Intervista a Robert Guédiguian e Ariane Ascaride
Con l’uscita in sala de La casa sul mare (La villa) abbiamo avuto l’occasione, al romano Rendez-Vous del cinema francese, di intervistare Robert Guédiguian e Ariane Ascaride nella cornice del Westin Excelsior su via Veneto. Con il regista e la sua musa e compagna si è parlato del film, del loro cinema, di politica, di socialismo e perfino di Karl Marx.
La Villa, il sogno architettonico e sociale del padre dei protagonisti, è una piccola utopia socialista. Lei si ritiene più realista o utopista nelle sue narrazioni?
Robert Guédiguian: Credo che entrambi gli aspetti siano importanti, e sia necessario trovare il modo di tenerli insieme. In tutti i film ci deve essere qualcosa in cui si crede, e che dia un’aria “naturale” all’opera, ma allo stesso tempo il film deve anche assomigliare a una parabola, una promessa. È lì che interviene l’aspetto utopico. Credo che i film in un certo senso vogliano annunciare un tempo nuovo, e quindi entrambi gli aspetti devono essere presenti, senza sbilanciarsi troppo da un lato o dall’altro.
Nei suoi film, e La Villa è solo l’ultimo esempio, dimostra di credere ancora molto nella solidarietà sociale. È qualcosa che percepisce ancora in Francia, o in Europa in generale, visti i venti di destra che insorgono un po’ ovunque?
Robert Guédiguian: Penso che l’idea della condivisione, il desiderio della condivisione, esista ancora in tutte le società, ed esista ancora nei paesi europei. Il problema è che a volte si manifesta a livello solo locale, addirittura a livello di quartiere o perfino di immobile. Questa condivisione però non ha più alcuna traduzione politica, vive sempre più distaccata dalla politica. C’è un fenomeno nuovo, e riguarda le persone che fanno politica muovendosi al di fuori della politica; fanno politica al di fuori della fase elettorale, fanno politica al di fuori dei partiti. Cercano di fare quello che i politici non fanno. Per esempio, per tornare al tema degli immigrati, in Francia ci sono moltissime persone che li accolgono. Il problema è che sono costretti a farlo mettendosi contro la legge, perché è vietato. Questo è grave, anche perché vuol dire che non sanno come far fare ai politici quello che dovrebbe essere il loro mestiere. Da un lato è ovviamente positivo che lo facciano, dall’altro dimostra la gravità della situazione, perché non spetterebbe a loro farlo.
In Italia viviamo la stessa situazione… Ad Ariane Ascaride volevo chiedere in che modo, dopo quarant’anni di collaborazione artistica e umana e di vita comune con Guédiguian, costruisce i personaggi: è un’unica grande Ascaride che prende corpo in scena e si sviluppa di film in film? C’è un’osmosi diretta fra l’Ascaride fuori dalla scena e quella in scena?
Ariane Ascaride: No, assolutamente no. Innanzitutto perché non mi diverto affatto a riportare i personaggi a ciò che sono io. È ovvio che sono sempre io, perché in scena ci sono il mio viso e il mio corpo. Però se faccio questo mestiere e ho scelto di farlo è proprio per cercare al di fuori di me personaggi che fossero interessanti. Quando mi dice questo comunque mi fa un grandissimo complimento, perché lei ha l’impressione che sia io a svilupparmi, e invece sono solo i personaggi a farlo, utilizzando la mia faccia e il mio corpo.
Ma interviene nel processo di scrittura del film, a parte Le voyage en Arménie dove è anche accreditata?
Ariane Ascaride: No, quella è l’unica occasione in cui è avvenuto. Mi stupisco sempre quando leggo di qualche attore o attrice che afferma di aver rifiutato una parte perché la sentiva troppo lontana da sé. Per me è tutto il contrario, è proprio questo che mi fa piacere. Mi piace l’idea di dar vita a un personaggio che ha preoccupazioni e interessi del tutto distanti dai miei. Per Le voyage en Arménie è un altro discorso, ma anche in quel caso il personaggio in scena non sono io. Forse il personaggio più vicino a quel che sono io, tra quelli che ho interpretato, lo si può trovare in Au fil d’Ariane.
In una delle sequenze che ho personalmente trovato più toccanti ed emozionanti de La casa sul mare c’è un flashback nel quale rivivono le immagini di Ki lo sa?, con Bob Dylan in sottofondo? Era una sequenza già presente in fase di scrittura o l’ha elaborata al montaggio?
Robert Guédiguian: Quando abbiamo iniziato a scrivere questo film ci siamo resi conto che nell’argomento stesso alla base della narrazione c’era questa grande forza del passato. E a questo punto ci è venuta in mente questa scena, che avevamo girato nello stesso calanco trent’anni prima, con un personaggio poi scomparso – quello del marito che aveva lasciato Ariane dopo la tragedia. Abbiamo scelto di inserire questa scena in modo molto brutale, come qualcosa che faccia irruzione, come un’eruzione, come un vulcano ribollente. Dà il senso di una generazione decaduta, che può trovare senso solo nel passato, e devo dire che mi piace davvero molto.
Rimanendo più o meno sul tema, ho una domanda che faccio a entrambi. Nel corso degli anni lei ha creato attorno a sé un nucleo di attori molto omogeneo, crescendo e invecchiando con loro. Cos’è il tempo nel cinema? Quale valore assume?
Robert Guédiguian: Pensando proprio al flashback, mi viene in mente che il cinema serve anche per resistere alla morte. Ma il cinema è anche un’immagine animata, viva, contrariamente a tutte le altre arti nelle quali le immagini sono ferme, immobili. Il cinema permette di superare il tempo, di tornare a ritroso per salvare dalla morte i personaggi, o per mostrare uno accanto all’altro un attore a trent’anni e poi a sessanta.
Ariane Ascaride: Non so davvero rispondere a questa domanda. Non perché il tema del tempo non mi colpisca, sono anche io vittima della nostalgia, ma perché credo sia indispensabile muoversi sempre in avanti. Non è qualcosa che faccio in maniera premeditata, va oltre le mie possibilità. Vedendo le due sequenze rimango senza dubbio commossa, ma quando le vedo penso alla giornata di lavoro che abbiamo trascorso sul set, allora come oggi. Quando parlo dei film io parlo sempre della lavorazione, e non del risultato. Mi interessa il lavoro, e quello guarda sempre avanti, travalica il tempo. Il cinema pretende questo, di andare sempre avanti.
Voglio spostare l’attenzione su un altro ruolo che ha ricoperto, quello di produttore per Il giovane Karl Marx di Raoul Peck, perché credo sia un film che in qualche modo parla anche molto al suo cinema. In che modo è entrato nel progetto e come si è sviluppato?
Robert Guédiguian: Conosco Raoul da oltre venti anni, e si era messo a fare delle cose con Pascal Bonitzer, altro sessantottino e maoista. Poi un giorno Raoul mi chiama e mi dice “abbiamo scritto un film sulla gioventù di Karl Marx e Friedrich Engels, e sulla nascita del Manifesto del Partito Comunista”. Così mi sono messo a leggere la sceneggiatura e non ho smesso fino a quando non sono arrivato alla fine. Mi sono reso conto che attraverso un racconto erano riusciti a raccontare la nascita del pensiero di Marx, ovviamente in modo stilizzato e ridotto. Ma erano riusciti a condensare il pensiero filosofico, e a raccontare l’incontro di Marx con il movimento operaio, l’incontro tra la teoria e la massa. Mi sono detto che bisognava tentare di tutto pur di riuscire a finanziarlo. Quando la sceneggiatura è arrivata a me erano già cinque anni che Raoul e Pascal provavano a trovare produttori, senza fortuna alcuna; da quando sono intervenuto io ci sono voluti altri tre anni. Però il film esiste, e io ne sono molto contento. Credo che l’unico modo per mettere in moto una forma di socialismo oggi sia quello di tornare ai testi fondatori del pensiero nel corso del Diciannovesimo Secolo, o anche prima. Quindi rileggere Marx, ma anche Jaurès e Victor Hugo parlando per i francesi, perché essere originali significa saper tornare alle origini.
Tornando a La casa sul mare, il film affronta in maniera laterale ma con una sua centralità il tema peculiare dei nostri giorni, vale a dire l’immigrazione che in molti amano definire “clandestina”. In questo momento in cui molti governi si muovono per erigere nuovi muri un po’ ovunque per cercare di limitare la libertà di movimento delle persone, è ancora un’arma il cinema? Nel panorama attuale dell’audiovisivo è ancora un’arma forte il cinema anche per le giovani generazioni?
Robert Guédiguian: Penso proprio di sì, credo sia tutt’ora un’arma molto forte e potente, proprio per la forma stessa del cinema, che deve commuovere, e nell’etimologia della parola troviamo anche il verbo “muovere”. Quindi il cinema deve mettere in movimento, e deve e può farlo anche con i giovani, che è necessario far uscire dall’inattivismo in cui sono immersi. Per quanto riguarda il film ho scelto di rappresentare tre bambini attraverso i codici dell’innocenza, del lirismo. Non mi interessa fare altrimenti, e sono certo che vi siano degli immigrati che delinquono, ma non è questo il punto. Ho cercato di andare all’essenza stessa della domanda, e credo sia una domanda molto semplice in fin dei conti: di fronte a dei bambini che bussano alla tua porta, tu che fai? Apri o la lasci chiusa?