Gli occhi della notte

Gli occhi della notte

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Nato come veicolo di star a tutto favore di Audrey Hepburn, Gli occhi della notte di Terence Young si conferma a tutt’oggi un ottimo marchingegno di suspense e spavento, estremamente moderno nei suoi strumenti espressivi. In dvd per Sinister e CG.

Susy Hendrix è la bella moglie non vedente di un fotografo. Ritrovatasi casualmente in possesso di una bambola imbottita di droga, la donna viene avvicinata da tre criminali sotto mentite spoglie intenzionati a recuperare il prezioso giocattolo. Sola in casa, a poco a poco Susy si ritrova prigioniera di un incubo in aperta sfida col più temibile dei criminali, il nevrotico Roat… [sinossi

Spesso arriva il momento (e la tentazione) per attori e attrici di cimentarsi col film “difficile”, col personaggio che più centrale non si può, col film costruito intorno a loro. A Audrey Hepburn l’occasione gliela imbastì, nel 1967, il suo marito di allora, Mel Ferrer, producendo Gli occhi della notte (consueto titolo italiano bislacco per Wait Until Dark) tratto da una pièce teatrale di Frederick Knott. Ruolo con handicap, unità di luogo e tempo, e centralità del personaggio pressoché assoluta. Intorno a lei si aggira un pugno di altri personaggi, ma lo scopo principale dell’operazione è più che evidente: regalare all’attrice un’occasione di esibizione a tutto tondo. Fino a quel momento Audrey Hepburn aveva costruito la sua fama maggiore per personaggi carini e brillanti (ma aveva già dato ottima prova di accenti drammatici almeno in Quelle due, 1961, di William Wyler); come dichiarato dallo stesso Mel Ferrer negli extra del dvd, il progetto di Gli occhi della notte nasceva con la funzione di tributare a sua moglie un palcoscenico impegnativo, che ne mettesse in luce tutte le doti interpretative.

A conti fatti poi nel bel film di Terence Young la Hepburn non è molto diversa dal solito. Sempre sul filo della leziosità, la Susy protagonista è la consueta Hepburn dolce e lievemente enfatica in versione non-vedente, che solo nel fantastico crescendo dell’ultima mezz’ora viene messa al confronto con le asperità di una prova faticosa anche sotto il profilo puramente fisico. Per concentrarsi appieno sulla valorizzazione della star, Young non si risparmia nemmeno un eccesso di primi piani sfumati che nell’economia di un racconto fondato sulla suspense e la tensione appaiono spesso poco necessari, corroborati dalle ridondanti sottolineature della musica di Henry Mancini. Comunque sia il veicolo per la star funzionò alla grande e la Hepburn raccolse una nomination all’Oscar per il suo ultimo film realizzato prima di diradare sempre più la sua presenza sullo schermo (ritornerà solo nove anni dopo per Robin e Marian e per qualche altra partecipazione sporadica tra anni Settanta e Ottanta).

Autore britannico di tre dei primi 007 con Sean Connery (tra i migliori di tutta la serie) e ottimo professionista, Terence Young eredita il testo teatrale di Knott sfruttandolo piuttosto saggiamente in senso cinematografico. Se da un lato l’aria di palcoscenico può restare percepibile, dall’altro Young sembra piegare tale occasione all’esercizio stilistico con il film in unità di tempo e spazio, adottando palesemente una delle linee più fertili del cinema di Alfred Hitchcock, da Nodo alla gola (1948) a Il delitto perfetto (1954). Con quest’ultimo in particolare Gli occhi della notte ha più di un contatto, dal momento che non a caso entrambi provengono da testi teatrali di Knott. Come nel capolavoro di sir Alfred, la suspense è tutta demandata al fitto dialogo tra i personaggi, che si muove continuamente tra verità e mistificazione, tra fiducia e inganno. Sfruttando la dicotomia tra vedere e non-vedere insita nel personaggio cieco di Audrey Hepburn, Young gioca sagacemente con gli elementi di scena, duplicando più volte l’impedimento della vista tramite finestre, tendine che si aprono e si chiudono e sfruttamento della profondità di campo, accanto all’intelligente machiavello della vista “delegata” a un altro personaggio, l’impertinente ragazzina Gloria, vicina di casa, che assume il ruolo degli occhi di Susy.

Restano evidenti anche alcune debolezze drammaturgiche; una certa macchinosità nell’avvio dell’azione e un paio di svolte psicologiche poco motivate nel personaggio di Susy (eccessiva e immediata la fiducia accordata allo sconosciuto Mike, e decisamente irrazionale la caparbietà di non cedere sul finale alle minacce di Roat). Così come il ritorno in scena di Alan Arkin sotto vesti diverse apre pagine d’umorismo che sicuramente in un film di Hitchcock sarebbero apparse più intonate, quasi un tributo alle capacità trasformistiche di un eccellente e ancor giovane attore. Avviene insomma anche una duplicazione della messinscena, con i tre criminali che imbastiscono in tutto e per tutto una recita ai danni di Susy per recuperare la preziosa bambola, un piano fin troppo (e inutilmente) complicato visto che almeno due di essi appaiono delinquenti senza scrupoli che verosimilmente sarebbero passati ai metodi spicci in tempi più rapidi. Ciononostante nelle sue grandi linee Gli occhi della notte resta comunque ben costruito, affidando tre quarti del racconto alla suspense della parola ingannevole e della messinscena e ritardando sapientemente, quasi fino all’asfissia, l’esplosione dell’azione. È un film che nasce col chiaro intento di spaventare il pubblico ma senza ricorrere agli effettacci e alle tinte forti; ben lungi dal voler essere un horror, si profila piuttosto come un “proto-thriller” anticipatore di molti canoni espressivi anni Ottanta.

Benché resti efficace e abbastanza avvincente anche nella sua lunga e laboriosa preparazione, il film di Young s’impenna clamorosamente nell’ultima mezz’ora, quando l’unità di luogo chiuso si stringe intorno a due soli personaggi, Susy e il nevrotico Roat. La tensione e la minaccia si fanno più esplicite, mentre Young scoperchia un fantastico armamentario espressivo giocando fino alla maniera sul tema del buio e della luce. Il film compie quest’anno 50 anni tondi tondi, eppure nel suo ultimo capitolo fa ancora saltare sulla poltrona concedendosi pure qualche accensione di violenza decisamente inconsueta per il mainstream del tempo. Alcune soluzioni narrative ed espressive appaiono semplicemente geniali (la sfida con la tanica di benzina e i fiammiferi, Susy che cerca insistentemente il buio per giocare ad armi pari con l’aggressore, quel frigorifero aperto da Roat a tradimento come unica fonte di luce capace di riportare la sfida su un piano impari…). Risulta piuttosto indicativo un cartello d’epoca visibile negli extra del dvd, un avvertimento al pubblico del tempo che negli ultimi 8 minuti la sala sarebbe stata portata al massimo buio “legalmente” consentito per accentuare gli effetti del film. Il buio totale della sala va quindi ad accoppiarsi alle lunghe inquadrature totalmente buie che spesso ricorrono nello scioglimento, sospendendo il racconto in modo quasi intollerabile e lasciando del tutto allo spettatore il compito spaventoso di inferire eventuali movimenti dei due personaggi nell’oscurità. Il risultato è che il buio del bilocale di Susy, in quegli attimi di sospensione, si tramuta in buio totale, extrafilmico, si espande fuori dallo schermo, ci coinvolge e ci riguarda, con perfetta acrobazia di mimesi e identificazione, e il fiato sul collo di Roat lo sentiamo anche alle nostre spalle dietro la poltrona.

Nella sua ultima mezz’ora Gli occhi della notte si tramuta così in un perfetto oggetto di “filmicità”, un’opera che non si pone null’altro scopo che esistere per se stessa e mettere in funzione tutti i suoi possibili strumenti per una finalità quasi estetizzante, chiusa in sé, il cinema che si esibisce in tutte le sue potenzialità protese allo spavento. In tutto questo Alan Arkin finisce quasi per rubare il film a Audrey Hepburn. Se il delizioso volto dell’attrice, con le sue dolcezze e i suoi fremiti, possiamo ritrovarlo pressoché invariato in altre opere, raramente in un film di quegli anni si è visto uno psicopatico così ben tratteggiato. Indovinato pure nella sua fisicità e nel suo abbigliamento con giubbotto di pelle nera, il Roat di Alan Arkin è un magnifico prototipo per tutti gli squilibrati che nei decenni successivi invaderanno a poco a poco una parte del mainstream americano. Cinico, dalla battuta pronta e tagliente, fascinoso e respingente, poi scopertamente aggressivo e violento. Un esteta del crimine all’arma bianca che nasconde coltelli in statuette a scatto, anticipati in modo decisamente provocatorio nella prima inquadratura del film, con quel tessuto rosso della bambola squartato da un coltello con effetto anfibologico che rimanda alla carne viva. In ultima analisi, in una lunga carriera a luci e ombre Gli occhi della notte gareggia per piazzarsi tra i migliori film di Terence Young, al fianco degli 007.

Info
“A Look in the Dark” (8′ 38”), galleria fotografica, trailer cinematografico.
Il trailer di Gli occhi della notte.
La scheda del film sul sito di CG Entertainment.
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