la camera anecoica in cui entri e sei subito affascinato perché pensi: “Che posto pazzesco!”, poi però dopo cinque minuti inizi ad avere le palpitazioni e vuoi uscire perché non riesci a respirare. E infine per il quarto movimento, quello del termovalorizzatore, avevo come riferimento l’ultimo Cliff Martinez e la musica elettronica fredda, musica concreta di macchine; la chirurgia del suono per me è rappresentata proprio dai sintetizzatori.
Quindi ciascuno dei quattro blocchi aveva dei riferimenti precisi e ciascuno differente? Uno stile e un ritmo volutamente diverso.
Giorgio Ferrero: Sì, assolutamente. Una narrativa e un ritmo diversi. Un’esigenza che è nata non solo dai luoghi che mi ero scelto, ma anche in base a quello che mi diceva ciascuno dei protagonisti. Narrativa perché è nata dalle loro storie. Quando Vito, il protagonista della quarta parte, mi ha detto che vendeva le slot, io volevo inserirla assolutamente questa cosa. Però avevo già chiuso anche la colonna sonora. E comunque ho pensato che fosse perfetto, perché il mondo sonoro delle slot machine è proprio il mondo degli oggetti puri, elettronici. Detto questo, ho faticato molto quando facevo i workshop e mi si chiedeva: “Ma tu vuoi fare un film come chi?”
Alla fine che hai detto?
Giorgio Ferrero: Non l’ho detto. Noi in realtà – io e Federico – continuavamo a ripetere che trovavamo più simili gli approcci di alcune serie tv perché l’utilizzo della musica e della velocità che noi avevamo in mente ci pare che in questa fase storica sia restituito molto bene da alcune serie tv.
Ah, davvero? Quali serie ad esempio?
Giorgio Ferrero: Black Mirror, non tanto per contenuti, ma per approccio estetico. Dovendo fare nel nostro film quarto atti molto corposi diversi tra loro ma con un sottile filo conduttore, abbiamo trovato che nelle serie c’è sempre una risolutezza e una fascinazione che procede veloce e che allo stesso tempo ha modo anche di “respirare” molto. Poi, per venire al cinema, c’è Paul Thomas Anderson, in particolare per Il petroliere che per me è un film incredibile. O The Tree of Life per l’uso della voice over. Però sono sempre paragoni che abbiamo scelto per un motivo preciso: come dire, cerco dei modelli per cercare di fare meglio una certa parte. Quando durante i workshop della Biennale parlavamo dei monologhi, mi sono riguardato The Tree of Life perché ho pensato: “Film con monologhi, con voci che “bucano”, così profonde, che raccontano per tanto tempo, dove li trovo?” Poi The Tree of Life è un film che mi piace a metà, però qui non conta il giudizio, quello che contava per me è l’utilizzo di una certa voice over che deve reggere. Per questo motivo ho preso come riferimento Malick, perché lui questa cosa l’ha fatta bene, e non solo questa. Insomma, si tratta di pezzettini, usati secondo una precisa finalità. Per tornare a Black Mirror, a parte il fatto che a tratti è molto kitsch, c’è un che di inquietudine che ti trasmette, quasi come dei respiri mancati: quattro secondi di chiusura che ti lasciano sospeso tra una scena e l’altra. Ecco, quello è un linguaggio più da serie che da cinema. Poi c’è Bertolucci, il Bertolucci di La via del petrolio, che ha un altro linguaggio rispetto a quello che poi ho usato io. Però trovo che alcune cose che lui ha realizzato nel documentario – come ad esempio far contare i passi – fossero geniali e semplici. Bertolucci sa usare a volte il linguaggio in modo pittorico e astratto, e questo mi piace molto. E poi, c’è quello più curioso se vuoi – ma in fin dei conti non così tanto – che è Fantasia di Walt Disney. Si tratta di un film che mi ha segnato sin dall’infanzia. Volevo che in un certo senso Beautiful Things comunicasse in modo semplice e intenso sul senso di viaggio surreale come quel film di Disney. Ci ho pensato spesso durante la scrittura delle musiche e durante alcune delle riprese più astratte. Ah, un ultimo: Victoria, di Sebastian Schipper, il film girato tutto in piano-sequenza e che dà quella sensazione che speravo di ottenere con le scene della realtà, la claustrofobia e la presenza inquietante e “terza” della camera nella vita della coppia. È stato quest’ultimo uno dei pochi riferimenti filmici recenti uscito da noi proprio poco prima che iniziassimo a girare.
Come hai lavorato invece sui quattro monologhi? Li hai scritti a partire da quello che ti raccontavano i personaggi e poi l’hai rielaborato tu? Perché ci sono dei momenti veramente ficcanti, icastici, quasi alla Sergio Leone, come ad esempio nel termovalorizzatore quando Vito dice: “Faccio sparire cose che la gente non vuole più e lo faccio nel modo più pulito possibile”.
Giorgio Ferrero: Ho fatto così: nei mesi che precedevano le riprese ho fatto una serie di interviste e di ricerche. Ho intervistato i personaggi che già avevo, come Vito e come Andrea, per attingere alle loro storie più forti, che sono tutte vere. Comunque, ho fatto questo tipo di lavoro: avevo scritto una prima stesura della sceneggiatura basandomi su storie analoghe che avevo trovato. Poi, quando ho trovato tutti e quattro i protagonisti, ho trovato dei punti di contatto rispetto a quello che avevo scritto e ho iniziato a fare un po’ di sintesi per trovare i punti chiave che corrispondevano. Dopodiché ho trascritto ed editato queste interviste su Pro Tools e poi le ho scritte, riscrivendomi tutte le frasi che loro mi avevano detto e che mi avevano colpito molto. Poi mi sono seduto al tavolo con loro, tanto che la sceneggiatura finale è scritta quasi tutta a mano [in fondo all’intervista vi sono alcune immagini dello script, n.d.r.]. Con loro avevo un interprete quando necessario, come ad esempio nel caso di Danilo, il protagonista della parte sulla nave cargo, che è filippino. Sia io che lui parliamo in inglese, però lui in filippino diceva molte più cose. Con loro quindi ho iniziato a delineare meglio le frasi. Quella frase di Vito l’ha detta lui la prima volta in maniera molto semplice. In ogni caso non volevo mettergli in testa un’altra storia, volevo che loro si riconoscessero in quello che dicevano, quindi abbiamo riscritto insieme i vari passaggi. Poi a tutti ho chiesto di scrivere qualcosa per conto loro. Ad esempio ad Andrea ho chiesto di scrivere una poesia per stuzzicarlo. Infatti lui insisteva a dire che non era un poeta, che non era un creativo letterario, cosa che io non credo e quindi gli ho chiesto di scrivere una poesia sul silenzio. E una parte di quella poesia è finita nel film. A Vito invece avevo chiesto di scrivere un pensiero sulla sua vita e gli ho detto: “Vito, forse tu non ti sei reso conto che prima eri nei bordelli con delle puttane, poi mettevi le slot-machine e adesso sei qua che fai il culo agli altri come caposquadra del termovalorizzatore. Ma ti rendi conto di che vita hai avuto?” Lui ha iniziato a scrivere qualcosa o a dirmi qualcosa in merito, come ad esempio:“Io non racconto mai quello che faccio, lo faccio e basta”. Ed è una frase che mi ha detto al bar quando mi raccontava della vergogna che provano le persone che lavorano lì dentro, perché lavori con la merda fino al collo. E Vito mi ha confessato che in fin dei conti quel lavoro gli piace, però evita di dirlo perché la gente comunque non capirebbe. Anche quella frase è entrata nel film. Si è partiti dunque da una scrittura precisa, magari un po’ rigida, che insieme a loro si è andata affinando man mano.
Poi però hai dovuto registrare con loro le voice over.
Giorgio Ferrero: Molte voice over sono di scena, sono dei tagli di scena. Infatti chi è un tecnico se ne accorge, perché ci sono di tanto in tanto dei leggeri cambi di timbro. Nessuno di loro l’ho fatto registrare in uno studio tradizionale, abbiamo sempre registrato sul posto. Con Andrea ci siamo seduti con il microfono in anecoica, Vito l’ha fatto con la maschera dell’ossigeno seduto sulla poltrona, Danilo l’ha fatto dentro alla sua cabina sulla nave in mare aperto, Van ha registrato tutte le sue voci nella casetta in cui parla del padre. Le cose importanti che dovevano dire e che ancora non avevano detto le abbiamo fatte così a fine riprese tornando nei luoghi che caratterizzavano il loro suono.D’altronde i monologhi hanno un suono proprio, dettato dai posti in cui i personaggi vivono: il vento e le lamiere di Van nel deserto, il riverbero e il rombo della nave in moto di Danilo, il suono pulito e asettico della voce di Andrea, il suono drammatico e inquietante della maschera d’ossigeno di Vito.
A proposito dei quattro protagonisti in scena, c’è da dire che i primi due – il texano Van e il marinaio Danilo – sono molto più estroversi, mentre poi c’è Andrea che dà l’impressione di essere molto timido, e infine Vito che ha il volto nascosto dalla maschera per l’ossigeno. Anche qui mi perciò sembra di leggere un disegno preciso.
Giorgio Ferrero: Sì, è vero. Ed è un percorso piuttosto naturale per come si era sviluppato il film. Sin dalla scrittura ho sempre pensato che, di capitolo in capitolo, saremmo andati verso un percorso di chiusura umana. È un percorso piuttosto iconico per il tipo di cose che stavamo approcciando. Vale a dire che un cowboy che lavora nei pozzi di petrolio non può essere introverso, è un tipo che si comporta in un certo modo, Van poi ha avuto una vita pazzesca, ha fatto anche l’attore. I texani, gli americani, che fanno quel tipo di lavoro prettamente maschile è difficile che non abbiano un passato di alcol, è difficile che non passino tutte le ore libere nei bar a divertirsi, a sfogarsi. Tendenzialmente sono persone che poi a un certo punto della vita diventano ‘saggi’, penso che sia un effetto del deserto, dell’habitat sconfinato in cui vivono. Poi invece sulle navi sono tutti pazzi. È vero, è proprio così. Sono delle banalità a proposito delle quali tu pensi: “Non può essere così”, e invece è proprio così. Nella prima versione avevo scritto: “Mi piacerebbe trovare un marinaio che mischia le lingue, che racconta del fatto che va a puttane, ecc.” Poi, quando ho parlato con il capitano di una nave per dirgli che avevo in mente un personaggio così, lui mi ha risposto: “Ma i marinai son tutti così!”. Invece la descrizione dell’addetto ai pozzi di petrolio che mi immaginavo era che questo tipo avesse avuto qualcuno che era morto – un familiare o un amico -, che fosse un solitario ma anche uno spaccone, che andasse in giro sempre armato. E anche in questo caso mi è stato risposto: “Ma sono tutti così, hanno tutti le pistole in casa, ecc.” E quindi ti viene veramente da pensare che sia proprio così: che l’habitat, il luogo in cui vivi, il lavoro che fai – almeno in questo tipo di lavori “estremi” -, incide così tanto sulla personalità da riuscire in qualche modo a tipizzare i percorsi. Del resto, anche gli scienziati sono come Andrea, un po’ problematici, chiusi nel loro mondo di numeri. L’intelligenza porta alla follia, l’ho sempre pensato.
Invece hai accennato più volte al direttore della fotografia e co-regista Federico Biasin.
Giorgio Ferrero: Sì, io e lui lavoriamo insieme da dodici anni. Abbiamo lo studio insieme, abbiamo fatto insieme gli art director per lavori commerciali, abbiamo prodotto insieme dei lavori di altri. Ho fatto molti lavori come fotografo, è un’attività che mi piace molto e che faccio da sempre anche per campare, questo è il nostro punto di contatto, quindi io e lui dialoghiamo sullo stesso piano e lui è bravissimo con la macchina da presa. Tra di noi non c’è mai stata un’incomprensione su questo film. Siamo due entusiasti, che abbiamo a volte gli stessi riferimenti, a volte diversi ma che si incontrano sempre. È molto bello lavorare insieme: avevo già scritto prima, come ti ho detto, molte delle scelte di fotografia che sono nel film e lui mi ha sempre assecondato, più la sparavo grossa, più lui mi diceva: “Ok, lo faccio”. Ho pensato la fotografia di Beautiful Things in modo tale che ogni atto avesse un’identità precisa e non velleitaria, cercando di trovare il modo per restituire esattamente la sensazione che si ha in quei luoghi. Volevo che la fotografia avesse un certo colore in grado di dare l’impressione allo spettatore di trovarsi davvero in quei luoghi. Ad esempio in camera anecoica volevo una camera che fluttuasse, perché quando sei lì dentro hai proprio la sensazione di navigare, di levitare. E Federico il giorno dopo mi ha detto: “Giriamo col robot, è fatta”. Ed è stato geniale, perché quello era l’unico modo che permettesse di volare in aria senza regole. Oppure gli ho detto: “Secondo me la fotografia del primo capitolo, di petrolio, deve essere ventosa perché lì c’è un vento incredibile. Vedi sempre delle cose in movimento, l’odore di gas dà la nausea, non possiamo fare una fotografia precisa e nitida, e – o in macchina o a piedi – ti arrivano sempre delle assurde folate desertiche, facciamole sentire”. E allora, se avessi detto a un altro: mettiamo la camera su un braccio ma vorrei quel braccio che un po’ balla; quest’altro m’avrebbe detto: ma che sei scemo? Invece con Federico ci siamo capiti al volo, e anzi in quelle scene tra i pozzi piazzava anche una felpa sotto alla macchina piantata sul cavalletto, in modo tale che il vento sporcasse meglio l’immagine.
E poi è stato sempre lui a fare i movimenti a mano in casa per la parte della coppia? Perché ad esempio quel movimento di macchina mentre lei è nella doccia è perfetto e rientra con coerenza nel discorso del film: tu infatti capisci chi è quel personaggio senza vederlo, ma solo osservando gli oggetti che tiene in casa.
Giorgio Ferrero: Mi fa molto piacere che ti sia piaciuta quell’inquadratura. Lì abbiamo posizionato gli oggetti in modo tale che la camera potesse mostrarli secondo un criterio. La scena della doccia è girata nel collegio dove io ho fatto l’università a Torino, la camera del bambino che si vede all’inizio era la mia stanza di quando ero bambino e quindi la conoscevo benissimo e ora è casa nostra. Io e Federico avevamo le radio, io stavo con il cronometro, e gli dicevo: “Ok, tre, due, uno, doccia; poi spostati fuori”. La scena più pazzesca che abbiamo girato comunque è quella del balletto: è stata una esperienza estremamente impegnativa. Abbiamo fatto tre giorni di prove, perché io dovevo provare prima il balletto, poi le luci. Abbiamo usato le luci che già c’erano nel centro commerciale, non ne abbiamo aggiunte di altre. Quindi abbiamo fatto la prova di coreografia senza la camera, poi la prova delle luci e infine abbiamo girato. Il problema è che quando abbiamo girato c’era un sacco di tensione. Considera che si tratta di un piano-sequenza che dura più di cinque minuti, che si sale e si scende, si passa da un piano a un altro del centro commerciale, che ci si sposta addirittura sott’acqua. Abbiamo creato un video di colori pieni per i ledwall del centro commerciale, che girava nel sistema pubblicitario e ogni sette minuti andava in play, come un countdown che ci dava l’azione. Io parlavo nell’impianto degli altoparlanti, quello che si usa per dare delle comunicazioni. Tutti avevano le radio, e io avevo Pro tools davanti in playback con tutti i marker collegati al video caricato dei ledwall pubblicitari; mi serviva per dare i tempi ai ballerini e per dare i movimenti di macchina a Federico. È una cosa che sapevamo fare, però è stata comunque molto difficile, considerando anche che era il finale. Quindi li ho fatti buttare in piscina una prima volta alle tre e mezza del mattino. Avevamo solo tre cambi, perché infatti c’era anche il problema della piscina dove poter far buttare loro solo tre volte perché non era balneabile. Dentro questo tipo di piscine ci sono dei prodotti chimici particolari, sono fatte apposta per le macchine dei bambini. Quindi mi era stato detto: “Non succede nulla, ma non li buttare dentro più di tre volte, perché fosse mai che hanno un’allergia che non sanno….” Quindi avevo un sacco di cose in testa. Alle tre e mezza li ho buttati in piscina una prima volta, ma non era buona perché avevo delle persone in campo della crew. Alle cinque e mezza mi sono messo a urlare perché i tizi della sicurezza mi avevano detto che quello era l’ultimo take a disposizione. Mi sono messo a motivare tutti, ma eravamo stanchissimi, in particolare ovviamente i ballerini. E quando gli ho detto: “È buona”, verso la fine prima che si buttassero in acqua, loro hanno avuto un’esplosione di gioia e infatti un po’ si vede, perché in piscina si divertono come dei pazzi, è veramente un momento liberatorio. Sono molto contento di questa scena perché nessuno voleva farmela fare. Alla Biennale pensavano che non fossimo in grado di gestire una coreografia che portava con sé l’alto rischio di risultare kitsch. Mi dicevano: ma perché ti vuoi mettere a fare La la land?
Sì, che poi la presenza dell’operatore è sempre molto forte, molto fisica in tutte queste riprese, e in quest’ultima c’è una sorta di apoteosi.
Giorgio Ferrero: Ero tesissimo comunque, temevo continuamente di non farcela, eravamo stanchi e continuavo a urlare. Dietro di me c’era il ragazzo che controllava i fuochi e avevamo stabilito che al terzo erroretto si dava stop, quindi continuavo a chiedergli: “Come va? Come va? Come va?” Comunque, sono molto contento. Me la ricorderò per sempre come una specie di esperienza di free-climbing.
C’è una curiosità che mi volevo togliere, ma come mai i cognomi degli attori sono tutti italiani? In particolare quello di Danilo, che è filippino?
Giorgio Ferrero: È stata una curiosa casualità, anche per Danilo. Ne ho parlato con lui e lui mi ha detto che, visto che nelle Filippine, c’è un melting-pot totale di culture, ci sono anche tanti nomi italiani, ma nemmeno lui sa perché. Van è italo-americano, suo nonno ha cambiato il cognome da Quattrocchi a Quattro perchè gli americani non riuscivano a pronunciarlo, mentre Vito è nato a Zurigo, ma è di origini pugliesi.
Per chiudere, mi sembra importante parlare dell’aspetto linguistico, del fatto che ciascun personaggio parla con la sua propria lingua: Van in inglese, Danilo in filippino, Andrea in italiano e Vito in tedesco.
Giorgio Ferrero: Sì, il fatto che ci fossero lingue diverse è stato importante sin dall’inizio. Tra l’altro, in una prima fase, avevo identificato un greco come marinaio. Ma quando mi sono reso conto che la maggior parte dei marinai mondiali è filippina ho scelto un filippino. Volevo iconizzare i mondi e quindi ho scelto quello. Le lingue per me sono sempre state una componente fondamentale della partitura musicale: avevo bisogno che fossero diverse l’una dall’altra, così come avevo bisogno che ogni capitolo fosse diverso dall’altro. Quindi doveva essere in primo piano il suono della lingua, più ancora del significato. E poi ovviamente la maschera d’ossigeno per Vito. Se parli in tedesco con una maschera d’ossigeno, si spalanca tutto un immaginario. È una lingua talmente spigolosa, sembrava quasi di stare in Star Wars.
Sembra evocare anche l’atmosfera di un campo di concentramento. Anche perché quello cui assistiamo nella parte del termovalorizzatore è comunque un olocausto, l’olocausto degli oggetti.
Giorgio Ferrero: Non ci avevo mai pensato, però effettivamente… Come ricordo di suono, come colore del suono che ha la lingua tedesca, è possibile che inconsciamente abbia fatto questa scelta anche per questo motivo.