Riefenstahl

Riefenstahl

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Classico documentario biografico, Riefenstahl di Andres Veiel lavora molto con materiale d’archivio già noto e giustifica la sua esistenza soprattutto per il fatto di aver avuto accesso per la prima volta all’archivio privato di Leni Riefenstahl. Fuori concorso a Venezia 81.

Pentiti, Leni, pentiti!

La biografia della regista tedesca Leni Riefenstahl, che raggiunse l’apice della sua carriera negli anni del Terzo Reich e che, dopo la fine del nazismo, fu ciclicamente accusata di essere stata amica di Hitler, Goebbels, ecc. [sinossi]

La posizione che gli intellettuali assunsero di fronte al fascismo in Italia e al nazismo in Germania resta tuttora, a tanti anni di distanza, una questione estremamente spinosa. Si prenda da noi la famosa letterina che Pirandello mandò nel 1924 al Duce per chiedergli di potersi iscrivere al partito fascista proprio pochi mesi dopo che il regime aveva ucciso Giacomo Matteotti. Si prenda, al contrario, in Germania la fuga notturna all’estero che intraprese Fritz Lang dopo aver avuto una conversazione con Goebbels che gli proponeva di metterlo a capo di tutta la cinematografia nazista. Oppure all’ambiguo atteggiamento del direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler che, pur non prendendo mai la tessera del partito nazista, decise di restare in Germania dopo aver avuto una conversazione con il solito Goebbels, il quale gli disse più o meno così: “La questione è semplice. Tu devi separare politica e musica, sono due faccende distinte. Quindi, se le separi, per quale motivo non potresti continuare a fare musica così come facevi prima di noi?”. E la stessa cosa, ovviamente declinata al cinema, ripete a pie’ sospinto Leni Riefenstahl nelle riprese d’archivio inserite all’interno del documentario omonimo dedicato a lei, diretto da Andres Veiel e presentato fuori concorso a Venezia 81, vale a dire che per lei il cinema era il cinema, mentre la politica la lasciava ai politici. Ed è proprio questa separazione, caratteristica della società occidentale, di campi d’interesse – o di Zona d’interesse – ad aver supportato le peggiori malefatte da parte dei regimi novecenteschi, spingendo intellettuali di varie discipline a occuparsi soltanto della loro sfera d’influenza e arrivando a conseguenze estreme quali il caso del fisico Heisenberg che rischiò di inventare l’atomica per i nazisti sollecitato e solleticato dall’ambizione di ottenere un risultato che nessun altro fisico prima di lui aveva ottenuto (e non che gli altri, dall’altra parte dell’oceano, fossero in fin dei conti tanto diversi da lui, con la sola differenza di esserci riusciti davvero a inventare l’atomica e di essersi ritrovati dalla parte giusta della storia).
Inoltre, questa specializzazione dei mestieri ci pare che abbia un correlato oggettivo, quello dell’ubbidire all’autorità. Lo dice la Riefenstahl stessa, sempre in un’intervista d’archivio all’interno del film di Veiel, dice cioè che le avevano chiesto/ordinato nel ’34 di girare il raduno nazista di Norimberga, da cui l’anno successivo avrebbe tratto Il trionfo della volontà, e poi nel ’36 di documentare le Olimpiadi di Berlino, da cui nel ’38 nacque Olympia. Perché ha accettato di fare quei film di propaganda, le domandano. E lei per l’appunto risponde banalmente: “Perché mi è stato chiesto”. Non si poteva dire di no al Führer, non solo e non soltanto perché poi le conseguenze a livello personale avrebbero potuto essere poco simpatiche, ma piuttosto perché il Führer era il Führer, e cioè l’autorità suprema del paese, cui non si voleva disubbidire. Cosa c’è di diverso dall’ex SS che, di fronte a un tribunale, dice di “aver eseguito gli ordini?”. Nulla, se non ovviamente, la gravità del fatto del secondo – che ha ucciso – rispetto alla prima, che ha fatto “solo” un film. Il principio di autorità, lungi dal poter valere come giustificazione per certe azioni criminali, è stata la chiave del funzionamento del mostruoso macchinario nazista attingendo a precetti che si erano consolidati nel pensiero scientifico ottocentesco, in particolare con il sociologo Max Weber, così come dimostra Zigmunt Bauman in Modernità e Olocausto.

Di fronte a tutto questo, il comportamento della Riefenstahl ci pare come quello di un “fuscello” della Storia, una regista – che, tra l’altro, si è ritrovata tra le prime donne a svolgere questo mestiere ad altissimo livello – capace di approfittare della situazione nel modo a lei più favorevole e che poi, dopo la guerra, non ha mai rinnegato nulla, restando fedele a chi le aveva dato la possibilità di dimostrare il suo talento e di avere un innegabile successo a livello mondiale. Non ha tanto senso, quindi, insistere, come si fa nel documentario di Veiel, sulla questione ebraica, se cioè la Riefenstahl sapesse o meno di quel che succedeva ad Auschwitz, come se fosse solo quello il discrimine per capire se il nazismo – che sin dall’inizio aveva eliminato avversari e ridotto al silenzio con la forza ogni tipo di opposizione politica – fosse o meno una dittatura. Ha più senso vedere, invece, sempre all’interno del documentario, una vecchia trasmissione televisiva in cui la Riefenstahl viene messa a confronto con una donna sua coetanea che, sin da quando Hitler salì al potere, entrò a far parte di forme di resistenza clandestina. Lì, finalmente, la Riefenstahl viene presa in castagna e dimostra di avere una forma di pensiero tipicamente nazi-fascista, sprezzante nei confronti degli oppositori e delle minoranze, ubbidente di fronte alla patria, tetragona a ogni tipo di dubbio o di autoironia. Verrebbe dunque quasi da dire che la sua “colpa” più che l’ideologia alla base dei film che ha fatto durante il Terzo Reich, più che il sapere o non sapere quel che succedeva nei campi di concentramento, più che aver scritto lettere e aver frequentato Hitler, sia stata la sua fedeltà al passato anche dopo la guerra. Non che dovesse fare atto di pentimento, ma forse le sarebbe bastato capire – e non l’ha voluto capire – che quell’ideologia era orripilante. Non è durante Auschwitz, ma è dopo Auschwitz che è rimasta la stessa di prima, e questo è ben più grave.

Il suo rifiuto verso la riflessione a posteriori e verso la messa in dubbio la ritroviamo a tratti in maniera lampante nel documentario di Veiel, in particolare in alcuni materiali inediti, rinvenuti all’interno dell’archivio privato della Riefenstahl messo per la prima volta a disposizione per questo film: le registrazioni – fatte da lei stessa – delle telefonate che la Riefenstahl riceveva. Qui emerge un elemento inquietante, che permette però di allargare il discorso: queste telefonate le arrivavano in particolare dopo qualche sua apparizione televisiva – come ad esempio quelle già citate – e le riceveva da suoi fan, da nostalgici del nazismo, che la appoggiavano e la sostenevano. Il che ci porta a una amara considerazione: la Germania denazificata non è mai esistita.

Veiel però ci pare non tragga le dovute conseguenze, e anzi lascia un po’ cadere nel vuoto queste testimonianze di anonimi ammiratori, probabilmente troppo compreso dal compito di fare un documentario biografico che fosse anche cronologico e corretto dal punto di vista storico. Così va a finire che Riefenstahl è un film ordinato, composto ma non composito, quasi totalmente privo di personalità registica e autoriale e che, al di là delle citate telefonate, non dice molto di nuovo che non fosse già stato detto in precedenti documentari sulla regista tedesca, in particolare in La forza delle immagini (1993) di Ray Müller, cui Veiel attinge abbondantemente.

Info
La scheda di Riefenstahl sul sito della Biennale

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