Altre epifanie

Altre epifanie

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Con il ritrovamento di una registrazione in VHS di Altre epifanie, colpevolmente perduto dalla RAI nei suoi master originali, continua il prezioso lavoro di riscoperta del cinema-saggio di Ellis Donda. Uno studio su James Joyce che ricalca le traiettorie e i simboli dei suoi personaggi, passando attraverso Brecht, Schönberg, Straub/Huillet e Lacan, alla ricerca di una forma cinematografica inedita da qualche parte oltre la performance d’avanguardia, oltre la critica, oltre la narrazione e oltre la musica. Il Festival I Mille Occhi, in collaborazione con Fuori Orario, lo ha restituito alla televisione pubblica e agli spettatori in piazza a Trieste.

Gente di Bologna

«Un film a partire da un testo joyciano sul cinema: immagini – riflessi condizionati – ispirazione residua – e voce. La vicenda del film è derivata (su un piano analogico, ma secondo precisi scatti dialettici) dalle brevi epifanie joyciane costruite appositamente in sequenza romanzata. Il video procede a stazioni, ciascuna delle quali identifica un personaggio o una relazione tra personaggi: un elegante negozio per Stevie, un Centro Documentazione Donna per Maggie, una discoteca per Leo, e ancora una sala giochi – una macchina di notte – una villa in collina». Quello realizzato da Ellis Donda per la Terza Rete dell’Emilia Romagna nel 1985, e mai più proiettato da allora, ci appare oggi tra gli oggetti cinematografici più inquieti e affascinanti del cinema italiano anni ’80. […] Dopo il film su Rilke a Duino qui Donda tratta l’esilio di Joyce, l’amore per Nora, e il pianto della sensuale Sacchetti col controcampo notturno viene a toccarci intimamente. (Sergio M. Grmek Germani) [sinossi]

«L’arte ha in dono i linguaggi, ma lo scheletro condiziona l’immagine estetica». Usa sin da subito le parole di James Joyce come una dichiarazione programmatica Altre epifanie, cucito sulle Epiphanies e sui tre principali personaggi joyciani per echi e richiami, per parole e scostamenti, per ombre sfuggenti e continui rapporti dialettici, un po’ come la struttura e gli stili dell’Ulisse di Joyce seguivano molto liberamente in parallelo gli episodi dell’omerica Odissea. Un film, prodotto e poi perduto nei suoi master originali dalla sede RAI dell’Emilia Romagna quasi come emblema della negligenza di una televisione pubblica dalla qualità oramai lontana e irripetibile, presentato nel 1986 al Festival di Salsomaggiore, trasmesso una sola volta in due parti, rimasto pressoché invisibile per quasi 35 anni e solo adesso riscoperto, nell’ambito della ricerca che Stefano Miraglia e Cecilia Ermini stanno portando avanti sul grande rimosso Ellis Donda, grazie alla videoregistrazione in VHS del suo unico passaggio televisivo, rimasta per tutti questi anni da qualche parte nella libreria della protagonista e co-sceneggiatrice Luciana Sacchetti. È proprio lei che, androgina fra il meta-set e la fissità splendidamente antinaturalistica del teatro di avanguardia, enuncia e scandisce quasi come se fossero un’invocazione alla Musa dei linguaggi artistici le elucubrazioni di un giovanissimo Joyce sul cinema come percezione e collegamento di sinapsi, ed è proprio lei che continuamente saprà entrare e uscire dal personaggio di Stevie, «istante in cui la parola si fa carne» dello scontro dialettico fra la narrazione e il verbo, fra la femminilità seduttrice e l’indefinitezza sessuale, fra la finzione e le citazioni letterarie. Ma non si limita alla già di per sé complessa rilettura critica e alla rievocazione/traduzione su schermo di Joyce, Altre epifanie. L’idea di cinema-saggio del lacaniano Ellis Donda si spinge più in là, come un evento musicale che riparte dalla voce degli attori e dalle parole della letteratura per spingere il film-saggio di Straub-Huillet e l’estraniazione di Brecht verso una continua dialettica hegeliana, alla ricerca del loro superamento in una forma cinematografica inedita e ipnotica da qualche parte oltre la performance d’avanguardia, oltre la critica, oltre la narrazione e oltre la musica. Un atto creativo che nasce dall’atto creativo per sintetizzare le forme d’arte, e che ripensa il cinema, e non solo l’oggetto di studio del film-saggio, attraverso lo scarto fra i linguaggi, attraverso il perenne giustapporsi delle parole e delle immagini, attraverso la ricerca di un punto di sintesi fra le voci e gli strumenti, fra il campo e il fuori campo, fra il cinema e il palcoscenico, fra la scrittura letteraria e il pentagramma, fra il dialogo e il flusso di coscienza. Fra una pistola che non spara e una busta piena di denaro, fra la fisicità delle fotografie e i filtri colorati attraverso cui guardarle. Fra una sala giochi e una discoteca, fra il giorno e la notte, fra una corsa in auto e gli occhi gonfi di lacrime.

Inizia in qualche modo dieci anni prima della sua realizzazione, la genesi di Altre epifanie. E non poteva che iniziare con – manco a dirlo – l’epifania che nel rileggere Rilke fra Vienna e Duino portò il finissimo intellettuale Ellis Donda a realizzare Engel und Puppe, quel cortometraggio sperimentale che nel ’75 inaugurava il suo personalissimo cinema-saggio, e che lo scorso anno, a partire dal ritrovamento di una copia in 16mm negli archivi parigini del Collectif Jeune Cinéma, ha dato il via al lavoro di riscoperta e ricerca filologica sul regista friulano. Non è certo un caso che, nella sua inedita (e probabilmente destinata a rimanere un unicum) forma ibrida fra le tre notti su RaiTre e i due giorni in presenza a Trieste, il Festival I Mille Occhi 2020 abbia deciso non solo di restituire l’appena ritrovato Altre epifanie alla televisione pubblica grazie alla sua collaborazione con Fuori Orario, ma anche di riprogrammare per la serata in piazza a Trieste i due film “letterari” di Donda insieme, di seguito, alla presenza del regista, per il secondo anno consecutivo invitato dal padrone di casa Sergio M. Grmek Germani nel capoluogo giuliano a parlare di un cinema che parte sì da una netta separazione della struttura filmica da quella del romanzo, ma che non rifiuta in alcun modo né la narrazione né i personaggi che la vivono. Li carica anzi di responsabilità simbolica, di sensi che costantemente si contrappongono e apertamente dialogano, di oggetti e luoghi emblematici con cui identificarli – i negativi delle foto di Joyce che, insieme alla discoteca e alla ricca casa di cui è proprietario, sono vessillo del personaggio di Leo, il Centro Documentazione Donna, la pistola in borsa e l’anello nuziale che rappresentano Meggie, la busta con il denaro e l’eleganza del negozio/atelier che identificano Stevie. In una ben precisa musicalità di tempi, pause e movenze, Donda si spinge alla ricerca di una declinazione filmica dell’espressionismo lirico di Schönberg, fra la stessa ricerca atonale nella costruzione del film e le medesime regole dodecafoniche nella scala cromatica della messinscena e nella perfetta alternanza dei personaggi. Ed ecco che ogni reiterazione è un nuovo senso, ogni citazione è una nuova stratificazione, ogni ritorno è una sfaccettatura, ogni gesto e ogni oggetto riacquistano la purezza di segno del quale costantemente ridiscutere significanti e significati, ed il montaggio alternativo per la divisione televisiva in due parti, con l’ulteriore ripetizione dei (pre)titoli di testa e della parte centrale non previsti inizialmente in sceneggiatura, diventa in qualche modo un’altra epifania all’interno delle epifanie. Come in un procedere su un doppio binario parallelo di ricerca letterale e plot filmico, la sfuggente e vendicativa Stevie di Luciana Sacchetti può quindi in qualche modo essere una novella incarnazione di Leopold Bloom, ma mai potrà dimenticare il suo ruolo di attrice/lettrice, di ponte letterario, di incarnazione sia dei conflitti dialettici sia delle aperte contraddizioni fra l’immagine e la parola.

Sono stupefacenti la lucidità e la chiarezza cristallina con cui Ellis Donda, in meno di un’ora, riesce a trasportare all’interno delle complessità di Joyce. Rilegge le brevi Epiphanies, fra i primissimi scritti dell’autore irlandese che qualche anno dopo sarebbero poi parzialmente confluiti a punteggiare Gente di Dublino, in episodi e in stazioni, in rapporti che si evolvono o che si svelano, in parole (e soldi, e anelli, e pistole, e negativi, e ambienti) che ritornano sempre ragionati e iperstratificati, eppure in qualche modo semplicissimi e toccanti, per rimettere ancora una volta tutto in discussione. Se l’Ulisse di Joyce si apriva con i primi tre capitoli sul redivivo artista da giovane Stephen Dedalus per introdurre solo più avanti Leopold Bloom, la narrazione di Altre epifanie sceglie al contrario di partire da Stevie, la protagonista, ma non potrà che tornare comunque allo schema già di Omero virando ben presto in una sorta di Telemachia su Meggie, l’altra, l’amica, la falsa, la doppiogiochista, la nuova moglie di quel vecchio amore traditore Leo che invece in qualche modo è Molly, e di sicuro è l’Irlanda da amare e da odiare, da abbandonare e da rimpiangere, da tentare di umiliare per poi scoprirsi umiliati. Seguirà, in perfetta progressione joyciana, l’Odissea di Stevie, che a sua volta non può che essere un doppio Nostos, prima quello verso Leo, la patria, e poi quello lacrimato del ritorno verso la città – una Bologna filmata nel cuore degli anni Ottanta eppure inedita, fatta del design d’interni di Dino Gavina e di locali alla moda, di luci colorate e di danze sfrenate, di flipper e di specchietti retrovisori, di ville sui colli e di televisioni che trasmettono il Live Aid – dopo l'(auto)esilio da lui. Due metà divise come James e Nora Joyce, in quella fotografia che insistentemente ritorna a ritrarli uno alla volta, scissi da una fredda striscia bianca: da una parte la vita, dall’altra l’amore; da una parte Dublino, dall’altra il girovagare dell’esiliato. Nemmeno il loro sentimento, del resto, è stato un rapporto matematico, nessun sentimento lo è. È per questo che quello di Stevie è inizialmente un ritorno rancoroso, per lanciare violentemente soldi in faccia e liberarsi di ogni debito e catena nei confronti di Leo, ma sarà destinato a sciogliersi in pianto e alienazione – «La febbre della follia assale i pazzi» – fino a ritrovarsi a cantare quella canzone popolare irlandese che, come un filo conduttore, ancora una volta ridiscute e infonde di nuovo senso l’intera narrazione. È proprio nella violenza mascolina che non riesce a dissimulare la femminilità di Stevie, così come nel suo rapporto mozzato, ambiguo e tutto fuorché leale con Leo, che si trovano al contempo Lacan e la sua negazione. Il n’y a pas de rapport sexuel fra gli amanti vuol dire come sempre castrazione psicanalitica, non-relazione senza più reali funzioni, ma qui la pistola che passa di mano diventa lotta, il combattimento diventa sensualità, e l’algida androginia del meta-fuoricampo diventa nella finzione quel sussurro (o forse grido) di un erotismo mai del tutto sopito prima delle lacrime rigirando l’anello fra le dita. Forse è il riunirsi – anche carnale – di James e Nora, finalmente senza più divisioni, ma al contempo, inevitabilmente, è anche quel pianto disperato di chi non potrà che passare tutta la vita a scrivere di una sola città con cui la frattura è invece insanabile. Ci sarà sempre un’altra barriera, ci sarà sempre un altro pensiero, ci sarà sempre un’altra associazione di idee. Ci sarà sempre una nuova malinconia. Ma ci saranno sempre anche un nuovo linguaggio, e un nuovo «scheletro», con cui esprimerla.

Info
Altre epifanie sul sito de I Mille Occhi.

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