La grande nebbia

La grande nebbia

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Punto d’arrivo dell’attività registica di Ida Lupino, La grande nebbia è un melodramma secco ed essenziale contraddistinto da un realismo di fondo e da una profonda comprensione delle debolezze umane che è marca distintiva dello stile dell’autrice. Che qui, in scena anche come interprete, dà vita ad uno dei suoi tipici personaggi volitivi e orgogliosi. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

La doppia vita di Harry Graham

Nell’impossibilità di avere un figlio proprio, i coniugi Graham si rivolgono a Jordan, funzionario responsabile per le pratiche di adozione. Messo sull’avviso da alcuni atteggiamenti reticenti del marito, il funzionario svolge delle indagini su Harry Graham, costretto dalla propria attività commerciale a soggiornare di frequente fuori casa. Jordan scopre quindi nelle sue indagini durante una trasferta a Los Angeles che, col nome di Harrison, l’uomo è sposato a Phyllis Martin, dalla quale ha avuto un figlio. Messo alle strette, Harry gli narra delle circostanze che lo hanno portato alla bigamia. [sinossi]

L’opera registica di Ida Lupino rappresenta un piccolo corpus segreto nella storia del cinema americano, caratterizzato da un’estrema coerenza di temi e valori formali. Se si eccettua Guai con gli angeli (The Trouble with Angels, 1966) tardo film per ragazzi su commissione da considerare come un esito separato dal resto della sua produzione, esso si estende su appena quattro anni, dal 1949 al 1953. Ne fanno parte tre melodrammi, Non abbandonarmi (Not Wanted, 1949), Never Fear (1950) e La grande nebbia (The Bigamist, 1953), un dramma sportivo (Hard, Fast and Beautiful, 1951), un thriller noir come La belva dell’autostrada (The Hitch-Hiker, 1953) e un’opera di fatto inclassificabile quale La preda della belva (Outrage, 1950). Il mélo è dunque un terreno congeniale a Lupino, in un’accezione però molto diversa rispetto a un Ray, un Kazan o un Sirk, tanto per fare alcuni nomi che è possibile ritrovare nel programma della rassegna Magnifiche Ossessioni. Innanzitutto perché si tratta di produzioni a basso costo, autofinanziate dall’attrice/regista assieme col compagno Collier Young (anche sceneggiatore di quasi tutti i film) per la sua personale compagnia The Filmakers, fondata nel 1948 durante un periodo molto delicato della carriera di Lupino, una fase di transizione che la vide abbandonare la Warner Bros. in seguito a una frattura con il boss Jack Warner a causa del rifiuto di molti ruoli che le venivano proposti. E alla tendenza a revisionare personalmente gli script, pratica considerata inaccettabile dallo studio.
La Filmakers produsse in totale dodici film, sei diretti da Lupino, cinque da lei scritti o co-sceneggiati, tre nei quali figurava come attrice e uno come co-produttrice. La piccola compagnia si era data una missione, una vera e propria linea guida tramite la quale realizzare opere low-budget che possedessero un marcato contenuto sociale atto a portare una ventata di realismo sullo schermo. Il proposito era quello di raccontare certi aspetti del vivere americano attraverso film che convenzionalmente potremmo definire di serie B (ma con collaboratori tecnici anche prestigiosi come Archie Stout, direttore della fotografia stretto collaboratore di John Ford), girati in due settimane per un budget di poco inferiore a 200.000 dollari e con attori ricorrenti (come Sally Forrest, protagonista per ben tre volte e vero alter-ego della regista), con soggetti che bilanciassero entertainment e scavo politico/sociale e che trattassero temi considerati al limite della rappresentabilità aggirando abilmente le strettoie del codice Hays allora in piena osservanza. Ecco allora lo stupro al centro della vicenda ne La preda della belva che costringe la protagonista Mala Powers a un’erranza, un esilio volontario che ricorda il percorso esistenziale di un eroe da film noir di cui ella è il contraltare femminile. O ecco ancora la gravidanza indesiderata che sorregge tutta l’impalcatura narrativa di Non abbandonarmi, forse il frutto più affascinante di questo pugno di opere, decisamente anticonvenzionale per come relega sullo sfondo i personaggi maschili lasciando spazio alla soggettività distorta dell’eroina che deve passare attraverso un purgatorio esistenziale il quale preclude, forse, alla salvezza, al prezzo però della rinuncia alla creatura che ha portato in grembo. E ovviamente la bigamia, pratica illegale trattata con insospettabile tatto e sensibilità ne La grande nebbia.

Due sono i tratti che colpiscono maggiormente nell’apprendistato registico di Ida Lupino. Il primo è lo straordinario senso di economia narrativa ottenuto attraverso uno stile depurato e limpido che produce racconti dal minutaggio contenuto (tra i 75’ e i 90’) in cui l’ellissi gioca un ruolo espressivo fondamentale: con un minimo di eventi e di personaggi, con situazioni private di qualsiasi orpello aneddotico, con un uso molto spontaneo del decoupage classico all’interno del quale Lupino però non manca di utilizzare con maestria il long take e talvolta il piano-sequenza, con un registro narrativo giocato abilmente sui toni contrapposti della violenza e della tenerezza; questi film, che possono per certi versi ricordare le prime opere americane di Joseph Losey, hanno come tema centrale la lenta cicatrizzazione di una ferita che per il personaggio femminile è in primo luogo fisica (l’abuso sessuale ne La preda della belva, il calvario della poliomelite in Never Fear, il travaglio del parto in Non abbandonarmi) e poi, conseguentemente, morale, vissuta come un torto o un’offesa subìta in prima persona. Il secondo aspetto rilevante è la peculiare qualità che potremmo definire documentaristica di questo approccio al melodramma, accentuata dal ricorso fotografico a un bianco e nero sobrio e uniforme (si veda anche il taglio da diretta televisiva con cui sono ripresi gli incontri di tennis in Hard, Fast and Beautiful), tale da aprire squarci di realtà nelle maglie del racconto che operano dunque anche come testimonianza di istituzioni sociali specifiche (ospedali, case di cura per ragazze madri, comunità religiose di campagna) le quali fungono da ossatura al consesso civile ma che di rado assurgono a protagoniste sul grande schermo.
La grande nebbia, ambientato tra San Francisco e Los Angeles (la California è la terra d’elezione di tutti i film della coppia Lupino/Young), è un melodramma secco, essenziale, che testimonia un affinamento ormai completo dello stile della regista, qui per la prima volta anche interprete di un film da lei stessa diretto. Al centro, caso unico per i melodrammi dell’autrice, c’è una figura maschile, quella di Harry Graham, mentre la controparte femminile è scissa in due personaggi opposti e complementari: la moglie Eve, incarnata da Joan Fontaine, con i tratti dell’ambizione, del prestigio sociale e dell’indipendenza economica, sviluppati probabilmente per l’impossibilità ad avere figli cui la condanna la sua sterilità e l’amante Phyllis, fragile e sola ma cui comunque l’interpretazione di Lupino conferisce i suoi tipici connotati duri e volitivi quali si ritrovano nelle sue prove d’attrice più celebrate, quelle per Raoul Walsh in particolar modo. Un quarto personaggio fondamentale, Mr. Jordan, il titolare dello studio per le adozioni ha lo stesso ruolo che avrebbe un detective se La grande nebbia fosse un film noir: coscienza morale dell’intreccio, ha il compito di indagare sul passato e il presente dei Graham per verificare che siano idonei alla presa in carico del bimbo.

Questa partita a quattro è giocata da Young sul piano della scrittura e da Lupino su quello della messa in scena con un’equidistanza tale per cui ogni personaggio ha le sue ragioni in ottemperanza ad uno dei requisiti più marcati delle regie dell’autrice, una profonda comprensione delle dinamiche umane che si approssima ad una laica forma di pietas. Harry non è un vizioso dedito alla soddisfazione dei propri piaceri; davvero, come suggerisce la conclusiva arringa processuale, ama entrambe queste donne e se si è avvicinato a Phyllis al punto di costruire una doppia vita con conseguente altra identità da mantenere, è solo perché il matrimonio è diventato qualcosa di più simile ad un’impresa di vendite che ad un’unione coniugale, tanto le dinamiche lavorative si sono insinuate nel vivere quotidiano della coppia fino a prosciugarne l’afflato sentimentale. Phyllis rappresenta dunque per l’uomo un’occasione per rinfocolare la sfera affettiva e certo anche la vis erotica, per tamponare la solitudine delle numerose trasferte di lavoro in una Los Angeles spersonalizzante, dove le ville degli attori sono le principali vestigia turistiche. Ed è proprio in uno di questi tour guidati alla scoperta delle residenze dei divi viste dal finestrino di un autobus (e in questa scena Lupino sembra sottolineare ironicamente la propria distanza dall’industria hollywoodiana) che tra Harry e Phyllis scocca la scintilla dell’attrazione. Il rapporto tra i due è tratteggiato da Lupino con calore e partecipazione, di contro alla maggiore freddezza riservata ad Eve quantomeno sulla base di certe efficacissime trovate visive: in un momento cruciale e assai significante del racconto che Harry fa a Jordan riguardo l’impoverimento del suo legame con la moglie, un flashback mostra l’uomo camminare desolato e senza una meta per le strade di Los Angeles fino a quando la macchina da presa si sofferma su un manichino dalle fattezze femminili proprio mentre la voce fuori campo racconta di come il matrimonio sia diventato ormai una partnership commerciale. Il film, con grande plausibilità di scavo psicologico, procede stritolando lentamente Harry tra i due estremi che lo fanno precipitare in una situazione senza via d’uscita, in cui il personaggio non ha libertà di manovra: la propria rispettabilità da preservare da una parte, la paura di arrecare dolore a una delle due donne dall’altra. Ma La grande nebbia è anche un’opera che non arretra nel denunciare a suo modo le storture della mentalità puritana statunitense come quando nel discorso finale dell’avvocato difensore di Harry si dice chiaramente che la società ipocritamente chiuderebbe un occhio sullo status di Phyllis come amante tanto quanto insorgerebbe scandalizzata nell’apprendere che Harry l’ha resa la sua seconda moglie. E il finale comprende anche uno dei più curiosi e maliziosi inside joke del cinema americano: dal momento che lo sceneggiatore Collier Young è stato sposato prima con Ida Lupino e subito successivamente, al tempo delle riprese del film, si è legato a Joan Fontaine, quando al termine del processo le due donne si scambiano una lunga occhiata nell’aula giudiziaria si ha anche un vertiginoso cortocircuito tra realtà e finzione tale per cui è possibile considerare La grande nebbia come una pellicola non scevra da forti tracce autobiografiche. Il film solleva domande più che fornire risposte certe; ed è Harry, alla fine, chiamato a giudicarsi in prima persona. Pur restando chiara l’impossibilità nello sciogliere i nodi che le umane relazioni portano con sé, riassunte perfettamente dalla battuta che il moralista Mr. Jordan gli rivolge prima di congedarsi dopo aver ascoltato la sua storia: “Non so esprimere i miei sentimenti verso di lei. La disprezzo. E la compatisco. Non voglio nemmeno stringerle la mano. Eppure sono tentato di augurarle buona fortuna”.

Info
La grande nebbia, un trailer.

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