House of the Disappeared

House of the Disappeared

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Fra oscure presenze, sparizioni, delitti e castighi, l’inquietante horror sudcoreano House of the Disappeared riflette sul tempo e sull’amore di una madre. Al diciannovesimo Far East Film Festival di Udine.

My son, my son, what has time done

Dopo 25 anni di carcere per aver ucciso marito e figlio, Mi-hee torna nella casa dove tutto accadde. Convinta della sua innocenza, la donna rivive i tragici fatti di quella notte, aiutata da un giovane prete che vuole darle conforto. Il sacerdote scopre un oscuro segreto legato alla casa, mentre Mi-hee avverte delle oscure presenze esattamente come 25 anni prima. La storia si sta ripetendo? [sinossi]

Il focolare domestico, nel cinema horror, è sempre stata la prima certezza da ribaltare. Quello che dovrebbe essere il luogo deputato alla tranquillità, al riposo e agli affetti, dove rilassarsi e sentirsi al sicuro, diventa esattamente il luogo nel quale accade l’imponderabile, in cui si scatena il mistero, in cui il soprannaturale, che si tratti di fantasmi, demoni, incubi, mostri o magia nera, agisce e atterrisce proprio dove le difese sono più basse. Del resto, già molto prima della riproducibilità delle immagini in movimento, se il lupo non fosse riuscito a entrare in casa della nonna e quindi nelle mura della fiducia probabilmente non sarebbe mai riuscito a mangiare Cappuccetto Rosso, e dal momento stesso della sua invenzione il cinema ha sempre dovuto fare i conti con la centralità della casa come luogo nel quale vivere, mangiare, dormire, amare, a volte asserragliarsi e a volte essere terrorizzati.

Quando l’obiettivo della narrazione cinematografica è quello di spaventare o per lo meno inquietare il suo pubblico, la casa simbolo di serenità e le sue possibili declinazioni (hotel, ospedale, carcere) non possono che configurarsi come il luogo del quale, più di tutti, avere paura: quel luogo dove finiscono le spiegazioni razionali e ci si può solo abbandonare alla catena degli eventi, in un’impossibilità di fuggire da se stessi e dal proprio destino. Che sia il ritratto maledetto ne La caduta della casa Usher (1928) o le streghe del 1977, quella avant-pop dell’Obayashi di Hausu così come quelle i cui lamenti riecheggiano nel dormitorio dell’argentiano Suspiria, che siano i fantasmi di Kayako e famiglia che terrorizzano e uccidono in Ju-on – The Grudge (2002) o gli zombie che giungeranno a rivelare come la cantina fosse un pessimo rifugio durante La notte dei morti viventi (1968), la casa, in un elenco cinematografico potenzialmente infinito di riferimenti più o meno illustri qui volutamente snocciolati, proprio a dimostrazione di come il τόπος sia radicato, in sghembi salti temporali e geografici, può essere il luogo metropolitano dell’incontro baviano fra Lisa e il diavolo (1973) così come quello in mezzo alla natura da cui divampano la violenza, la paura e l’autosuggestione in Antichrist (2009) di Lars von Trier.
Fra spettri, demoni e pericoli corporei o metafisici, la casa è allo stesso modo il luogo delle possessioni che, sempre nel ’73, Friedkin farà soffrire alla dodicenne Regan e contro le quali dovrà intervenire, se necessario fino al sacrificio, L’esorcista, ed è il luogo – anche se l’Overlook Hotel nasce in realtà come albergo – nel quale potersi perdere nello spazio-non-spazio e nel tempo-non-tempo secondo Kubrick, magari ritrovandosi, nel 1980 di Shining, intrappolati in una fotografia del 1921.

Le mura perimetrali della casa, insomma, nella storia del cinema hanno segnato un solco indelebile, capace di racchiudere in poche stanze il male, i fantasmi, l’inafferrabile e tutte le possibili metafore che portano in seno. House of the Disappeared del giovane Lim Dae-woong, presentato al Far East 2017 come opera probabilmente più interessante nell’intera batteria sudcoreana di questa edizione, non vale forse i titoli che sono stati scomodati per introdurlo, ma in comune con loro ha la stessa solida base di partenza: le fondamenta di una casa come centro nevralgico del terrore, dal quale navigare su rotte già battute ma di sicura efficacia nella creazione di un’atmosfera orrorifica profondamente inquietante, atterrente, disturbante. Un’atmosfera dalla quale uscire brillantemente e in maniera originale, rivelando progressivamente il mistero, ribaltando sequenze, tirando le fila e facendo quadrare (quasi) tutto.
Basterebbe già l’incipit, folgorante nella sua partenza in medias res, quando la protagonista Mi-hee giace già svenuta sul pavimento, un rivoletto di sangue che le sgorga dalla fronte, svegliata di soprassalto con un coltello da prendere e l’urlo agghiacciato di un figlio da trovare e salvare. È l’inevitabile discesa in cantina, in quel mondo più buio e sempre un po’ più freddo, forse la stessa cantina nella quale si odono ancora riecheggiare i miagolii del Gatto nero di Edgar Allan Poe, forse la stessa cantina in cui, nel mistero delle bottiglie di vino, già nel ’46 Alfred Hitchcock aveva racchiuso il cuore più oscuro di Notorious.

Nel suo ritmo forsennato, nella sua costante tensione e nella sua anima nerissima, House of the Disappeared è un film profondamente inquietante, capace di spaventare come un braccio sconosciuto che spunta all’improvviso dalla porta della camera, come uno scantinato con una porta cieca e murata da una chiusura apparentemente inscalfibile e nera come un monolito, come un marito con un coltello piantato nel cuore, come un figlio che emerge dal buio cercando di essere tranquillizzato, ma che inevitabilmente verrà inghiottito dall’oscurità, forse per sempre.
Quello di Lim Dae-woong è un film di ombre, di riflessi, di presenze oscure, di sangue sugli specchi, di porte che si aprono e chiudono, di personaggi che vagano per una casa nella quale una madre sola, dopo 25 anni di carcere per gli omicidi non commessi del marito e del pargolo scomparso, ha bisogno di tornare per ricostruire gli avvenimenti e per svelare la verità, ma soprattutto per tentare di ritrovare il proprio figlio come bisogno ancestrale di chi, dopo aver sopportato nell’attesa di questa opportunità ogni dolore del carcere, è ora disposta a qualsiasi presenza, a qualsiasi spavento, a qualsiasi destino.
Mi-hee era profondamente cattolica, prima che la casa nella quale viveva senza alcun problema da più di dieci anni rivelasse le proprie presenze, ma ora non lo è più, perché il maligno va oltre la (ir)razionalità delle religioni, fra pendolini che mettono in fuga gli esperti che li manovrano e rituali interrotti per paura nel momento in cui la sensitiva cieca riesce a evocare le presenze, facendo sparire dal salotto di casa la pletora di ospiti inconsapevoli e (in)desiderati.

Dopo diverse insistenze, Mi-hee accetta di essere aiutata da un giovane prete, l’unico disposto a credere alla sua innocenza, l’unico che cerca di capire cosa stia realmente accadendo. E che, doverosa avvertenza per il lettore, ci costringerà da questo momento in poi a fare necessariamente uso di spoiler, perché il senso del film – e con questo la sua originalità e il suo netto scarto rispetto alla media di un genere di così largo consumo –, al di là del puro godimento per gli amanti del brivido nella buona riproposizione di stilemi perfettamente funzionali ma in definitiva radicati ormai nell’accademia, sta tutto nel disvelamento dei suoi misteri.
Capita spesso, infatti, che a messe in scena perfettamente oliate nell’ottenere gli effetti sperati nella creazione di suspense e sorprese non corrisponda un’adeguata cura in fase di scrittura, e che quando per i congegni narrativi verrebbe l’ora di uscire dalla spirale di tensione e terrore contestualizzando ciò che si è appena visto, si finisca per arenarsi in “spiegoni” fastidiosi e poco plausibili, oppure in vuote reiterazioni – viene in mente, in tal senso e rimanendo al Far East 2017, il mediocrissimo Take me home del thailandese Kongkiat Khomsiri – che non escono dal vicolo cieco della prevedibilità limitandosi a rigirare su un sostanziale nulla di fatto.
Ma non è assolutamente questo il caso di House of the Disappeared, capace al contrario di virare, nell’ultima e decisiva sezione, in un’acuta riflessione sul tempo e sul destino. La casa di Mi-hee, costruita su un terreno maledetto, si rivela una sorta di cortocircuito temporale, secondo il quale ogni 25 anni, nella notte dell’11 novembre, gli abitanti sarebbero costretti a morti violente e sparizioni dovute al ritorno dei vecchi inquilini, ignari dello scorrere del tempo, proprio attraverso quella porta murata in cantina.

Non può, a questo punto, che essere un ritorno a quella notte: Mi-hee ritrova se stessa nella sua gioventù, ritrova il suo marito distrutto dal dolore per la recente perdita del primogenito, ritrova un secondo figlio da salvare dalla furia omicida del padre e da una malattia per la quale la medicina non era ancora sufficientemente avanzata. E scopre di aver regalato a suo figlio la possibilità di vivere, pagando in anticipo e inconsapevolmente per un delitto che commetterà soltanto venticinque anni dopo, rivelandosi lei stessa la mano che fermerà il marito nel sangue, lei stessa quel braccio misterioso che l’aveva attaccata attraverso la porta, ma soprattutto lei stessa quella mano nell’oscurità che aveva portato via alla sua versione più giovane, ma anche alla certezza di morire, il bambino.
Sono personaggi intrappolati nello scorrere del tempo, dove il destino di una madre non può che essere quello di salvare il figlio, per poterlo poi incontrare ancora, 25 anni dopo, o forse 75, quando il figlio è più vecchio della madre invecchiata.

House of the Disappeared, portando alle estreme conseguenze la struttura a flashback fino a farla progressivamente coincidere con lo scorrere della narrazione, gioca con il tempo, ribalta le suggestioni, scarta e trasforma la tensione in viva commozione, creando una realtà soprannaturale eppure dalle dinamiche ben congegnate, a loro modo perfettamente logiche, paradossalmente credibili. E poco importa se gli altri “abitanti” della casa, nel momento in cui avverrà finalmente l’incontro fra madre e figlio, saranno in sostanza lasciati perdere come se non costituissero più una minaccia, o se il finale finirà per rivelare una vena cattolica forse eccessiva: si tratta di peccati assolutamente veniali, incapaci di intaccare la riflessione che il film compie sul tempo, sul destino, sui sentimenti. Sulla paura nei confronti di un incubo destinato a rivelarsi in ultima istanza un sogno, un’opportunità, un atto d’amore. Una salvezza che non può prescindere dal terrore più profondo.

Info
La scheda di House of the Disappeared sul sito del Far East.
Il trailer di House of the Disappeared su Youtube.
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