Radiance

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Presentato in concorso alla 60ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, Radiance del filmmaker giapponese Shuhei Hatano è una risposta allo stato di isolamento del lockdown sotto forma di un flusso di coscienza audiovisivo dove trionfano la vita, la natura, il pathos delle cose in un montaggio vertiginoso e caleidoscopico, in un tripudio di bagliori.

Le note del guanciale all’epoca del covid

Aprile 2020. Un mondo in cui è proibito incontrare gli amici per un lungo periodo di tempo. Il regista allora decide di filmare tutti i giorni senza uno scopo preciso: la piccola scintilla del quotidiano con figlia e moglie, frammenti messi insieme in forma di lettera per gli amici più cari. [sinossi]

Ci fa sapere, il filmmaker giapponese Shuhei Hatano, con la sua voce over, di aver letto Note del guanciale, tra un pannolino e l’altro cambiati alla figlioletta durante il lockdown. Lo dice nell’ambito di quel flusso di coscienza audiovisivo che è la sua opera Radiance, presentata in concorso alla 60ª Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Un lavoro che nasce dall’atto compulsivo di filmare come risposta alla condizione di isolamento imposta dal lockdown per l’emergenza pandemica, accompagnando le immagini con una voce over in prima persona rivolta agli amici abituali che in quel momento non può vedere. Il riferimento al romanzo classico di cui sopra, di Sei Shōnagon, uno dei capisaldi dell’epoca Heian, citata anche un’altra volta nel film, quella della classicità, dello splendore della vita di corte attorno all’anno mille, è tutt’altro che casuale. Gli elenchi delle cose, la loro valorizzazione secondo il principio filosofico del mono no aware, il pathos delle cose, di cui è carica la letteratura giapponese dello stesso periodo: gli stessi concetti ripetuti nel modo in cui Shuhei Hatano guarda a tutto ciò che lo circonda, come accarezzandolo, animali, piante e la sua bambina, il cielo, la luna, le nuvole. E il film è occasione per contemplare il passato, i propri ricordi di vita, attraverso gli home movie, del cinema, con una vecchia cinepresa accostata, nel montaggio, a una lavatrice, fino all’ancestralità stessa del Giappone, all’epoca Heian di cui sopra.

Radiance è un caleidoscopio visivo che tende all’astrazione, tra una mdp sempre forsennatamente in movimento e un montaggio frenetico di immagini che si susseguono veloci, sovraesposizioni fotografiche, fuori fuoco, proiezioni interne in pellicola, riflessi nelle pozzanghere. Tutto gravita attorno ai giochi della bimba, come le bolle di sapone, spesso conferendo una dimensione infantile in quell’esistenza sospesa, tra annaffiare i fiori, fare i biscotti, sentire il giradischi. E attorno la dimensione del quartiere, del Giappone dei sobborghi tutti uguali, avvolti da ragnatele di cavi della luce. Radiance per il filmmaker è anche un interrogativo sul perché filmare, interrogativo che non ha risposta se non nell’atto stesso di filmare, o nel dialogo che vorrebbe instaurare con il mondo circostante, riscoperto attraverso l’obiettivo della macchina da presa. Spesso Shuhei Hatano si mette all’altezza della bimba, nel solco di quella tradizione, che si vuole ozuiana, dell’inquadratura a livello tatami. E non manca un riferimento cinematografico: nel flusso di immagini compare anche la locandina del film cinese Kaili Blues di Bi Gan, uno dei film più sorprendenti degli ultimi anni.

Come anche suggerito più volte dallo stesso regista in voce over, Radiance è un modo di vedere le cose del quotidiano in un altro modo, di far emergere i riflessi, i bagliori nel flusso di immagini – significativo in tal senso il titolo giapponese del film それはとにかくまぶしい che significa “comunque sia, brilla” – fino a riflettere sulla vita e sulla morte, accostando l’immagine di una salma e di un parto. E come nell’appunto rinnovato sul post-it finale, Shuhei Hatano si ripromette di filmare anche per il 2021 i ciliegi in fiore, simbolo di bellezza effimera ma anche della ciclicità del mondo nella concezione orientale.

Info
Radiance sul sito di Pesaro 2024.

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