La terza parte della notte

La terza parte della notte

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La terza parte della notte mette in chiaro, fin dall’esordio, quelli che saranno tratti esclusivi e riconoscibili dell’intero approccio registico di Andrzej Żuławski, a partire dal tema del doppio e della replica dell’esistente che qui si estrinseca tanto nel desiderio irreprimibile di Michał di ottenere una “seconda possibilità” che gli permetta di emendare gli errori commessi quando i suoi cari erano in vita, quanto nel quel ritornare di Helena. Tra i titoli della rassegna Grandi classici del cinema polacco di CiakPolska 2024.

Il senso di Michał per la colpa

Rifugiatosi durante la guerra in un piccolo castello isolato nel bosco, Michał si ristabilisce dal tifo. Improvvisamente un giorno, mentre passeggia con il padre, un gruppo di cavalieri ucraini irrompe nel castello e massacra la di lui moglie Helena, il figlio Lukasz e la madre… [sinossi]

Se il cinema può apparire a prima vista come un atto collettivo – e da una determinata prospettiva dialettica e sociale non c’è dubbio che ciò risponda a verità –, nella sua postura “moderna” la settima arte si è indirizzata verso uno scavo dell’identità, del ruolo del singolo in un contesto più ampio, e dell’analisi introspettiva di un’umanità allo sbando, dominata e sballottata dalla Storia, e dal suo senso. Una speculazione che è stata in grado, a partire dagli anni Sessanta, di attraversare senza particolari problemi quella Cortina di Ferro che le nazioni avevano eretto idealmente per separare occidente e oriente dell’Europa: si pensi ovviamente alla Nová vlna cecoslovacca, e in particolar modo alle sue opere più dirimenti (quelle a firma Miloš Forman, Věra Chytilová, Ivan Passer, Jiří Menzel), ma in modo generale a tutte le “nuove onde” che si svilupparono a seguito del cataclisma produttivo francese di fine anni Cinquanta. La disperata e forse per larghi tratti inconoscibile identità del singolo nel bailamme storico-politico-sociale-culturale è uno dei temi centrali anche nel nuovo cinema polacco, e le tracce sono così evidenti che i registi che espatrieranno non potranno che condurle con loro – ad esempio il Roman Polanski “inglese” di Repulsion e Cul-de-sac; a questo si somma una forte discendenza dell’avanguardia surrealista, che trova sbocco in una visionarietà anche livida ma non disdegna di forti tratti grotteschi. Ha trentuno anni Andrzej Żuławski quando esordisce al lungometraggio con Trzecia część nocy, tradotto letteralmente come La terza parte della notte: alle sue spalle un paio di cortometraggi televisivi, entrambi del 1967 (Pieśń triumfującej miłości, vale a dire Una canzone d’amore trionfante, e Pavoncello), e soprattutto il lavoro come assistente alla regia e all’occorrenza attore per quello che il nome più importante della produzione nazionale, Andrzej Wajda. Ed è proprio l’esperienza maturata sui set di Samson (1961) e Popioły (Ceneri sulla grande armata, 1965) a fare capolino in filigrana durante la visione de La terza parte della notte, in particolare il film del 1965.

Entrambi i film sviluppano infatti la narrazione all’interno della cornice di un contesto bellico, quello delle guerre napoleoniche per Wajda, e della Seconda guerra mondiale per Żuławski; entrambi i film hanno come elemento centrale un personaggio che sta cercando di fare i conti con se stesso e con la propria intima identità, con il Rafał Olbromski di Ceneri sulla grande armata cui toccherà disilludersi rispetto agli ideali di trionfo della rivoluzione e al concetto di “libertà” e il Michał de La terza parte della notte che rivede la defunta e amata moglie Helena in ogni donna in cui gli capita di imbattersi. Se però sotto il profilo meramente stilistico, e per l’appunto in alcune derive contenutistiche, la poetica sembra muoversi nel solco wajdano, La terza parte della notte mette immediatamente in chiaro, fin dall’esordio, quelli che saranno tratti esclusivi e riconoscibili dell’intero approccio registico di Żuławski, a partire dal tema del doppio e della replica dell’esistente che qui si estrinseca tanto nel desiderio irreprimibile di Michał di ottenere una “seconda possibilità” che gli permetta di emendare gli errori commessi quando i suoi cari erano in vita – madre, moglie e figlio sono stati sterminati dall’esercito nazista – quanto in quel ritornare di Helena, interpretata da Małgorzata Braunek, che lavorerà con il regista anche nel successivo Diabel (Il diavolo) ma si era formata a sua volta alla scuola di Wajda (Polowanie na muchy / Caccia alle mosche e Krajobraz po bitwie / Paesaggio dopo la battaglia). La doppiezza femminile dal valore quasi hitchcockiano serve qui però al cineasta per sottolineare, o per meglio dire “formalizzare” la scissione in atto in Michał, il cui travaglio interiore diviene dunque visibile. L’immagine come unico veicolo non per stabilire una verità inconoscibile all’umano – ed è questo uno degli elementi che spinsero le autorità polacche a censurare i lavori di Żuławski, insieme a un livello di brutalità che non poteva essere facilmente tollerato – ma per portare a galla lo scisma interiore, il dilemma, la schizofrenia di un essere e del mondo nel quale si muove.

Ecco dunque che Żuławski ha bisogno di far deflagrare la sua violenza visionaria, di condurre all’estremo questo racconto che per di più si basa sulle vere esperienze vissute da suo padre Mirosław Żuławski (che partecipa alla scrittura della sceneggiatura) durante il terribile periodo dell’occupazione nazista. In questo cupo delirio che non prevede vie di fuga, e si tiene a debita distanza da qualsivoglia utopia rasserenante, si possono udire fuori campo i colpi di fucile che fanno piazza pulita della famiglia del protagonista, ma non si lesinano dettagli tesi a sconvolgere la prassi dello sguardo, le abitudini pigre degli spettatori. Lontano da ogni condiscendenza nei confronti del pubblico, e delle sue inveterate abitudini “borghesi”, Żuławski sprofonda a tal punto nell’assurdo che non è ovviamente dimentico della voragine kafkiana da spingere la sua creatura in territori puramente orrorifici – già solo la sottotrama dedicata all’esperimento che ha per protagonista i pidocchi la dice lunga su determinate derive –, al punto da prefigurare com’è ovvio lacerti della futura esperienza autoriale del regista (su tutti Possession, ça va sans dire) ma anche svisate paranoidi di altri colleghi concittadini, come il Roman Polanski de Le Locataire (L’inquilino del terzo piano, 1976). La carriera di uno dei grandi eretici del cinema europeo delle ultime decadi del millennio si apre sul racconto di una sopravvivenza impossibile, impensabile, orripilante anche se doverosa. In un mondo che non ha più divisori possibili tra realtà e follia, tra distruzione e vita. Dopotutto l’aveva sentenziato l’Apocalisse di Giovanni già da principio, e poi alla fine, ed entrambe le volte per voce di Helena/Marta: “Il quarto angelo suonò la tromba e un terzo del sole, un terzo della luna e un terzo degli astri fu colpito e si oscurò: il giorno perse un terzo della sua luce e la notte ugualmente”.

Info
La terza parte della notte sul sito del TFF.

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