Kalpana

Kalpana

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Presentato nella rassegna sul cinema indiano Affinità elettive, terminata da poco presso il LAC Lugano e curata da Marco Müller, Kalpana è uno straordinario affresco di cinema, musica e danza che celebra l’indipendenza del paese. Unica opera per la settima arte del grande coreografo e danzatore Uday Shankar. Film restaurato nel 2012 dalla World Cinema Foundation di Martin Scorsese.

La fabbrica della danza

Uno sceneggiatore spiega a un produttore cinematografico il progetto per un film. Si tratta della storia di un giovane danzatore che fonda una propria accademia di danza, organizzando anche un festival. [sinossi]

Kalpana, che significa ‘immaginazione’, è un caposaldo della storia cuturale-cinematografica-musicale dell’India. Un film in hindi uscito nel 1948, dopo una lavorazione di cinque anni, celebrando così l’ottenuta indipendenza del paese. Scritto, diretto e interpretato dal grande danzatore e coreografo Uday Shankar, che fu artefice di uno stile che ibrida elementi delle danze classiche indiane con quelle europee e moderne, anche a seguito dell’incontro con la ballerina russa Anna Pavlova. Popolarissimo anche in Europa – di lui James Joyce scrisse: “Si muove sul palcoscenico come un semi-dio”– Shankar non ha più lavorato nella Settima Arte; Kalpana risulta così il suo unico film.

Kalpana porta sul grande schermo il sincretismo artistico del suo creatore. E all’ibridazione di forme teatrali, di danza e musicali aggiunge anche il cinema, il cui linguaggio è contemplato e dichiarato da subito. Lo sceneggiatore, nell’incipit che iscrive il film in flashback, cerca di convincere il produttore a finanziare il proprio progetto, ma questi è riluttante perché per lui l’unica cosa che conta è il box office. Un inizio enunciativo, teorico e programmatico di un nuovo cinema nazionale, come forma d’arte, che celebri la variegata cultura del paese. Non a caso la parola “box office” è uno di quei termini inglesi usati nel film, che spesso hanno una connotazione negativa. Il tema dei finanziamenti, e della difficoltà di ottenerli, per la realizzazione dei progetti artistici torna in Kalpana, e si collega ancora al cinema. Katimi, una delle protagoniste, suggerisce a Udayan di allearsi con il cinema, lei conosce un produttore di Bombay. La Settima Arte è vista come una fabbrica di soldi. Udayan, che è l’alter ego dello stesso Uday Shankar, però rifiuta perché reputa che l’industria cinematografica stia portando solo valori negativi nel paese. Così ancora il regista-coreografo sancisce il distacco rispetto al cinema occidentale e coloniale. Solo traendo linfa dalle sue forme artistiche autoctone, l’India potrà sviluppare una propria cinematografia. E Shankar sa usare il linguaggio filmico per dare nuove dimensioni agli spettacoli di danza. Come quando, attraverso dissolvenze, riunisce in un’unica inquadratura le varie parti di uno show teatrale, il volto e il braccio del danzatore, gli strumenti musicali. O come quando carrella dal palcoscenico al backstage, sorvolando le quinte, di uno spettacolo a teatro. O come quando alterna due file di ballerini che si fronteggiano, una maschile e una femminile, in un numero di danza come un campo-controcampo. I suoi approcci per inserire i numeri di danza nel flusso filmico sono i più svariati, passando da un primo intermezzo extradiegetico di una rappresentazione di teatro kathakali tra le scene a scuola, a esibizioni diegetiche dei personaggi nei loro allestimenti. Shankar mostra grande creatività anche nel realizzare raccordi, stacchi tra i vari momenti del film, gli equivalenti del sipario teatrale. A volte il fumo, a volte sipari veri e propri degli spettacoli in scena, in un caso un sipario/dissolvenza che dal teatro apre su riprese filmate, in un caso un sipario “extradiegetico” cala chiudendo lo schermo. In una scena inquadra della frutta al centro del pavimento per poi allargare scoprendo di essere in un’altra scena. Un simile espediente lo si trova nel dettaglio di un tamburo, mentre ancora un tamburo diventerà un tamburo gigantesco su cui si muovono i danzatori. Tutto questo in un film pieno di momenti onirici, all’interno di una narrazione che è tutta nell’immaginazione dello sceneggiatore. Il cinema e il teatro si confondono spesso. Con alcuni esterni girati in realtà con lo sfondo di grandi scenografie. E lo stile della fotografia, pur spesso all’aperto, guarda all’espressionismo, giocando spesso con le ombre. Il numero di danza con gli operai della fabbrica, tra i grandi ingranaggi, evoca tanto Tempi moderni quanto le scene della mega-macchina di Metropolis. Mentre la protagonista con i bambini poveri ricorda l’ingresso in scena di Maria sempre nel film di Frtz Lang.

Kalpana è palesemente autobiografico, raccontando del difficile percorso formativo di un danzatore che corona il suo sogno di realizzare un’accademia di danza, riflesso di quella fondata realmente da Shankar ad Almora. La danza è il linguaggio unificatore della grande nazione indiana, cui confluiscono tutte le arti performative tradizionali, dal kathakali al bharatanatyam, che nel film vengono messe in scena fedelmente al messaggio di Shankar. La danza sancisce la rinascita di un popolo e di una nazione, rappresenta un messaggio politico, un principio di parità sociale e di genere. Non a caso si cita Gandhi, morto prima dell’uscita del film. Mentre la spocchiosa Kamini detesta le danze dei contadini del villaggio che definisce primitive, Udayan farà mettere in scena, durante il festival, delle danze scambiate erroneamente come africane. Si tratta, come spiega lo stesso protagonista, in realtà di forme di ballo originarie delle tribù delle Naga Hills, al confine tra l’Assam e la Birmania. E Udayan punta il dito proprio contro il cinema di Hollywood che ha operato questa mistificazione, contro quel cinema di esotismi di cartapesta, espressione di una cultura di omologazione.

Info
L’ispirazione kathakali presente in Kalpana.
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