Improvvisamente l’estate scorsa

Improvvisamente l’estate scorsa

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Sesta trasposizione cinematografica di un testo di Tennessee Williams, Improvvisamente l’estate scorsa costringe Joseph L. Mankiewicz a confrontarsi con la mannaia della censura; questo ostacolo permette però al regista insieme allo sceneggiatore Gore Vidal di trasformare l’allusione in rimosso dell’inconscio, in un’amara e terrificante rappresentazione della crudeltà della natura, e della poesia e dell’arte come atto innaturale. Straordinario il cast, a partire dal conflitto tra Katharine Hepburn ed Elizabeth Taylor che sa anche di ideale passaggio di consegne tra due generazioni di attrici. Tra i classici riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

In absentia

New Orleans, 1937. La ricca ed eccentrica Mrs. Violet Venable si rivolge alla clinica psichiatrica del dottor Hockstader promettendo un milione di dollari perché venga attuato un trattamento di lobotomia su sua nipote Catherine Holly. La ragazza, attualmente degente in un istituto religioso, ha iniziato a soffrire di disturbi emotivi particolarmente violenti dopo che Sebastian, suo cugino e figlio di Violet, è morto in circostanze oscure durante una vacanza in Spagna alla quale era presente anche lei. Allo scopo viene chiamato uno specialista, il dottor Cukrovicz. [sinossi]

Nel 1949, appena quarantenne, Joseph L. Mankiewicz affronta per la sesta volta in appena tre anni la messa in scena di un lungometraggio portando a termine Lettera a tre mogli, sapida commedia che satireggia sull’ipocrisia borghese dietro l’istituzione del matrimonio e sulle “donne di classe”. Per ottenere questo risultato il regista e sceneggiatore statunitense opta per una scelta radicale ma di estrema efficacia rappresentativa: l’elemento dissonante del film, la celeberrima Addie Ross che aleggia come una minaccia sulle tre protagoniste – alle quali ha confidato tramite missiva che ruberà uno dei loro mariti – non compare mai in scena, ma tramite la voce narrante affidata a una Celeste Holm all’epoca nel pieno fulgore della sua fama hollywoodiana (aveva appena vinto il premio Oscar come miglior interprete non protagonista per Barriera invisibile di Elia Kazan) punteggia l’intera vicenda, di fatto guidando lo sguardo dello spettatore. Un personaggio in absentia, che proprio per via della sua natura immateriale fa emergere con maggior forza le distonie e le contraddizioni delle convenzioni borghesi, e dunque in ultima istanza la tartuferia della società stessa. È interessante notare come esattamente dieci anni dopo Lettera a tre mogli, nel 1959, Mankiewicz ritorni al medesimo espediente, per ragioni così diverse da apparire diametralmente opposte ma in fin dei conti tese a raggiungere proprio lo stesso obiettivo. Il testo teatrale di Improvvisamente l’estate scorsa, presentato sul palco per la prima volta nel gennaio 1958, era stato pensato da Tennessee Williams per essere rappresentato insieme a un altro atto unico, Something Unspoken, ma fin dalle prime repliche apparve evidente la sproporzione tra l’impatto della prima e della seconda pièce, al punto che ben presto – e da allora praticamente sempre – Suddenly Last Summer iniziò a fare cartellone come spettacolo a sé stante. Traendo ispirazione da una triste vicenda personale legata alla storia della sua famiglia, che vide sua sorella Rose resa una sorta di vegetale da una lobotomia approvata dalla dispotica madre (che il drammaturgo non perdonò mai per tale scelta), e creando una sorta di liason con l’altrettanto tragica esperienza di vita del poeta simbolista Hart Crane, suicidatosi poco più che trentenne nel Golfo del Messico, Williams diede vita a uno dei suoi testi più stratificati, in grado di ragionare tanto sulla vacuità dell’arte quanto sull’insabbiamento così radicato nelle buone famiglie di ogni pulsione omoerotica da trasformare la difesa dell’onorabilità del nome in vero e proprio atto omicida, per poi giungere a una delle più sconvolgenti narrazioni del concetto stesso di mercimonio del corpo che si sia avuto modo di conoscere nella letteratura.

Com’è fin troppo facile intuire un testo come quello di Williams non avrebbe mai potuto superare le forche caudine della censura hollywoodiana, ancora dominata dal Code Hays che tante vittime illustri aveva già mietuto: solo l’anno prima della realizzazione della versione cinematografica del testo teatrale un altro adattamento dal drammaturgo nativo di Columbus, nel Mississippi, era andato incontro a una riscrittura così evidente da arrivare a far zoppicare la logica stessa dei comportamenti dei personaggi in scena. Si sta qui facendo riferimento a La gatta sul tetto che scotta, che nella pur fiammeggiante versione diretta da Richard Brooks aveva dovuto derubricare l’impossibilità del personaggio interpretato da Paul Newman di trovare un proprio posto sereno in seno alla famiglia dal senso di colpa per il suicidio del compagno di squadra di cui era innamorato alla rabbia nei confronti della moglie con cui il fu migliore amico aveva avuto modo di appartarsi. Il sottinteso del testo primigenio riusciva comunque a far capolino, sia per la splendida regia di Brooks che per lo straordinario lavoro del cast, dominato dalla dialettica incessante tra Newman e una sublime Elizabeth Taylor. Anche la versione in celluloide di Un tram che si chiama Desiderio realizzata da Elia Kazan era stata costretta a revisioni a dir poco impattanti, a partire dall’eliminazione sempre della componente omosessuale (nuovamente utile a far scaturire il senso di colpa di uno dei personaggi, nello specifico Blanche DuBois). È Gore Vidal, cui venne assegnato il compito di desumere una sceneggiatura dal testo di partenza – come già accaduto in altre occasioni Williams è comunque accreditato a sua volta come sceneggiatore –, a dichiarare come durante la fase di scrittura di Improvvisamente l’estate scorsa gli fosse fatta esplicita richiesta di rimuovere ogni riferimento all’identità stessa del personaggio di Sebastian, attorno alla cui scomparsa misteriosa in terra spagnola ruota l’intera vicenda. Ed è proprio qui che si può riallacciare il discorso con quello affrontato dianzi rispetto a Lettera a tre mogli. Mankiewicz ha di nuovo l’opportunità di trovare proprio nell’elisione di qualcuno che andrebbe visto perché è il vero motore dell’azione il punto di forza della messa in scena. Sebastian non c’è. Non può esserci, perché è morto. Non può esserci perché l’unica persona che serba memoria del tragico momento (la cugina di Sebastian, una giovane ragazza di nome Catherine) ha subito un trauma emotivo e psicologico dal quale fatica a riprendersi, costretta com’è in un istituto psichiatrico. Non può esserci, perché la madre che l’adorava e l’adora (e lo considera un grande artista, dettaglio tutt’altro che trascurabile) non vuole ritrovare memoria del figlio, ma ha anzi così tanta paura che questa memoria torni a essere presente da promettere cifre iperboliche per chi volesse operare una lobotomia su Catherine.

Di nuovo, il protagonista è in absentia, e Mankiewicz può utilizzare questo ectoplasma per lavorare tanto sul subconscio dei suoi personaggi quanto su quello degli spettatori, ordendo un giallo che segue però le regole del melodramma, e non quelle della detection. A distanza di sessantacinque anni è impressionante notare con quale violenza e brutalità affiorano temi del tutto distanti dalla prassi dell’epoca, e non solo nella Mecca del cinema statunitense: Sebastian sfrutta letteralmente la dolce cuginetta come esca viva per attrarre a sé giovanotti che poi potrà corrompere con il denaro (il Capitale) per soddisfare le proprie voglie sessuali – e si comprende che ha agito nello stesso modo per anni con la madre, senza che questa se ne accorgesse prima di essere rimossa dall’incarico perché divenuta troppo anziana per sopperire allo scopo; il contrappasso cui va incontro il giovane “poeta” è quello di essere sbranato vivo dagli stessi ragazzi, pressoché morti di fame e proprio per questa loro povertà schifati da Sebastian, che già brama raggiungere i paesi nordici dove tutti i maschi sono alti, aitanti, e biondi; Catherine arriva a un passo da subire la rimozione delle connessioni nella corteccia prefrontale del cervello, e prima tenta comunque il suicidio; Violet Venable, l’austera madre di Sebastian e zia di Catherine, messa di fronte alla verità – focalizzando l’attenzione su questo dettaglio è interessante annotare come il racconto finale di Catherine risulti definitivo, assunto come verità inoppugnabile nonostante la ragazza abbia tutti i vantaggi a cercare di evitare il folle intervento chirurgico – impazzisce e perde completamente il senno, come un’eroina shakespeariana.

Punto di passaggio epocale all’interno della filmografia di Mankiewicz, che passerà dai sedici lungometraggi diretti in appena tredici anni dall’esordio ai soli quattro portati a termine nei successivi tredici, Improvvisamente l’estate scorsa riesce a contenere all’interno dei codici del classico una dimensione incubale, malsana, e allegorica che già guarda alle ridefinizioni del moderno: si veda l’insistenza nel riferimento alla natura come elemento distruttore, privo di bontà, e divoratore, che si fa largo sia nella sequenza della serra, dove Violet e il dottor John Cukrowicz – che deve verificare la “giustezza” nella richiesta della donna di lobotomizzare la nipotina – osservano una pianta carnivora all’opera, sia nella memoria della stessa donna che ricorda quando assistette con Sebastian alla schiusa delle uova di tartaruga con le piccole testuggini destinate in parte al martirio per via dell’assalto degli uccelli. Per non parlare ovviamente dell’allucinatoria memoria finale di Catherine, che trasforma un cupissimo dramma da camera in un vero e proprio horror a cielo aperto, distorto e venefico, dove l’essere umano è completamente alla mercé dei suoi simili, e del contesto brullo e selvaggio nel quale trova a muoversi. Ecco dunque che come le testuggini anche Catherine deve essere mandata al martirio, per preservare il buon nome di Sebastian, e la sua memoria come poeta prima ancora che come essere umano. Nel sistema del Capitale, dove ogni cosa ha un prezzo, l’umano si ciba del suo simile senza la minima pietà. Per questo la “confessione” di Catherine, finalmente in grado di superare il proprio trauma, appare come una liberazione attraverso lo sguardo. Ciò che era alluso ora è visibile, e proprio quella violentissima visione permette il riemergere dell’umanità, nell’avvicinamento tra il dottorino e la ragazza. Il cinema, la visione, l’onirico che si fa materia pur non tangibile è l’unica salvezza, prima ancora del dialogo, con maggior forza di ogni altro elemento artistico. In questo splendido mélo dallo strapotere dialettico e visionario trova poi spazio, in ultima analisi, un ideale passaggio di consegne tra due generazioni di mattatrici: Katharine Hepburn si apre alla follia, pur senza rinunciare al trono, e lascia il campo al corpo ben più giovane di Elizabeth Taylor, come sempre splendente. Entrambi corpi – cui fa da collante il caracollare veramente malato di Montgomery Clift, che pare sia stato motivo di grande insoddisfazione per Mankiewicz pur producendosi in una interpretazione senza dubbio sofferta – comunque da dare in pasto agli spettatori. Perché forse anche il cinema, e la produzione attraverso il Capitale, è un po’ come Sebastian.

Info
Improvvisamente l’estate scorsa, il trailer.

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