La fidanzata di Glomdal

La fidanzata di Glomdal

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Fra i paesaggi norvegesi, la tipica spiritualità e un fiume in piena da attraversare come metafora delle barriere sociali fra i due innamorati protagonisti, La fidanzata di Glomdal di Carl Theodor Dreyer punta il dito contro i matrimoni combinati, portando al centro l’amore come dono divino nel quale l’uomo non deve interferire. Un titolo probabilmente minore al cospetto dei capolavori che saprà successivamente concepire e portare a termine il gigante danese, ma sono già molte le anticipazioni della sua grandezza e della sua classe. Alle Giornate del Cinema Muto 2017.

Oh Tore, Tore! Wherefore art thou Tore?

Tore si occupa della fattoria di famiglia. Con la sua energia giovanile, intende farla diventare una grande fattoria come quella gestita dalla famiglia Glomgarden dall’altro lato del fiume. Tore e la bella Berit Glomgarden si innamorano, ma suo padre l’ha promessa al ricco Gjermund. Mentre il matrimonio con Gjermund si avvicina, Berit scappa per cercare rifugio da Tore e i suoi genitori. Cade da cavallo, rischia la vita e viene ripudiata per la fuga, ma recupera, chiedendo e ottenendo il permesso di suo padre di sposare Tore. Il geloso Gjermund è determinato a impedire il loro matrimonio, ma in un climax drammatico Tore riuscirà ad attraversare a nuoto il fiume in piena e a raggiungere per sempre la sua amata, con la quale verrà unito nel nome di Dio… [sinossi]

Al momento della proiezione inaugurale a Oslo, nel 1926, La fidanzata di Glomdal occupava con i suoi fotogrammi oltre due chilometri e mezzo di pellicola 35mm, per un totale di quasi due ore. Oggi, di questo film realizzato in Norvegia dal leggendario regista danese Carl Theodor Dreyer poco prima di trasferirsi in Francia per girare, due anni dopo, quella vetta d’assoluto che è La passione di Giovanna d’Arco, rimangono circa 1250 metri, per un totale di 75 minuti. Quasi metà di quello che era La fidanzata di Glomdal, probabilmente la sua parte centrale, è allo stato attuale delle cose da ritenersi perduta per sempre, e per quanto questa versione da un’ora e un quarto restaurata nel 2009 dal Danske Filminstitut di Copenaghen riesca a restituire la narrazione, il pathos e il messaggio del film senza che ci sia una reale percezione di salti e parti mancanti, non può che farsi largo il rimpianto verso quell’opera originale vista più di novant’anni fa e ora mozzata, frammentaria, non più disponibile nella sua versione integrale, che non è difficile immaginare, conoscendo il gigantismo cinematografico e la statura morale di Dreyer, più dilatata nel suo svolgimento e maggiormente lirica nella potenza delle immagini.

Un rimpianto che viene acuito dalla pasta per lo meno discutibile di questo restauro, proiettato alle 36me Giornate del Cinema Muto di Pordenone in un DCP impietoso nel rivelare la dubbia filologia dell’intervento. Si tratta di un restauro estremamente pulito, troppo pulito, che appiattisce la fotografia dreyeriana sugli standard visivi di oggi riducendo la grana ed eliminando quasi del tutto i segni del tempo, e con loro quei tremolii, quei flicker e quei piccoli sbalzi di luce che facevano a tutti gli effetti parte del film tanto quanto le parti andate perdute. C’è poi il trasferimento a 17 fotogrammi al secondo che non convince appieno, con gli attori intrappolati in un effetto ralenti che sembrerebbe indicare come qualcosa nei calcoli sulla fluidità sia andato storto. E poi ci sono i cartelli, ricostruiti in doppia lingua, danese e inglese, con una grafica minimale ma decisamente troppo moderna, un po’ per il font vistosamente figlio degli anni della videoscrittura computerizzata, un po’ per il nero assoluto da cui emergono, che non può che stonare con i ben più tenui toni di grigio delle immagini messe in scena da Dreyer. Ma è una questione, quella sui cartelli, in realtà spinosa, perché da un lato ha pieno senso sottolineare anche visivamente il fatto che gli intertitoli siano stati ricostruiti in restauro, probabilmente rimaneggiati e in gran parte differenti rispetto alla lista originaria in seguito alla perdita parziale o totale dei cartelli del tempo, senza voler creare arbitrariamente una sorta di falso d’autore, ma d’altra parte lo scopo del restauro dovrebbe sempre essere quello di riportare il film a una condizione il più possibile simile a quella del momento della prima proiezione, e di certo non erano l’Arial e il Times New Roman, né il loro sfondo digitale, i caratteri impressionati su quei 2500 metri di nitrato srotolati a Oslo nel ’26.

Ma non divaghiamo. Non è sul restauro danese dell’opera di Dreyer, per quanto oggetto di discussione quasi inevitabile nel momento in cui si pone come unica versione disponibile (e con un montaggio giocoforza molto diverso da quello originale che ha messo insieme le parti sopravvissute al tempo), che ci vogliamo concentrare. Il reale interesse è verso (quel che resta de) La fidanzata di Glomdal, perfetto film rurale norvegese fatto di paesaggi assolati e di amore matto e disperatissimo, fatto di barriere sociali e di riconciliazioni, fatto di centralità della donna che vince le oppressioni e di profonda umanità, girato da Dreyer in breve tempo durante la pausa estiva dei teatri prima che gli attori dovessero tornare a preparare le rispettive stagioni.
Più che su una sceneggiatura vera e propria, sul set de La fidanzata di Glomdal Dreyer si è divertito a lavorare su un canovaccio che univa due romanzi di Jacob Breda Bull, Eline Vangen e, appunto, Glomsdalbruden, entrambi fermi nella condanna dei matrimoni combinati e nell’esaltazione dell’amore, decidendo quasi giorno per giorno come portare avanti le riprese e lasciando un inedito spazio all’improvvisazione. Ma a quella che è stata l’unica pausa in carriera dal rigore dreyeriano nella scrittura, non lo è stata di certo per il rigore nella scelta delle inquadrature, né tanto meno per il rigore tematico, inevitabile figlio della formazione rigidamente luterana imposta a Carl Theodor Dreyer, figlio illegittimo di un contadino e una governante, dalla sua famiglia adottiva, e che sarà punto di partenza fondamentale per tutta la sua filmografia fino al miracolo della resurrezione che chiuderà Ordet.

Ne La fidanzata di Glomdal, sorta di Romeo e Giulietta campestre fatto di distanze sociali e di genitori oppressivi che pretendono per la figlia un danaroso partito e non certo un contadino, non solo l’amore è considerato un dono divino sul quale l’uomo non deve né può in alcun modo interferire, ma sarà proprio una figura religiosa, il vicario del paese, a ospitare Berit e a recarsi personalmente dal padre per farlo tornare sui suoi passi, facendogli nuovamente accettare la figlia fuggita al matrimonio da lui combinato con Gjermund e facendolo finalmente acconsentire alle nozze con il volenteroso Tore. Si tratta di una visione inedita del clero da parte di Dreyer, ben più interessato in genere alla spiritualità personale che alla funzione morale degli uomini religiosi. Una visione, di fatto, mutuata dai libri di Bull, seguiti fedelmente nel dipanarsi della trama, ma maggiormente umanizzati sia con accenti sulla ribellione di Berit considerata dal padre alla stregua di un pacco postale e invece pronta anche a parole, nel litigio, a farsi valere e a far valere l’eguaglianza sociale, sia nella caratterizzazione del pretendente ricco, sconfitto e vendicativo Gjermund, che rimane personaggio negativo nelle sue gelosie e nei suoi accordi matrimoniali che scavalcano del tutto la volontà della donna, ma viene pervaso nelle motivazioni dei suoi gesti da una disperazione di fondo totalmente assente in Bull e invece quasi commovente in Dreyer.

Quando Tore, al momento del matrimonio, si ritroverà a dover attraversare il fiume prima a cavallo e poi a nuoto a causa del tentativo di sabotaggio di Gjermund che, armato di accetta, manderà alla deriva tutte le sue imbarcazioni, Dreyer costruisce in montaggio una tensione palpabile, che attanaglia e avvince lo spettatore fra il pericolo corso da un uomo in balia della corrente, sempre più vicino alle rapide, e la corsa a terra di Berit che segue con apprensione il suo amore, temendo fino all’ultimo che per raggiungerla l’uomo perda la vita.
È una messa in scena straordinariamente moderna, ispirata probabilmente da Griffith e in grado di anticipare gran parte del cinema futuro, con la quale Dreyer canalizza nella sequenza-chiave del film le emozioni di chi guarda fino a giungere a una completa identificazione. Nei paesaggi nordici, Dreyer innesta la potenza della messa in scena, la lirica delle immagini e del loro accostamento, la tensione narrativa del linguaggio cinematografico, per poter giungere al finale che riequilibra tutto nel sollievo, nell’abbraccio di chi ce l’ha fatta, nella giustizia divina che fa il suo corso con il matrimonio d’amore. Tutte le precedenti incomprensioni e forzature sono annullate, ed è tempo che l’ultima inquadratura salga lungo la facciata e il campanile della chiesa, fino a quella croce che dichiarerà l’assoluta santità dell’unione.

Certo, rispetto a quelle che saranno le vette inusitate raggiunte da Carl Theodor Dreyer nei futuri capolavori, La fidanzata di Glomdal è con ogni probabilità (il beneficio del dubbio, nel momento in cui ci si ritrova di fronte a un film molto lontano dalla versione originale e integrale, ci pare pienamente legittimo) un’opera minore, dalla quale si intuisce quella che sarà la grandezza del cineasta danese ma di fatto ancora lontana da quello che sarà, già dal successivo La passione di Giovanna d’Arco fino a Ordet, passando per Vampyrs e Dies Irae, il percorso autoriale di uno dei registi più importanti della storia del cinema. Eppure, sottovalutare e liquidare, se non addirittura dimenticare come del resto è stato fatto per molti anni, La fidanzata di Glomdal, non solo sarebbe ingeneroso, ma anche profondamente sbagliato.
Nelle vicende vissute da Berit e Tore, fra l’amore urlato senza paura di classe alla festa di paese e i piedi sbattuti sulla botola della soffitta in cui la ragazza si rinchiude per evitare il padre decisionista, fra la caduta da cavallo di Berit in fuga per raggiungere Tore e il rapporto che durante la convalescenza si instaura fra lei e i genitori di lui, fra i teneri baci quando Berit guarisce e la decisione di recarsi a casa del vicario per non rischiare che il desiderio trascinasse il loro puro amore nel peccato della lussuria, fra l’incontro del vicario con il padre di lei che si conclude con la penitenza e il perdono da parte di un uomo che non può che concedere la mano della figlia al pretendente innamorato e la prova di forza e coraggio di Tore che attraversa il fiume rischiando la vita pur di coronare il proprio amore contrastato ma protetto da Dio, Dreyer innesta tutte le sue tematiche di profonda spiritualità e di ferma condanna al maschilismo della società, mentre lascia emergere la sua classe sconfinata nella messa in scena.
Certo, rimane il rimpianto per quel film che è stato e che probabilmente non sarà mai più, rimane la domanda irrisolta su quali altre perle siano state disseminate dal gigante danese in quei 1250 metri ormai perduti, non catalogati, inesistenti. A meno di un miracolo. Perché, trattandosi di Carl Theodor Dreyer, non ci stupirebbe più di tanto se prima o poi, dai fondi di qualche archivio dismesso e dimenticato, da qualche bobina in nitrato mai catalogata e che nemmeno si sa di avere, spuntasse una copia inaspettata, e completa, de La fidanzata di Glomdal per come era quella sera del ’26 a Oslo. Sarebbe un ritrovamento straordinario, unico, che riporterebbe sul suo campo il regista più “miracoloso” della storia del cinema. Un regista che ha sempre insegnato che non bisogna mai smettere di sperare. Che non bisogna mai smettere di crederci.

Info
La scheda di La fidanzata di Glomdal sul sito delle Giornate del Cinema Muto.
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