The Island

The Island

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Nel doveroso tributo in tre film che il Far East di Udine ha dedicato all’ottantatreenne Po-Chih Leong spicca la proiezione del folle The Island, thriller-horror malsano che pone in antitesi il mondo della tradizione e quello della modernità, attraverso uno stile schizofrenico che porta alle estreme conseguenze lo slasher d’oltreoceano. Divertente, crudele, sarcastico, con tre villain che meriterebbero un posto nella storia del cinema.

Pesci combattenti

L’insegnante Cheung porta i suoi studenti in gita per due notti in una remota isola rurale, credendo che sia disabitata. Ma subito dopo l’arrivo il gruppo si imbatte in uno degli abitanti dell’isola, che gestisce il locale negozio di alimentari. È uno di tre fratelli, tutti con diversi gradi di squilibrio mentale: hanno appena seppellito la madre e cercano disperatamente di far sposare il fratello più giovane, che è anche il più disturbato, per ottenere una discendenza e soddisfare così il desiderio della madre morente. Avendo scoperto che una rifugiata cinese da loro catturata non è vergine e quindi non qualificata per il matrimonio, i fratelli prendono di mira Phyllis, una delle giovani studentesse, come potenziale sposa. [sinossi]

C’era una volta, tanto tempo fa, in una colonia lontana lontana… Se la brutalità sardonica che pervade il corpo anarchico di The Island (ben più poetico l’originale 生死線, traslitterato in Sang sei sin e traducibile come “La linea della vita e della morte”) non ha nulla di favolistico, nonostante si pretenda dal pubblico la doverosa dose di sospensione dell’incredibilità, la mente cinefila vaga e sembra quasi collocare nelle brume della mente l’epoca storica in cui il film di Po-Chih Leong venne alla luce: la Hong Kong del 1985 – il film venne distribuito in sala il 10 novembre, lontano dunque da qualsiasi festività locale – è oramai una terra ancora più incognita di quella brulla isola in cui uno sprovveduto e ancora giovane professore trentatreenne decide di condurre i suoi studenti. Dall’handover dell’1 luglio 1997, il momento topico della storia recente della piccola città-stato, progressivamente nulla è stato più come prima: se ne sono accorti i cittadini hongkonghesi, ovvio, ma è parso chiaro anno dopo anno anche ai fedeli spettatori del Far East Film Festival di Udine, che proprio per rendere reverente omaggio alla produzione di Hong Kong venne alla luce sul finire del millennio. Rivedere sul grande schermo la libertà espressiva di quella cinematografia, al di là di qualsiasi speculazione di carattere politico, è un’emozione così forte da arrivare a rendere quasi struggente un villain affetto da demenza con tanto di moccio pendente dalla narice destra. Il tempo passa, e si dovrebbe sempre possedere uno sguardo proteso al futuro, ma è difficile non provare intensa nostalgia per un cinema che, nell’estremo oriente come in occidente (e il discorso sui mutamenti nei codici della rappresentazione meriterebbe un discorso a parte), si teneva a debita distanza dalla prassi, dalla logica predigerita, dall’ovvio. Sotto questo punto di vista la ricca retrospettiva ordita dal Far East, e dedicata alla produzione continentale pre-FEFF, rischia di diventare una pugnalata al cuore cinefilo, come ha ben dimostrato l’omaggio nell’omaggio offerto a Po-Chih Leong, con tre film significativi della sua folta filmografia – una trentina di lungometraggi dal 1976 a oggi. Hong Kong 1941, The Island, Ping Pong, tre titoli che mostrano la versatilità di Leong, ma soprattutto la succitata libertà espressiva in grado di cogliere il punto di incontro tra le esigenze del “mercato” e le velleità personali.

Principia su un enorme acquario, The Island, dove i pesci si inseguono, si mordono a vicenda, combattono muovendosi con eleganza estrema nell’acqua, in uno spazio definito dal quale non c’è scampo. Leong pone subito al centro del discorso un’inquadratura che è al tempo stesso cinefila – difficile non pensare all’allora recente Rusty il selvaggio di Francis Ford Coppola –, e metaforica tanto sotto il profilo politico-sociale quanto sotto quello strettamente narrativo. Se i pesci che combattono tra loro senza avere vie di scampo si trovano nella stessa condizione che vedrà vittime i protagonisti del film, lo stato non è poi così dissimile a quello di Hong Kong, spazio liminare che vede espandersi sempre più il conflitto tra antico e moderno, tra tradizione e scienza, banalmente tra vecchio e nuovo. Una riflessione che si estende anche al rapporto tra il “porto profumato” e la Mainland China, testimoniato dalla presenza in scena di una profuga cinese che dopo aver attraversato a nuoto il mare è finita letteralmente dalla padella nella brace. Lo stile di Leong è eclettico, ondivago come le onde che si infrangono su quest’isola che dovrebbe essere deserta e invece di insidie ne nasconde molte, siano esse naturali – il cobra che minaccia il professore su una roccia a strapiombo – o umane. Guarda senza problemi al cosmo dei b-movie, Leong, si lancia in circonvoluzioni della camera che riportano alla mente i movimenti che resero giustamente celebre il Sam Raimi de La casa; d’altro canto l’incipit, con i tre fratelli che sotto l’egida di una anziana madre despota legano, seviziano, minacciano la profuga cinese con la speranza che essa sia vergine, e dunque “degna” del figlio più piccolo, sembra quasi un aggiornamento in salsa cantonese della famiglia di cannibali immortalata da Tobe Hooper nel fondamentale Non aprite quella porta.

Da un punto di vista meramente schematico The Island non presenta asperità per il pubblico, perché la narrazione si adagia nel solco dello slasher movie, con il “cattivo” di turno che prende di mira una comitiva di ragazzi. Qui però tale schema trova dei contrappunti per niente banali, e che arricchiscono stratificandolo il discorso. Innanzitutto i “cattivi” sono per l’appunto tre, quattro se si considera lo spirito-guida della madre che poco dopo l’incipit è defunta, tumulata nella fatiscente casa abitata dai fratelli: non solo, tutti e tre i giovani uomini sono affetti da demenza, anche se in modo e a un livello diverso l’uno dall’altro, oltre al fatto che non hanno padre quasi fossero stati generati dall’isola stessa, in una forma di partenogenesi che poco o nulla ha di umano. Questo superamento della natura umana sembra suggerito anche dalla sequenza che vede il professor Cheung – su cui si tornerà tra poco – colpire ripetutamente con un enorme bastone il più grande dei fratelli che l’ha raggiunto nel folto della boscaglia dopo un breve inseguimento: nonostante l’enorme fronda lo colpisca più volte in pieno petto l’uomo non fa una piega, e torna continuamente alla carica, in modo inesausto. Questo lato cartoonistico fa deflagrare una volta per tutte l’impianto orchestrato con mano delirante da Leong, che con l’avanzare del film aumenta anche il suo livello di sadismo senza però mai rinunciare a uno sguardo consapevolmente ironico, sarcastico, come testimonia ad esempio il giovane studente seviziato a colpi di ricci di mare nella schiena. La presenza della figura di Cheung, giovane professore che desidera che anche i suoi studenti conoscano l’isola cui evidentemente è legato da un sentimento di melanconia della propria adolescenza, elabora anche una amara riflessione di Leong: non è solo la giovinezza a non poter molto contro la tradizione ancestrale, ma anche l’adulto hongkonghese ha smarrito la propria radice, e così è vittima di un mondo rurale e ancora belluino. The Island nell’ultima parte si trasforma quasi in una riedizione della fiaba dei tre porcellini, minacciati però stavolta da ben tre lupi, e sotto la guida di un maialino saggio occhialuto e a sua volta sperduto. Strepitoso esempio di exploitation in grado di tenere insieme elementi tra loro in apparente contraddizione, The Island termina come da “tradizione” sullo scontro definitivo tra bene e male, ovviamente da condurre nell’acqua torbida di uno stagno. Come pesci combattenti.

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