Maquinaria Panamericana

Maquinaria Panamericana

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Le rivoluzioni impossibili, perché rivoluzioni non sono. Maquinaria Panamericana di Joaquìn del Paso è un apologo grottesco sulle tragiche e mancate liberazioni della classe lavoratrice. Poco inventivo, più che risaputo. In concorso al TFF.

Messico e brugole

Alla “Maquinaria Panamericana”, azienda industriale messicana, è un venerdì come tanti. La giornata però è sconvolta dall’improvvisa morte di don Alejandro, che lascia la ditta nelle peste, a rischio di fallimento e senza poter neanche garantire le pensioni ai suoi lavoratori. I quali, dopo lo sconforto generale, decidono di nascondere il decesso e di continuare come se niente fosse cercando di organizzare una sorta di autogestione… [sinossi]

È tempo di riflessioni allegoriche sulla lotta di classe. Talvolta fiere ed esplosive (vedi Los decentes, passato in concorso al TFF qualche giorno fa), altrove beffarde e nichiliste. Anche il messicano Maquinaria Panamericana di Joaquìn del Paso, a sua volta in concorso, aderisce alla satira grottesca, traendo probabilmente spunto dalle derive socio-economiche dell’ultimo decennio di crisi mondiale per rinnovare un antico discorso su conformismo e rivoluzione.
Del Paso si mostra però decisamente sfiduciato anche nei confronti della classe lavoratrice, che in un presente astratto (valevole quanto un presente assoluto) è incapace di fare fronte comune e di dedicarsi a una vera azione collettiva. In Maquinaria Panamericana a far saltare il quieto vivere di un’azienda industriale è l’improvvisa morte di Don Alejandro, che lascia l’impresa nelle peste, dal momento che per anni la dirigenza si è prodigata a nascondere di stare sul ciglio del fallimento. Con la plumbea prospettiva di ritrovarsi senza lavoro, senza un soldo e senza neanche le pensioni garantite, i lavoratori decidono di occultare il decesso di Don Alejandro e di proseguire nell’attività come se niente fosse, riorganizzandosi in una sorta di autogestione. Ma non si tratta di una vera rivoluzione, quanto piuttosto di terrore panico nel liberarsi dal proprio ruolo sociale, una coazione a ripetere che si profila come una pura e semplice continuazione del passato sotto forma collettiva. Gli esiti saranno ovviamente catastrofici.

Del Paso si affida insomma a una collaudatissima struttura di apologo allegorico, in cui è ben evidente l’adesione a una precisa tesi socio-storica. Maquinaria Panamericana è infatti volutamente esemplare, con richiami diretti a una riconoscibile impalcatura di racconto di una sconfitta predestinata. Purtroppo però il tutto è davvero fin troppo esplicativo, incapace di proporre non tanto una parabola inedita, quanto una lettura personale di una storia vecchia come il mondo.
Che il film sia stato probabilmente generato da un’urgenza attuale (mai come negli ultimi anni il problema del lavoro è tornato ad attanagliare il mondo occidentale) e che nella sua ricezione lo si ricolleghi facilmente a un contingente allarme collettivo resta alla fine un dato marginale e del tutto ininfluente. Nella sua natura di apologo grottesco fuori dal tempo il film vuole parlare in realtà di una problematica assoluta, affrontata dalle classi subalterne dacché l’uomo ha iniziato a organizzarsi per società. Ma più che sulla lotta in sé, il focus del film si concentra sulla sostanziale inadeguatezza dei lavoratori a una reale azione collettiva. Perché per l’appunto il problema sta a monte, ovvero in un’idea di autogestione che non riesce a liberarsi dall’ossessione della continuità col passato. Il vero oggetto della caparbietà dei protagonisti non s’identifica infatti nella ricerca di nuove strade organizzative, bensì nella cocciuta e disperata perpetuazione di un unico modello senza il quale si sentirebbero perduti, economicamente ed esistenzialmente. Una forza-lavoro incapace, insomma, di percepirsi come “completa”, autosufficiente, libera dall’idea della dipendenza.

Nel discorso di del Paso sta a dimostrarlo la rapida identificazione di un nuovo “capo” dal quale ricevere direttive e al quale attribuire tutte le decisioni e responsabilità. E il clima festoso, da cani sciolti, provocato dalla nuova situazione aziendale, si spegne in realtà in tempi brevi rivelandone tutto il suo risvolto disperato. Poiché il film vuol proiettarsi in una riflessione universale, del Paso mostra insomma grande scetticismo verso una classe lavoratrice addormentata negli istinti, nei desideri e soprattutto colonizzata nel suo immaginario. Del Paso crede probabilmente nelle rivoluzioni, ma non crede ovviamente a quelle false. Il discorso del film è chiarissimo e perfettamente intelligibile, ma risulta assai poco vivace sotto il profilo delle soluzioni stilistiche e narrative.
Affidandosi a un grottesco allentato (e divertente solo a sprazzi), Maquinaria Panamericana suscita continue attese di sorpresa costantemente insoddisfatte, e in ultima analisi si profila come un diligente compitino di risaputa dissacrazione. Talmente prevedibile che pure l’obiettivo satirico resta mancato.

Info
La scheda di Maquinaria Panamericana sul sito del Torino Film Festival.
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